AdT
Arxiu de Tradicions
Trexenta Storica
Insula Noa
Temi di storia e cultura sarda
Quaderno num. 2, settembre 2020
AdT
Arxiu de Tradicions
Trexenta Storica
Insula Noa
Temi di storia e cultura sarda
Quaderno num. 2, settembre 2020
INSULA NOA, Temi di storia e cultura sarda. Anno I, num. 2, settembre 2020.
Insula Noa è un progetto associativo di «Trexenta Storica» e «Arxiu de Tradicions», inserito nel Censimento della
Terza missione dell’Insegnamento di Lingua e Letteratura Catalana (Filologia Romanza) del Dipartimento di Lettere,
Lingue e Beni Culturali dell’Università degli Studi di Cagliari (triennio 2020-2023).
Editore: Sergio Sailis
Redazione
Sergio Sailis (Trexenta Storica)
Salvatore Pinna (Arxiu de Tradicions)
Joan Armangué i Herrero (Arxiu de Tradicions)
© Arxiu de Tradicions
Reg. impresa: 221,861
CIF 22113080920
© degli autori
Prima edizione: 26 settembre 2020.
Giornate Europee del Patrimonio (European Heritage Days) – Italia, 2020: «Imparare per la vita».
Copertina
La Sardegna nella mappa attribuita a Battista Agnese, Ms. Latin 18249
Bibliothèque Nationale de France, Département des manuscrits – Source gallica.bnf.fr / BnF
Quarta di copertina e logo interno
Profilo della Sardegna nelle mappe di Piri Reis,
Walters Art Museum’s Baltimora, manuscript W.658.226B.
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Insula Noa, num. 2/2020
Indice
INDICE
La Redazione
Presentazione .........................................
3
Sergio Sailis
La sconfitta di Guglielmo di Massa
(Salusio IV Giudice di Cagliari).............
5
Lucia Mocci
Arte sacra a Sanluri nella seconda metà
del Cinquecento .....................................
17
Joan Armangué i Herrero
Pisani nel contesto della memoria
leggendaria di Esterzili ..........................
51
Giuseppe Piras
«P. Joseph Monserratus de Castro
Aragonesio ...»: annotazioni epigrafiche
e recenti acquisizioni sul pittore
Antonio Maria Casabianca, con una
possibile attribuzione a lui del dipinto
raffigurante
il
Padre
Giuseppe
Monserrato nella S. Maria delle Grazie
di Castelsardo ........................................
67
La cattedrale di Alghero. Cenni sulla
sistemazione del suo presbiterio nel
XVII – XVIII secolo ................................
121
Durdica Bacciu
Gli spazi dei morti nella Gallura postmedievale. L’habitat disperso ................
143
Salvatore Pinna
P. Jeronimo Minutili di Benetutti.
Missionario Gesuita esponente di una
famiglia napoletana trapiantata in
Sardegna nel XV secolo .........................
157
Autori dei contributi ..............................
179
Aldo Sari
1
Insula Noa, num. 2/2020
Indice
2
Insula Noa, num. 2/2020
Presentazione
PRESENTAZIONE
Con questo numero arriviamo al secondo appuntamento con i quaderni di
Insula Noa. Inizialmente si era pensato di proseguire nelle pubblicazioni dei
contributi con una cadenza semestrale ma, cogliendo l’occasione delle
Giornate Europee del Patrimonio (European Heritage Days) – Italia, 2020:
«Imparare per la vita», e considerando che diversi saggi della presente
raccolta riguardano specificatamente opere d’arte e monumenti, si è pensato
di anticipare la scadenza prefissata e farla coincidere con questo evento
internazionale.
Come per il numero precedente abbiamo comunque cercato di
miscelare le materie oggetto dei singoli contributi in modo da avere diversi
argomenti da approfondire. Anche questa volta infatti a temi prettamente
storici sono stati accostati altri relativi a personaggi sardi che hanno
contribuito alla sviluppo delle conoscenze del Nuovo Mondo, alla nascita di
leggende nei paesi dell’interno, alla tipologia degli insediamenti galluresi e,
come già detto, all’esame di varie opere d’arte contenute nelle nostre chiese
e musei. Siamo peraltro molto soddisfatti del fatto che proprio nella stesura
di alcuni di questi articoli siano state fatte diverse importanti scoperte che
gettano nuova luce su opere d’arte e personaggi meritevoli di diversa
attenzione.
Come al solito quindi vi auguriamo una buona lettura.
La Redazione
3
Insula Noa, num. 2/2020
Presentazione
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Insula Noa, num. 2/2020
Sergio Sailis
LA SCONFITTA DI GUGLIELMO DI MASSA
(SALUSIO IV GIUDICE DI CAGLIARI)1
Sergio Sailis
(Trexenta Storica)
Nel gennaio 1213 si ebbe l’epilogo della ormai pluriennale lotta tra
Guglielmo Marchese di Massa2 (nonché Giudice di Cagliari, con il titolo
dinastico di Salusio IV, e d’Arborea), e la fazione dei Visconti3 per il
predominio politico nel Comune di Pisa e in Sardegna.
Nell’isola infatti il Marchese, dopo aver preso il potere nel giudicato
di Cagliari nel 11874, qualche anno dopo nel 11955 o 11966 invade quello di
1
Il presente articolo contiene aggiornamenti e integrazioni rispetto a quello pubblicato
sul sito https://trexentastorica.blogspot.com/2013/08/la-sconfitta-di-guglielmo-di-massaal.html .
2
Guglielmo apparteneva al ceppo degli Obertenghi toscani; per una sintesi biografica
vedere Mauro RONZANI, «Guglielmo di Massa», in Dizionario Biografico degli Italiani,
vol. 61 (2004). Cfr. Annamaria OLIVA, «Guglielmo di Massa “al pro Marques de
Sardenha, qu’ ab joi viu et ab sen renha”», in Gli Obertenghi di Massa e della Lunigiana ed
i regni della Sardegna (secoli XII-XIV), ed. M.G. Armanini e M. Tangheroni, Pisa 1999,
pp. 85-108.
3
Sulla consorteria pisana dei Visconti, ed in modo particolare dei «vicecomites
maiores» qui in esame, cfr. Mauro RONZANI, «Le tre famiglie dei “Visconti” nella Pisa dei
secoli XI-XIII. Origini e genealogie alla luce di un documento del 1245 relativo al
patronato del monastero di S. Zeno», in Un filo rosso. Studi antichi e nuove ricerche sulle
orme di Gabriella Rossetti in occasione dei suoi settanta anni, ed. Gabriella Garzella –
Enrica Salvatori, Pisa 2007, pp. 45-70. Sui ruoli, privilegi e competenze originariamente
connesse alla carica vicecomitale in Pisa cfr. Gioacchino VOLPE, Studi sulle Istituzioni
Comunali a Pisa (città e contado, consoli e podestà) sec. XII-XIII, in Annali della R. Scuola
Normale Superiore di Pisa, Filosofia e Filologia, vol. XV, Pisa 1902; mentre per un
parallelo tra diverse realtà cittadine in generale cfr. Renato BORDONE, «I visconti cittadini
in età comunale», in Formazione e strutture dei ceti dominanti nel medioevo: marchesi
conti e visconti nel Regno Italico (secc. IX-XII), Atti del secondo convegno di Pisa: 3-4
dicembre 1993, ISIME, Nuovi Studi Storici, n. 39, Roma 1996, pp. 377-403.
4
Guglielmo era figlio di Giorgia de Lacon-Gunale, figlia di Costantino Salusio III
Giudice di Cagliari. Nel 1187 con truppe assoldate in Toscana destituì il Giudice Pietro dal
trono giudicale cagliaritano costringendolo a riparare in Logudoro presso suo fratello. Da
ultimo cfr. Alessandro SODDU, Incastellamento in Sardegna. L’esempio di Monteleone,
Raleigh (USA) 2013, p. 31-32.
5
Maurizio VIRDIS, Il Condaghe di Santa Maria di Bonarcado, Monastir 2002, p. LVIII.
Cfr. Eduardo BLASCO FERRER, Crestomazia sarda dei primi secoli, vol. I, Officina
linguistica, IV, n. 4, Nuoro 2003, p. 80.
5
Insula Noa, num. 2/2020
Sergio Sailis
Arborea e nel 1198-1200 quello di Gallura assieme a Comita di Torres;7 la
politica di Guglielmo quindi era volta al controllo totale dell’isola che
perseguiva sia con l’uso delle armi che con mirate politiche matrimoniali
che tenevano conto sia delle problematiche sarde che di quelle di più ampio
respiro internazionale e intessendo una fitta rete di alleanze originariamente
imperniate sulla benevolenza di Papa Innocenzo III. In prime nozze si sposò
con Adelasia Malaspina e in seconde nozze con Guisiana (figlia di Guido
Guerra III dei Conti Guidi, importante feudatario toscano); lo stesso
avvenne per le sue figlie, Benedetta (maritata con Barisone d’Arborea),
Agnese (andata in moglie prima a Mariano II di Torres e, alla morte di
questi, a Ranieri della Gherardesca di Bolgheri della famiglia Donoratico) e
Preziosa (maritata con Ugo Ponç de Bas d’Arborea).
I Visconti per contrastare l’influenza politica che Guglielmo aveva
assunto a Pisa (in quanto uno dei maggiori esponenti del partito antivisconteo capitanato dai Della Gherardesca) cercano di colpire il Marchese
direttamente al cuore dei suoi interessi e portano lo scontro direttamente in
Sardegna, così la Gallura nel 1207 entra nella loro orbita con il contestato
matrimonio tra Lamberto Visconti e l’erede al trono giudicale, Elena di
Gallura, scompaginando i piani dei vari attori in gioco ossia principalmente
il papa Innocenzo III (che era quasi riuscito ad imporre il matrimonio con il
proprio parente Trasamondo de Segni) e, nonostante avessero ormai
desistito a causa delle pressioni papali, lo stesso Giudice cagliaritano (che
dopo aver invaso il giudicato gallurese intendeva far sposare Elena con il
proprio cognato Guglielmo Malaspina) e il Giudice di Torres Comita (che
aveva invece avanzato la candidatura del proprio fratello Ittocorre).
Nel frattempo anche nel comune di Pisa si assiste ad una situazione
di stallo istituzionale; le due fazioni che si contendevano il potere non erano
6
Mauro G. SANNA, «Il giudicato di Arborea e la Sardegna tra la fine del XII e gli inizi
del XIII secolo. Aspetti storici», p. 426, in Chiesa, potere politico e cultura in Sardegna
dall’età giudicale al Settecento. Atti del 2° Convegno Internazionale di Studi, Oristano, 710 dicembre 2000, ed. Giampaolo Mele, Oristano 2005, pp. 415-438.
7
Mauro G. SANNA, «Il giudicato di Arborea e la Sardegna tra la fine del XII», cit., p.
429. Cfr. Mauro G. SANNA, «La Gallura in epoca medievale: 1. Storia politico-istituzionale
della Gallura medievale», in La Gallura, una regione diversa in Sardegna: cultura e civiltà
del popolo gallurese, San Teodoro 2001, p. 115. Cfr. Mauro G. SANNA, Innocenzo III e la
Sardegna, Monastir 2003, p. XLVI.
6
Insula Noa, num. 2/2020
Sergio Sailis
in grado di prevalere l’una sull’altra né di procedere alla nomina delle
cariche comunali per cui Guglielmo di Massa (sul quale incombevano
peraltro dei pretestuosi procedimenti giudiziari intentati sia da privati che
dal Comune per dei prestiti contratti in precedenza probabilmente per far
fronte alle spese per la conquista del Giudicato di Cagliari) forse meditò che
l’unica opzione ormai possibile fosse uno scontro armato e risolutivo.8
I dettagli degli avvenimenti ci sono noti attraverso alcuni documenti,
uno contemporaneo ai fatti ed un altro posteriore di circa due secoli. Il
primo, del quale riportiamo integralmente il fac-simile in appendice, è il
cosiddetto Ritmo Volgare Lucchese del 1213 (Real Collegio di Spagna a
Bologna, ms. 19, ff. 45r-v, redatto parte in latino e parte in versi in volgare)
qui trascritto nella versione edita dal De Bartholomaeis:9
In nomine Domini, Amen. In
M.CC.XIIJ,
existentibus
consulibus Rustichello di
Pogio et Albertino Sofreducii
et sociis maioribus, per Crucis
triumfum
fuit
sconfictus
Marchio Guilielmus Sardus
cum flore peditum et militum
Civitatis Pisane et districtus, et
peditum
et
militum
Pistoriensium,
et
comitis
Guidonis Guerre, et totius
comitatus Lunensis et maxime Massa del Marchese, et quasi omnes nobiles
Val d’ Ere et di Val d’Arno et di Val d’Elsa et di Val d’Ebola et comitatus
8
Per una disamina sullo scontro politico in atto nel periodo sia in Sardegna che a Pisa a
titolo esemplificativo tra gli altri cfr. Enrico BESTA, La Sardegna medioevale (ed.
anastatica, Palermo 1908-1909), Bologna 2000; Alberto BOSCOLO, Sardegna, Pisa e
Genova nel medioevo, Genova 1978; Sandro PETRUCCI, Re in Sardegna, a Pisa cittadini,
Bologna 1988; e più recentemente Corrado ZEDDA, L’ultima illusione mediterranea. Il
Comune di Pisa, il Regno di Gallura e la Sardegna nell’età di Dante, Cagliari 2006, p. 45
ss.; e, soprattutto per quanto riguarda le vicende di Guglielmo, cfr. Raimondo PINNA, Santa
Igia. La città del Giudice Guglielmo, Cagliari 2010. Per i rapporti tra i Giudici sardi ed il
papa Innocenzo III cfr. Mauro G. SANNA, Innocenzo III e la Sardegna, Monastir 2003,
mentre per gli sviluppi successivi alla morte di Guglielmo cfr. Mauro G. SANNA, Papato e
Sardegna durante il pontificato di Onorio III (1216-1227), Raleigh (USA) 2012.
9
Vincenzo DE BARTHOLOMAEIS, Ritmo Volgare Lucchese del 1213, Città di Castello
1914. Cfr. l’edizione quasi contemporanea di Amedeo CRIVELLUCCI, «Una cantilena storica
in volgare del principio del sec. XIII», in Studi Storici, XII, fasc. II, Pavia 1914, che si
discosta dalla precedente solo per alcune leggere differenze di lettura e trascrizione.
Recentemente il testo, per i suoi interessanti risvolti linguistici e letterari, è stato
ripubblicato da Vittorio FORMENTIN, Poesia italiana delle origini, Roma, 2007, pp. 39-61.
7
Insula Noa, num. 2/2020
Sergio Sailis
Volterre, a Civitate Luca et Rosso et Mediolombardo da Castello Aghinolfi,
cum Rosso tantum estantibus nobilibus Gotifredo et Ubaldo Eldissi, Pisanis
civibus, et filio Aldibrandi Bemboni et alio eorum militibus et filio
Berlinghieri de Travalda et nobili nostro confolanerio Uguicionello de Monte
Calvori, castellano abatis Sestensis.
Que sconficta fuit i[n] medio ianuario iusta Massam del Marchese uno
miliario, albergariam faciente Luca al Fregioro. In qua sconficta captus fuit
Rugerius comitis Guidonis filius cognatus Marchionis predicti, comes
Gerardus di Pian di Porto, Lanfrancus Lazari de Pistorio, Mussus de Pistorio
et Guittoncinus Sighiboldi, et alii .vj. de nobilioribus dicti Pistorii ; et omnes
Luce missi in captuna. Item .v. de nobilioribus dicte Masse. Rossus vero et
Mezolombardus habuerunt Graccum de Sala et .xij. de nobilioribus dictae
Masse in eorum captuna. Et ultra .L. fuerunt alii qui malo more fuerunt
tramanganati. Inter quos filius Gerardini Ghiandonis, qui cum esset a
Marchionis parte, per Rolandum Ceci fu abatuto et Orlando ebb’ el cavallo.
Similiter Guidarellus Barletti fa dal Marchese et [fu] abatuto.
Ma si fu tramanganato Guido Franchi che batté ne la nostra Moneta et or no
fu sopra:
Ma come perdetero lor distrieri / cosi fussero rimasi prescioni / per li nostri
cavallieri! / Altressì no fu sopra / Gualterotto Castagnacci / el Ronsinello
Pagani; / ma per saramento fur distrecti / et ritornaro dai Christiani; / ma loro
arme e lor cavalli / lassare dai Pagani. / In quello stesse rio segno / fu
Orlandin da Sogromigno / che fu Guido et Guidarello. / Pegio non fu lo
Garfagnino, / quei che non fu paladino, / filiolo di Guido Garfagnino. / Prese
a torto confalone, / ka Luca l trasse di prescione; / e perciò quel mal portoe. /
Mei lo portò Uguicionello, / quei che già no i fu Gainello, / ka Lucca aitò, la
sua cittade, / in cui castello ten Christianitade. / Ebbevi l Vescovo un suo
frate / che no diede delle spade; / fece sì come nimico; / di Lucca non fu
unque amico; / perciò sempre fu mendico. / Stiano a mente, ben lo dico: / che
a Lluca sempre sia schifato / e a Lucca sempre sia odiato; / aver di Lucca non
i sia dato; / tolto i sia quel che a pilliato, / ka di Lucca l’à ‘nvolato : / tutto fu
dello sacrato! / Di lui e li altri sia vendetta! / Di ciò Lucca non s’afretta! /
Veggio ch’ end’ arà disnore, / si no i punisce cum suo honore. / Punisca in
prima li cittadini / ka metta mano ai contadini! / Dell’ un faccia tal vendetta, /
l’altro a casa non l’aspetta. / Alti altri affar ogn’on ten [ov]ra, / che già Lucca
non s’[a]opra.
Il secondo autore che riporta della battaglia fornendoci ulteriori
particolari è il lucchese Sercambi (vissuto a cavallo tra il Trecento e il
Quattrocento) il quale nella sua Cronica, data alle stampe dal Bongi,
aggiunge qualche notizia aggiuntiva attingendo da fonti diverse rispetto alla
precedente:10
XXX. COME LI CHAVALIERI DI LUCHA COMBACTÈONO CON
MARCHEZI DA MASSA.
10
Le Croniche di Giovanni Sercambi Lucchese, ed. Salvatore Bongi, vol. I, in Fonti per
la Storia d’Italia pubblicate dall’Istituto Storico Italiano, Lucca 1892, p. 15.
8
Insula Noa, num. 2/2020
Sergio Sailis
L’ anno di .MCCXIII. fu la bactagla alla marina tra ‘l marcheze Sardo e
Orlando Truffe da Chastello Aghinolfi dall’ una parte, e Bonifatio Rosso
dall’ altra parte. E il dicto marcheze mandò per Toschana e per Lombardia
per chavalieri & pedoni, tanto che fecie grande exercito di Pisani, Fiorentini,
Pistoresi, Valdarnesi et molti di Versigla, e ‘l conte Guido e ‘I figluolo &
alquanti Porcharesi e alquanti Soffredinghi. Furono in numero di .V.c
chavalieri. E com molti pedoni & arcieri. E allora guastaron lo chastello
Aghinolfi
e
Monte
Tignoso. Allora Bonifatio
Rosso si sentio gravato dal
marcheze, venne a Luccha
elli e la mogle, e chiese
aiuto, onde li Consoli di
Luccha, ciò fu Alberto
Soffreducci e Guillelmo
Maluzi e Rustichello di
Poggio & Bonagiunta
Lamfredi e Gulliermo
Chastagnaci, avuto loro
comsilio, concedeono che
qualunqua volesse andare
in aiuto del dicto Bonifatio
possa andare.
Allora v’ andoe gente di
Luccha, e fu loro capitano
mess. Goctifredi Mosto di
Pisa, & puoseno il campo
in
nel
borgo
di
Branchagliano,
e
poi
mutònno il campo al
Frigido. E saputo il
marcheze da Massa che i
cavalieri di Luccha non
erano .CC., di che elli prese comsiglio e diliberò di combattere, e l’altro die
fu la bactagla e fu sconfìcto il marcheze Sardo da Massa e fu preso molta
della sua gente, e fu preso lo buon chavalieri mess. Forte Pellari e Uberto
Manchone e Albertino Consolo e Bernardo Maccha, e Uberto Fronde e
Aldibrando Bozza e ‘I figluolo del conte, e ‘l figluolo di Lazzari de’ Lazzari
di Pistoia, con molti altri in numero di .LX. e de’ Lucchesi funno presi .VIII.
Queste ovviamente non sono le uniche opere che trattano
dell’argomento; sono note infatti altri resoconti più tardi che però ci sono di
scarsa utilità per comprendere gli avvenimenti. Una di esse per esempio
riprende la precitata cronaca del Sercambi senza aggiungere alcunché ma
che qui comunque riportiamo per completezza d’informazione:11
11
296.
Bartolomeo BEVERINI, Annales ab origine Lucensis Urbis, T. I, Lucca 1829, pp. 295-
9
Insula Noa, num. 2/2020
Sergio Sailis
Sardus, id regulo nomen, Massae Lunensi imperitabat. Is Aginulphum,
Rolando Truffae in perduellionis poenam a Lucensi populo ademptum, ac
Bonifacio Russo, ob egregiam in proelio ad Buram flumen navatam
reipublicae operam traditum, armis aggressus,
collectis ex Gallia Cisalpina Etruriaque universa
copiis, magnum peditum ballistariorumque
numerum sub signis coegit. Praeter validam
quingentorum equitum manum e flore Tusciae
nobilitatis: inter quos Porcarienses et Suffreducii
Lucensium exules, privatum dolorem, patriae
clade ultum ibant. lamque Aginulpho Ignosoque
uno impetu captis direptisque, victor Sardus
discebat, cum Russus implorata Lucensium fide
bellum
instauravit.
Quippe
Robertus
Soffreducius, Gulielmus Malugius, Rustichellus
Podius, Buonagiunta Lanfredus et Guglielmus
Castanacius qui tunc consulatum Lucae gerebant, egregium rati, si clientem
ac supplicem defendissent, vitato populi nomine, quem implicari tunc bello
minime expediebat, edixere
nemini privato fraudi futurum,
qui suis consiliis, opibusque
Russum iuvisset: modo ne quod
Lucensis populi vexillum aut
nomen praeferretur. Certatim in
eam
expeditionem
nomina
dedere.
Profectique
duce
Gaufrido Mosca pisano exule,
primo ad Vicum Brancalianuni,
deinde ad amnem Frigidum
castra locavere. Sardus maiore
suorum numero confisus, cum
Lucensem equitatum ducentos
non
excedere
comperisset,
pugnam minime detractavit. Sed
quod numero decorat, virtute
suppletum, tantisque animis
viribusque
a
Lucensibus
pugnatum, ut hostes passim fusi
fugative terga verterent. Ad
sexaginta e primoribus capti;
inter quos Fortes Pellarius
equestris
ordinis,
Ubertus
Mancho, Albertinus Consul,
Bernardus Manchus aliique clari viri; cum e Lucensibus octo tantum in
hostium potestatem venissent.
Certo questi avvenimenti, specialmente quanto accaduto al marcheze
Sarddo di Masa e la sconfitta dei pisani, evidentemente tanto avevano
10
Insula Noa, num. 2/2020
Sergio Sailis
colpito l’immaginario collettivo, e non poteva essere altrimenti, e se ne parla
anche in altre opere come per esempio in una cronaca rimata, sempre di
ambito lucchese, risalente alla metà del Quattrocento:12
Mille dugientotredici corendo,
a’ conssoli vivea con grande honore
allocta Lucha, come trovo leggiendo;
e ‘n questo tenpo era conssol maggiore
Albertto Sofreducci, e, po’ seghuendo,
Ghuglelmo da Maluzi di valore,
e Rustichello di Poggio allo ver dire,
Buonagiunta Lanfredi a non mentire,
Ghuglelmo Castagnacci il quarto guarddo,
e non ne trovo più per scrictura.
In questo tenpo lo marcheze Sarddo
di Masa, con moltti altri in sua congiura
di tucta Lunigiana, senssa tarddo
moson ghuerra a’ luchesi; ma paura
non ebbon già i luchesi valenti,
che subbito asenbron tucte lor gienti.
Quinto non può servirmi e chiama sesto:
“De! Vien, per Ddio, e toglimi fatica!”
et io a ubidirllo sarò presto,
veggiendo purché non vuol ch’i’ più dica;
onde del quinto qui fo punto e resto,
e nel sesto dirò sanssa fatica
di quel marcheze Sardo che alle mani
fu con luchesi cavalier sovrani.
L’insieme di questi resoconti ci consente comunque di comprendere
la variegata, e a tratti confusa, composizione dei due eserciti contrapposti
nei quali, almeno ufficialmente, non sono però presenti né Comune di Pisa
né quello di Lucca.
L’occasione per la resa dei conti tra le due fazioni si ebbe nel 1212
quando Guglielmo di Massa dopo aver raccolto le sue truppe si porta al
castello di Aghinolfi di Montignoso (importante fortificazione di origine
longobarda sita circa 4 km. a sud-est di Massa posta in posizione dominante
12
Andrea Tobia ZEVI, Edizione delle Cronache di Alessandro Streghi, Università degli
Studi Roma Tre, Dottorato di Ricerca in studi di storia letteraria e linguistica italiana,
XXIV ciclo, Roma 2009, pp. 153-154. L’autore oltre alla trascrizione a p. 22 offre anche
una copia fotografica del ms. 942, c. 32, che riproduce proprio i passi che a noi interessano
tratti da una copia settecentesca dell’opera trascritta da Bernardino Baroni e attualmente
custodita nella Biblioteca Statale di Lucca così come gli altri due esemplari noti (ms. 1661
e ms. 2629) entrambi quattrocenteschi anch’essi.
11
Insula Noa, num. 2/2020
Sergio Sailis
sulla via Francigena) che viene distrutto; i feudatari, i fratelli Bonifacio
Rosso e Mezzolombardo, si rivolsero pertanto a Lucca chiedendo (e
ottenendo) aiuti militari anche se, come accennato, senza il coinvolgimento
ufficiale del Comune.
L’esercito lucchese in un primo momento si accampò nei pressi di
Brancagliano (nei pressi di Pietrasanta) e, a metà di gennaio del 1213, entrò
in contatto con le truppe di Guglielmo nei pressi del fiume Frigido a circa
un miglio da Massa, nelle vicinanze di quella che oggi è un’importante meta
turistica.
Da una parte dunque il Giudice Guglielmo (nelle cui file militavano
circa 500 cavalieri oltre a fanti e arcieri) con i pisani, i pistoiesi, i massesi,
fuoriusciti lucchesi, il suocero conte Guido Guerra dei conti Guidi (con suo
figlio Ruggero che viene fatto prigioniero) e altri combattenti da varie zone
della Toscana e nord Italia oltre a Orlando (o Rolando) di Truffa fratello dei
castellani di Aghinolfi e con questi in dissidio proprio a causa del Castello
di Aghinolfi in precedenza sottrattogli proprio grazie all’intervento di
Lucca. Nelle cronache non sono segnalati combattenti provenienti dai
possedimenti sardi ma non sarebbe strano che abbiano partecipato alcuni dei
più fedeli majorales isolani come d’altronde alcuni sembrerebbe fossero
presenti qualche decennio dopo al seguito di Re Enzo nelle campagne
militari nella penisola. Dall’altra parte, al comando di Gottifredo Musto
Visconti, erano raccolti i lucchesi, i castellani di Aghinolfi, i fuoriusciti
pisani e vari castellani toscani complessivamente circa 200 cavalieri oltre a
fanti e arcieri.
L’esercito del Marchese, nonostante fosse decisamente superiore
numericamente, viene però inaspettatamente sconfitto dagli avversari;
Guglielmo, pur essendosi, sembra, comportato valorosamente sul campo di
battaglia, non può far altro che ritirarsi, forse in Sardegna, lasciando mano
libera ai suoi avversari che in seguito a Pisa riescono a far nominare un
governo di quattro magistrati denominato rectores pisane civitatis dei quali
uno sicuramente, Sigerio di Pancaldo, appartenente alla consorteria dei
Visconti.
Guglielmo morirà nel mese di gennaio o di febbraio del 1214 (e
comunque sicuramente entro maggio) lasciando il trono giudicale (e le
12
Insula Noa, num. 2/2020
Sergio Sailis
cariche marchionali) alla figlia Benedetta13 che di lì a poco, anch’essa
oggetto delle mire viscontee, sarà costretta a sposare prima il Giudice di
Gallura Lamberto (matrimonio forse mai celebrato o comunque annullato
dal Papa) ed in seguito il fratello di lui, Ubaldo Visconti, nonché a cedere al
Comune di Pisa la collina su cui verrà fondato il Castellum Castri de Kallari
destinato in breve tempo a diventare il fulcro del potere pisano nell’isola; il
suo principale avversario invece, Ubaldo Visconti, tesaurizza la vittoria sul
Marchese e, dopo aver assunto la carica di podestà di Siena, nel marzo del
1215 verrà eletto podestà di Pisa14 sancendo così la (provvisoria) sconfitta
della fazione avversa.
La morte di Guglielmo però non placherà le tensioni tra le due
fazioni cittadine contrapposte. In brevissimo tempo infatti i dissidi
riemergeranno in tutta la loro dirompenza con la conseguente e inevitabile
ripresa delle operazioni militari e, nonostante la pace collettiva poi
sottoscritta a Pisa nel 123715, negli anni successivi i disordini
caratterizzeranno, anche con l’ingresso di nuovi attori, la vita politica sia in
Sardegna (con la distruzione della capitale giudicale Santa Igia e nella fine
di tre dei quattro Giudicati come entità statuali autonome) che a Pisa (con
nuove alleanze, congiure, guerre aperte, confische ed esili vari) ancora per
quasi un altro secolo16 sino all’invasione catalano-aragonese del 1323 a
seguito della quale la città toscana verrà definitivamente estromessa
dall’isola.
13
Francesco ARTIZZU, «Benedetta di Massa», Dizionario Biografico degli Italiani, vol.
8 (1966)
14
Corrado ZEDDA – Raimondo PINNA, «Fra Santa Igia e il Castro Novo Montis de
Castro. La questione giuridica urbanistica a Cagliari all’inizio del XIII secolo», ed.
elettronica in Archivio Storico e Giuridico Sardo di Sassari, nuova serie, n. 15/2010,
Sassari 2010, p. 133. Cfr. Raimondo PINNA, Santa Igia. La città del Giudice Guglielmo,
Cagliari 2010, p. 115.
15
Emilio CRISTIANI, Nobiltà e popolo nel Comune di Pisa. Dalle origini del
podestariato alla signoria dei Donoratico, Napoli 1962, pp. 500-506.
16
Sulla nascita della pisana Castel di Castro, sulla distruzione di Santa Igia e sulla
politica pisana e viscontea vedasi gli interessanti contributi presenti nella rivista «1215‐
2015. Ottocento anni della fondazione del Castello di Castro di Cagliari, ed. Corrado
ZEDDA), RiMe n. 15/2, dicembre 2015.
13
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Sergio Sailis
Appendice n. 1: Copia del cosiddetto Ritmo volgare lucchese
Real Collegio di Spagna in Bologna, ms. 19, f. 45r
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Sergio Sailis
Real Collegio di Spagna in Bologna, ms. 19, f. 45v
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Sergio Sailis
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Lucia Mocci
ARTE SACRA A SANLURI
NELLA SECONDA METÀ DEL CINQUECENTO
Lucia Mocci
(I.I.S. M. Buonarroti - Serramanna)
Premessa
Questo articolo aggiorna e amplia la parte iniziale di un precedente lavoro di
ricerca, nel quale avevo raccolto documenti e notizie sulla produzione
artistica destinata alle chiese di Sanluri nei secc. XVI-XVIII,1 con l’obiettivo
di ricostruire le vicissitudini artistiche di questo paese, ancora marginale
nella storia delle arti. L’arte sacra sanlurese, fatta salva l’indagine sulla
chiesa parrocchiale, è stata infatti a lungo ignorata o oggetto di brevi
citazioni e di indagini spesso poco approfondite e non suffragate
dall’apporto documentario.2
1
Lucia MOCCI, Artisti e artigiani a Sanluri dal XVI al XVIII (1560-1760), Tesi di laurea,
Università degli Studi di Cagliari, Facoltà di Lettere e Filosofia, Corso di laurea
specialistica in Storia e Società, a.a. 2006/07, rel. Francesco Carboni.
2
Tra le trattazioni più specifiche va ricordata quella di Francesco Colli Vignarelli, il
quale, in Sanluri terra ‘e lori, dedica per la prima volta alle chiese di Sanluri una lucida
analisi supportata da numerosi dati d’archivio (Francesco COLLI VIGNARELLI, «Chiese e
Cappelle di Sanluri», in ID., Sanluri terra ‘e lori, Cagliari 1965, pp. 67–75). Lo studioso
inoltre ha il merito di aver pubblicato e trascritto, in un’altra sezione dello stesso volume,
una serie di iscrizioni, molte delle quali pertinenti agli edifici sacri e ai loro arredi (ID.,
«Iscrizioni sanluresi antiche e moderne», in Sanluri, cit., pp. 41-47). In uno studio da me
pubblicato nel 2002 (Lucia MOCCI, Testimonianze artistiche nella Sanluri medioevale e
moderna. Architettura sacra dal XIII al XVII secolo, Oristano 2002), ho precisato e corretto
alcune datazioni proposte dal Colli Vignarelli, sulla base di nuove acquisizioni
documentarie. Una delle correzioni riguarda ad esempio la chiesa di San Rocco, da lui
ritenuta risalente al XVI secolo ma in realtà edificata nella seconda metà del secolo
successivo (Lucia MOCCI, Testimonianze artistiche, cit., p. 34). Sulle chiese sanluresi e i
loro arredi v. inoltre: EAD., «Arte a Sanluri. L’ancona di Sant’Anna», in La Voce, I, n. 3,
Sanluri 1991, pp. 18-19; «La chiesa di S. Anna a Sanluri: un monumento dimenticato?», in
La Voce, III, n. 8, Sanluri 1993, pp. 19-21; «La chiesa di San Martino a Sanluri», in Sanluri
Notizie, XI, n. 8, Sanluri 1995, p. 8; «La chiesa di San Sebastiano a Sanluri», in L’Altra
Provincia, II, n. 4, Gonnosfanadiga 1998, p. 27; «Sanluri. La chiesa di San Rocco», in
L’Altra Provincia, II, n. 5, Gonnosfanadiga 1998, p. 19; «Sanluri. La chiesa di Sant’Elena»,
in L’Altra Provincia, II, n. 6, Gonnosfanadiga 1998, p. 22; «La chiesa di San Lorenzo a
Sanluri», in L’Altra Provincia, II, n. 10, Gonnosfanadiga 1998, p. 22.
17
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Lucia Mocci
Nel tentativo di supplire a tali lacune nello stato dell’arte ho rivolto
la mia attenzione ai diversi ambiti artigianali, per offrire un quadro il più
possibile completo della produzione destinata alle chiese e per definire le
doti peculiari delle maestranze in essa impegnate.
La ricerca è stata condotta principalmente nell’Archivio Parrocchiale
di Sanluri (APS), nell’Archivio Storico Diocesano (ASDCA), e nell’Archivio
di Stato di Cagliari (ASC). I dati raccolti sono stati messi a confronto e
integrati, infine, con quelli tratti da fonti edite.
I documenti, la committenza, le chiese
Le notizie d’archivio relative alle vicende artistiche di Sanluri, scarse e
frammentarie per quanto concerne l’età medioevale e i primi secoli dell’età
moderna, risultano più numerose soltanto a partire dalla seconda metà del
XVII secolo, grazie ai registri di amministrazione, noti come Causa Pia, che
ci consentono di ricostruire un quadro abbastanza articolato della
produzione artistica e artigianale di destinazione sacra. In merito alla
seconda metà del sec. XVI, le informazioni reperibili, sporadiche e limitate
peraltro, sono tratte prevalentemente dai Quinque Libri Sanluritanae
Ecclesiae, dal Registrum Commune dell’arcidiocesi di Cagliari e dai
minutari notarili.3
I dati raccolti4 attestano la presenza, alla fine del Cinquecento, di otto
edifici sacri: la chiesa parrocchiale, dedicata ai Santi Cosma e Damiano5 e le
3
I registri di amministrazione delle chiese di Sanluri, noti come Causa Pia, i Quinque
libri e il Registrum Commune dell’arcidiocesi sono custoditi nell’Archivio Storico
Diocesano di Cagliari, i minutari notarili sono consultabili nell’Archivio di Stato di
Cagliari. I primi (CP), riguardano gli anni compresi tra il 1658 e il 1934; i secondi (QL)
vanno dal 1589 al 1840; il registro Commune dal 1515 al 1709. Altre fonti utili sono gli
inventari e le relazioni sullo stato delle chiese redatti in occasione delle visite pastorali,
raccolti in apposite cartelle o volumi (ASDCA, Inventari, Visite Pastorali) o contenuti in
alcuni tomi dei Quinque Libri, e le Carte sparse dell’Archivio Parrocchiale di Sanluri.
4
ASDCA, QL Sanluri, vol. 1 (1589-1631). Il volume comprende, oltre alle sezioni dei
battesimi, delle confessioni pasquali, delle cresime, dei matrimoni e delle morti, anche
legati testamentari, decreti arcivescovili e inventari. Sono soprattutto i legati testamentari (a
partire dal 1591) e i Mandatos e ordinationes della visita pastorale del 1599, a fornire il
termine ante quem per la datazione delle chiese sanluresi.
5
L’antica parrocchiale, ubicata nell’area in cui sorge l’attuale, intitolata alla Vergine
delle Grazie, venne quasi interamente demolita nella seconda metà del sec. XVIII e
18
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Lucia Mocci
chiese filiali di Sant’Elena, San Lorenzo, Sant’Anna, San Sebastiano, San
Pietro, San Martino e San Giorgio. All’infuori della chiesa campestre di San
Giorgio, ubicata a pochi chilometri dal paese, lungo la strada per Samassi, le
restanti si trovavano nel centro abitato: due extra moenia –San Pietro e San
Martino– nei pressi delle due porte non più esistenti dette Pottabeddu e
Potta noba e cinque all’interno del borgo fortificato, a breve distanza l’una
dall’altra.6
A commissionare le opere e gli arredi sacri sono soprattutto i
sacerdoti, i procuratori delle chiese, gli obrers7 e le confraternite. Per quanto
concerne queste ultime, a fine Cinquecento risultano operanti quella del
Rosario - con sede nella parrocchiale - e quella di San Pietro o della Pietà,
detta anche del Gonfalone, attiva nella chiesa di San Pietro.8
Arte sacra a Sanluri nella seconda metà del Cinquecento
Le prime attestazioni riguardanti le opere delle chiese sanluresi interessano
l’antica parrocchiale.
Nel 1563 il falegname Pietro Francés, residente a Cagliari, cui era
stato affidato precedentemente dagli obrers della parrocchiale di Sanluri e
ricostruita in forme barocche. La dedica alla Vergine delle Grazie (o Madonna della
Visitazione) risale alla seconda metà del XVIII secolo, epoca in cui la chiesa venne
ricostruita nelle forme attuali (sulle vicende relative all’intitolazione cfr. Francesco COLLI
VIGNARELLI, «Chiese e Cappelle», cit., p. 68).
6
A queste si aggiunsero, agli inizi del XVII secolo, le chiese di San Francesco d’Assisi
con l’annesso convento dei Cappuccini, di Sant’Antioco (campestre, nota come
Sant’Antiogu becciu, ubicata lungo la strada per Villanovaforru) e, dopo il 1652, quella di
San Rocco. Sulla cronologia e sulle vicende costruttive delle chiese v. Lucia MOCCI,
Testimonianze artistiche, cit.
7
Termine catalano che indica chi si occupava della manutenzione di una chiesa e delle
spese inerenti ai culti che vi si celebravano (in sardo obreri).
8
Lucia MOCCI, Testimonianze artistiche, cit., pp. 15, 25. Sull’origine della
Confraternita del Rosario v. anche Cesare MASALA, Il Rosario in Sardegna nei secoli XVI e
XVII. Indagine preliminare per la storia del culto di Nostra Signora del Rosario in
Sardegna, Cagliari 2016, pp. 66, 250, 294. Nel corso del XVII secolo vennero istituite
inoltre la Confraternita del Santissimo, detta anche Luminaria, con sede nell’altare
maggiore della parrocchia e quella della Vergine d’Itria nella chiesa di San Lorenzo. Nel
1726 si costituì infine, nella chiesa di Sant’Anna, la confraternita del Carmine (Lucia
MOCCI, Testimonianze artistiche, cit., pp. 18, 24, 25). Sulle confraternite di Sanluri v. anche
Francesco COLLI VIGNARELLI, «Le Confraternite di Sanluri», cit., pp. 77-79).
19
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Lucia Mocci
dalla viscontessa l’incarico di realizzare un retablo ligneo con statue e
immagini per quella chiesa, si accorda con il pittore di Stampace Antioco
Mainas perché presti la sua collaborazione nell’esecuzione dell’opera. In
base all’accordo il Mainas si impegna a scolpire le tre statue lignee
raffiguranti la Vergine e i Santi Cosma e Damiano da porre nelle nicchie
centrali del retablo e a dipingere i Sette Misteri Gioiosi (cioè
l’Annunciazione, la Natività, l’Adorazione dei Magi, l’Ascensione, la
Pentecoste e il Transito della Vergine) per 110 scudi:
Dicto die (15 novembre 1563) Callari. Entre mestre Pere Frances bombarder
y fuster habitant de Caller de una part y mestre Antiogo Maynas pintor de la
part altra, se fa lo acordi y pacte seguent, ço es que per quant lo dit mestre se
acordi ab la spectable señora vescontessa y obrers de la vila eo parroquia de
Sanct Luri de fer lo retaule de fusta en dita sglesia y perque en los misteris e
imagens de altar seran de fer molts personages de bulto per ell ocupat en
altre, dona de fer los personages seguents al dit mestre Antiogo çoes Nostra
Señora y sanct Cosme y sanct Damia en lis spais de mig de la granaria segons
lo encasament y misura donadora los set misteris dels goigs tots conforme al
desenyo les quals coses hara de fer dins e ad […] e lo dit mestre Antiogo
promet far las tres jmagies de mig de lenya acabats ab perfectio dret a pintar
mes los dits set misteris dels goigs conforme al dit desenyo del ters en taula
tot dins la ciutat en preu de cent y deu scuts a raho cinquanta dos sous lo scut
y pagadors vynt lliuras per tot lo present mes y la resta en dos pagues de sis
en sis mesos.9
Sei anni dopo il falegname cagliaritano Giannotto Santoro, chiede
l’intervento dell’arcivescovo di Cagliari per ottenere il saldo della somma
che gli spetta per l’esecuzione di un retablo per la parrocchiale, in base
all’accordo stipulato nel 1557 con gli obrers Lorenzo Puxeddo e Giovanni
Lenty:
Lo archibisbe de Caller y bisbe deles unions. Honorabilis donno Larenso
Puxeddo y Nanny Lenti olim obrers de la esglesia parrochial de la vila de
Santlluri sots invocatio de Sanct Cosme y Sancta Damia amats en Nostre
Senior Deu Ihesu Christo mestre Joanot Santoro fuster dela present ciutat nos
ha esposat que ha de aver de vosaltres com a obrers ereu de dita esglesia de
resta de salari d’ell per lo reverent canonge dexa vila y vosaltres promes
9
Il documento è pubblicato da Francesco VIRDIS, Artisti e artigiani in Sardegna in età
spagnola, Serramanna 2006, pp. 16, 345. V. anche: Marco Antonio SCANU, «Per lo studio
della pittura tardogotica e primo-rinascimentale in Sardegna e nella penisola iberica.
Funzionamento delle botteghe, dinamiche e ruolo sociale dell’arte e degli artisti», in
Theologica & Historica, XXV (2016), pp. 483,491; Luigi AGUS, La scuola di Stampace.
Da Pietro a Michele Cavaro, Cagliari 2016, pp. 213, 216.
20
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Lucia Mocci
donar y satisfet per lo retaula de la dita sglesia conforme al acte de dit acordi
fermat entre vosaltres y lo dit Santoro en l’any MDLVII dos sentes sinquanta
lliures salud jura de la qual quantitat y resta fins asi diu no es pogut eser
pagat de vosaltres y de dita esglesia en gran dany y per motiu del dit exposant
y per eser lo temps de dita paga molt temps pasat per lo que et assessor nos
ha supplicat manasem proveic deles presents per tenor delas quals vos diem y
manam en virtut desta obediencia que dins vuyt dies del dia dela presentacio
en avant contadors pageu al dit exposant la dita quantitat y lo que iustament li
es degut del dit salari per lo dit retaula per ell fet […] Datada en Caller a IV
de Febrer MDLXIX Anthoni Parragues de Castilleyo arcobispo de Caller
Testes compresent assessor pronto notario Pere Sabater.10
I dati d’archivio non consentono di seguire ulteriormente le vicende
dell’opera citata in questo documento; ci forniscono invece altre
informazioni in merito all’attività svolta da Antioco Mainas e dalla sua
bottega.
In seguito alla morte del maestro stampacino, avvenuta
anteriormente al 18 marzo 1570,11 le opere da lui lasciate incompiute furono
portate a termine da suo figlio Pietro Mainas e da Michele Cavaro. Questi
ultimi risultano infatti impegnati, nel novembre del 1570, nella realizzazione
di un retablo per la villa di Sanluri.12
Dall’atto di regolarizzazione di interessi, stipulato nel 1571 tra il
canonico Giovanni Ferrer e i due pittori, apprendiamo che essi si erano
impegnati a concludere (pintar y assentar) il retablo e le immagini
10
ASDCA, Registrum Commune diversorum actorum ab anno 1569 usque ad anno
1570, n. 5, c. 14. Il documento è trascritto in Lucia MOCCI, Temi iconografici del retablo
tardo gotico in Sardegna. Un esempio di rilevamento: l’ancona di Sant’Anna a Sanluri,
Tesi di laurea, Università di Cagliari, Facoltà di Lettere e Filosofia, a.a. 1985-86, rel.
Renata Serra, pp. 119–123. Sul falegname Giannotto Santoro cfr.: Aldo PILLITTU, «Antonio
Bonato e la diffusione delle forme rinascimentali in Sardegna», Studi Sardi, XXXI, Cagliari
1999, pp. 507–508; Gabriella OLLA REPETTO, «Lavoro e associazionismo in Sardegna tra
XV e XVI secolo. La formazione della confraternita dei falegnami», in Corporazioni,
Gremi e artigianato tra Sardegna, Spagna e Italia nel Medioevo e nell’età moderna (XIVXIX secolo), ed. Antonello MATTONE, Cagliari 2000, pp. 234, 236; Francesco VIRDIS,
Artisti e artigiani, cit., nota 24 a p. 19.
11
Sulla data della morte del pittore cfr.: Renata SERRA, Retabli pittorici in Sardegna nel
Quattrocento e nel Cinquecento, Roma 1980, p. 88; Francesco VIRDIS, Artisti e artigiani,
cit., p. 16; Ida FARCI, Guida alla basilica di Sant’Elena, Quartu Sant’Elena 2007, p. 66,
nota 1.
12
Il 15 novembre 1570 i due pittori riconoscono di essere debitori verso Giovanni
Silvestre, per aver comprato oro e colori per il retablo che stanno realizzando per Sanluri
(Francesco VIRDIS, Artisti e artigiani, cit., p. 17).
21
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Lucia Mocci
dell’altare maggiore della parrocchiale di Sanluri, lasciato incompiuto da
Antioco Mainas, e per i quali aveva già ricevuto alcuni acconti.13
Dalla lettura dell’atto veniamo infatti a sapere che, sulla base di due
precedenti contratti nei quali era stato stabilito per Antioco Mainas un
compenso complessivo 2064 lire, di cui 244 lire «per raho dels Set Goigs y
altres imagens» e 1820 lire «per lo retaule», gli erano già state versate in
acconto 57 lire per le immagini e 260 lire per il retablo. In seguito alla morte
di Antioco, altre somme erano state versate a Pietro (162 lire, 9 soldi e 2
denari) e, successivamente, anche a Michele14 (che aveva ricevuto, assieme
a Pietro, 668 lire, 16 soldi e 2 denari) per un totale di 1247 lire, 7 soldi e 4
denari. «A compliment de les quals lo die present», cioè il 30 luglio 1571, i
due pittori ricevono inoltre dalle mani del canonico Ferrer, da parte degli
operai della chiesa parrocchiale di Sanluri, «quaranta ducats de contants
valents cent y dotze lliures». Nell’atto del 1571 si stabilisce infine che le
816 lire, 3 soldi e 8 denari che restano da consegnare, saranno riscosse in
due momenti diversi: 296 lire, 3 soldi e 8 denari «acabada y assentada que
sia la obra en sa perfectio», e la quantità rimanente (200 scudi equivalenti a
520 lire) l’anno immediatamente successivo al termine dei lavori.
Carlo Aru, nel pubblicare nel 1926 il regesto del documento,
affermava che il retablo era andato perduto in seguito ai rifacimenti subiti
13
Dell’atto notarile si conserva sia la versione redatta in latino (ASC, ANL, Tappa di
insinuazione Cagliari, Gerolamo Ordà, n. 1501, cc. 153-156) che quella redatta in catalano
(ASC, ANS, Tappa di insinuazione Cagliari, Gerolamo Ordà, 886). Il documento, citato in
regesto da Carlo ARU nel 1926 («La pittura sarda nel Rinascimento, II. I documenti
d’archivio», in Archivio Storico Sardo, XVI, Cagliari 1926, p. 204), venne da me trascritto,
nella versione in catalano, nel 1986 (Lucia MOCCI, Temi iconografici del retablo tardo
gotico, cit., pp. 124–131, tavv. I-III). Lo stesso documento è stato successivamente
pubblicato da Francesco VIRDIS (Artisti e artigiani, cit., p. 346). Nella trascrizione del
Virdis risulta però mancante la parte del testo relativa ai pagamenti effettuati a Pietro e
Michele Cavaro in seguito alla morte di Antioco, qui di seguito riportata: «Y apres mort del
dit mestre Antiogo rebi yo dit mestre Pere Maynes cent y sexanta y dos lliures nou sous y
dos dines e apres en partides diverses havem rebut nosaltres dits Michel Cavaro y Perot
Maynes sis centes sexanta y vuyt lliures set sous y dos dines moneda callaresa».
14
Come osserva giustamente Lucia SIDDI nella sua scheda sul retablo di S. Anna a
Sanluri («Retablo di Sant’Anna – Sanluri. Inquadramento storico-artistico», in Pittura del
cinquecento a Cagliari e Provincia, Catalogo della mostra a cura di Giuseppe ZANZU e
Pasquale TOLA, Genova 1992, p. 183), nella versione catalana del documento troviamo
menzionato, accanto a Pietro Mainas, il pittore Michele Cavaro, mentre nella versione
latina si attesta all’inizio il nome di Michelangelo e poi, nel resto del testo, Michele.
22
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Lucia Mocci
dalla chiesa parrocchiale nel secolo XIX. Nella mia tesi di laurea del 1986
proposi, per la prima volta, di identificare l’opera cui si riferiva questo atto
con un retablo datato 1576, custodito nella chiesa di Sant’Anna a Sanluri,
oggi nella parrocchiale (figg. 1-4), il cui stile rimanda per molti aspetti alla
scuola stampacina.15 Tale attribuzione è stata poi condivisa nel 1990 da
Renata Serra e nel 1992 da Lucia Siddi.16 A sostegno della mia tesi avevo
messo in evidenza, oltre alle concordanze cronologiche e stilistiche quali la
presenza di schemi e iconografie usuali nei retabli di Antioco Mainas e della
scuola di Stampace, il fatto che nella predella del retablo di Sant’Anna sono
raffigurate le Sette Gioie della Vergine (l’Annunciazione, la Natività,
l’Adorazione dei Magi, La Resurrezione, l’Ascensione, la Pentecoste,
l’Assunzione), tema a cui si fa riferimento nel documento in questione. Ad
avvalorare l’ipotesi di una provenienza di quest’opera dalla chiesa
parrocchiale era inoltre la presenza, nella parte centrale, di segni di
adattamento ad un nuovo ambiente. In epoca imprecisabile era stata infatti
asportata una parte del pannello centrale per far sì che la pala potesse essere
sistemata sopra la mensa dell’altare di Sant’Anna e potesse ospitare la
nicchia con la statua della santa (fig. 2).17
15
Lucia MOCCI, Temi iconografici, cit., p. 30. V. inoltre: EAD., «Arte a Sanluri.
L’ancona di Sant’Anna», cit., pp. 18-19.
16
Renata SERRA, Pittura e scultura dall’età romanica alla fine del ‘500, Nuoro 1990, p.
223; Lucia SIDDI, «Retablo di Sant’Anna», cit., p. 173. Tra i più recenti studi in cui si fa
cenno al retablo cfr.: Maria Grazia SCANO NAITZA, «Considerazioni a margine del Retablo
di S. Elia. Antioco Mainas, Michele Cavaro e gli epigoni della “scuola di Stampace”», in
Architetture del paesaggio costiero. Storia, recupero e valorizzazione del patrimonio
monumentale e naturalistico del promontorio di Sant’Elia di Cagliari (Cagliari, 28 aprile
2006), ed. Alberto MONTEVERDE e Emilio BELLI, (estratto) pp. 15-17; Joan BOSCH
BALLBONA, «El impacto de Albrecht Dürer y del grabado internacional en Cerdeña», in I
retabli sardo-catalani dalla fine del XV agli inizi del XVI secolo e il Maestro di
Castelsardo, Atti delle Giornate di Studio (Cagliari, 13-14 dicembre 2012), ed. Alessandra
PASOLINI, Cagliari 2013, pp. 83–96; Luigi AGUS, La scuola di Stampace. Da Pietro a
Michele Cavaro, Cagliari 2016, pp. 217, 232.
17
Dalle parti pittoriche residue dello scomparto centrale, raffiguranti drappeggi, alberi e
un baldacchino, si può ipotizzare che l’immagine dipinta nella parte asportata sia quella
della Vergine col Bambino in trono o del gruppo della Sant’Anna Metterza (Lucia MOCCI,
Temi iconografici, cit., pp. 37–39; Maria Grazia SCANO NAITZA, «Considerazioni a
margine del retablo di S. Elia», cit., p. 15).
23
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Lucia Mocci
Il reperimento di un testamento del 170518 ha gettato però una nuova
luce sulle vicende del sopraccitato retablo, inducendomi a ritenere la pala di
Sant’Anna realizzata proprio per l’omonima chiesa, luogo di sepoltura del
canonico Pellis e della sua casata. Pertanto la pala d’altare, commissionata
dal sacerdote Giovanni Pellis e da suo fratello Antioco e terminata dopo la
loro morte, nel 1576, come si legge nell’iscrizione dipinta nei polvaroli (fig.
4),19 benché attribuibile su base stilistica alla bottega del Mainas, seppur su
cifre stilistiche più popolari, non può essere identificata con quella di cui si
parla nel documento del 1571.
Inoltre, come giustamente fanno notare Maria Grazia Scano e
Francesco Virdis, i fratelli Pellis committenti dell’opera non sono mai
nominati nel documento del 1571.20 La Scano osserva ancora che nel retablo
di Sant’Anna non c’è alcun riferimento ai santi titolari della parrocchiale
(Cosma e Damiano) «che invece dovevano essere previsti nel retablo
maggiore di una chiesa a loro intitolata» e per di più «la cifra pittorica di
18
Nel testamento di Antiogo Cocu de Miguel (6 ottobre 1705), si legge che egli «eligió
sepultura en la Iglesia de Santa Anna, sepultada del Reverendo Canonigo Peddis quondam
como otro de su linea desendiente» (ASDCA, QL Sanluri, vol. 12 (1705-1732), c. 360.
Giovanni Pellis, canonico di Terralba ma di origine sanlurese, è ricordato in alcuni
documenti dell’archivio parrocchiale di Sanluri per aver istituito nel 1574 «en su ultimo
testamento», un legato pio «para casar donzellas de su linage» (Lucia MOCCI, Temi
iconografici, cit., p. 21 ss.).
19
LO REVERENT I MAGNIFIC MOSSEN IOAN PELLIS CANONIE DE
TERRALBA I DOMINO ANTIOGO PELLIS IERMANS FERENT FER LO PRESENT
RETAULO DE BENIS PROPIS COM APAR PER LOS TESTAMENTS DE AQUEILS I
PER HOBIT DE AQUEILS SES FET ACABAR PER LOS CURADORS DE DIT
QUONDAM CANONIE COM AXI HO DISPON EN SON TESTAMENT ES ACABAT
PER MI NOTARO CASTANGIA A XII DE DESEMBRE 1576. L’iscrizione, in lingua
catalana, dipinta nell’estremità inferiore del polvarolo destro, è stata pubblicata per la prima
volta nel 1965 da Francesco COLLI VIGNARELLI («Iscrizioni sanluresi», cit., pp. 42–43). Si
riporta qui di seguito la traduzione: «Il reverendo e magnifico Signor Giovanni Pellis,
canonico di Terralba e Signor Antioco Pellis fratelli, fecero fare il presente retablo coi
propri beni come risulta dai loro testamenti e per la loro morte fu fatto terminare dai
curatori del detto canonico defunto, così come è disposto nel suo testamento. È stato
terminato da me notaio Castangia il giorno 12 dicembre 1576». Il probabile stemma della
famiglia Pellis (uno scudo rosso con una P dorata sormontata da croce) è raffigurato, nel
retablo, nell’estremità sinistra dei polvaroli (fig. 3).
20
Maria Grazia SCANO NAITZA, «Considerazioni a margine del Retablo di S. Elia», cit.,
p. 17; Francesco VIRDIS, Artisti e artigiani, cit., p. 18.
24
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Lucia Mocci
questo popolaresco retablo è assolutamente diversa sia da quella di Antioco
sia da quella di Michele».21
Da ciò l’impossibilità di identificare questo retablo, concluso nel
1576, con quello delle Sette Gioie affidato a Pietro Mainas e Michele
Cavaro, dopo la morte di Antioco Mainas.
Il confronto tra i vari documenti, mi porta a ipotizzare che le Sette
Gioie e le altre immagini dell’altare maggiore della parrocchiale di Sanluri,
lasciate incompiute da Antioco Mainas, morto prematuramente, alle quali si
fa riferimento nell’atto del 1571, siano le stesse che il pittore si era
impegnato a realizzare nel 1563 accordandosi con il falegname Pietro
Francés («los set misteris dels goigs» e le statue della Vergine e dei Santi
Cosma e Damiano).
Il retablo de fusta al quale stava lavorando il Francés era un’opera
complessa e impegnativa, corredata di pitture, nicchie e numerose statue,
per cui l’artista, già oberato da diverse commissioni, aveva chiesto l’ausilio
del pittore stampacino.22 Analogamente Antioco Mainas, occupato in altri
incarichi,23 potrebbe aver trascurato il lavoro commissionatogli nel 1563, il
quale, inconcluso fino al 1570, fu poi portato a compimento da suo figlio
Pietro e da Michele Cavaro.24
Un altro dato che avvalora l’ipotesi è che i committenti a cui si fa
riferimento negli atti del 1563 e del 1571 sono sempre gli obrieri della
chiesa parrocchiale di Sanluri come è la stessa anche la destinazione
dell’opera.25
21
Ivi, pp. 15, 17.
Francesco VIRDIS, Artisti e artigiani, cit., p. 345: «Perque en los misteris e imagens
del altar seran de fer molts personages de bulto, per ell ocupat en altre, dona de fer los
personages seguents al dit mestre Antiogo çoes Nostra Señora Y sanct Cosme y Sanct
Damia en lis spais de mig de la granaria segons lo encasament y misura donadora mes los
misteris dels goigs tot conforme al desenyo».
23
Nel 1562 aveva ottenuto dagli obrieri della cappella delle Anime della parrocchiale di
Sant’Anna a Cagliari l’incarico di realizzare le statue del Compianto; tra il 1564 e il 1565
era impegnato con la tavola commissionatagli dai Consiglieri di Oristano per il Palazzo di
Città (Luigi AGUS, La scuola di Stampace, cit., pp. 213, 216).
24
Alla fine dello stesso anno Pietro Mainas, come abbiamo visto, risulta già coinvolto,
assieme a Michele Cavaro, nella realizzazione di un retablo a Sanluri (F. VIRDIS, Artisti e
artigiani, cit., pp.17, 345).
25
Dalla lettura del documento del 1563 apprendiamo che il retablo era stato
commissionato al Francés dalla viscontessa di Sanluri e dagli obrieri della parrocchia (Ivi,
22
25
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Lucia Mocci
Un inventario della parrocchia, redatto nel 1599 in occasione della
visita pastorale dell’arcivescovo di Cagliari Alonso Lasso Sedeño,
documenta l’esistenza (o la presenza), nella cappella maggiore, di un
retablo, «ben dipinto» (ben pintat), con nicchie e immagini scolpite e, tra
queste ultime, la Vergine col Bambino, San Cosma e San Damiano:
Primo en la capella y altar major son retaulo ben pintat de ymagiens de bulto
y particularment en lo cocholas buit de mig una ymagie gran de Nostra
26
Senyora ab lo Jesuset y als costats la de Sanct Cosme y Sanct Damia.
Attualmente, purtroppo, non rimane traccia dei smulacri citati
nell’inventario. Il retablo invece sopravvive ancora, benché ampiamente
rimaneggiato (figg. 5-7).27 Dopo essere stato spostato nel 1699 dall’altare
maggiore della parrocchiale al coro della stessa chiesa,28 venne
successivamente trasferito nella chiesa di San Lorenzo, probabilmente nel
sec. XIX, in seguito al rifacimento della chiesa parrocchiale,29
opportunamente riadattato per essere sistemato nella cappella maggiore
pp. 16, 345); nell’atto rogato nel 1571 tra Pietro Mainas, Michele Cavaro e il canonico G.
Ferrer, quest’ultimo agisce per part dels obrers della chiesa parrocchiale, quindi anche in
questo caso i committenti sono gli obrieri della parrocchia (Maria Grazia SCANO NAITZA,
«Considerazioni a margine del Retablo di S. Elia», cit., p. 271).
26
ASDCA, QL Sanluri, vol. 1 (1589-1631), c. 276 ss.; Inventari, 2 (1599-1616), c. 93
ss. La prima parte dell’inventario, relativa a Retaulos e ymagiens è stata me pubblicata in
Testimonianze artistiche, cit., pp. 97-98.
27
Cfr. Lucia MOCCI, scheda di catalogo SBAAAS CA n. 20/00045349, 1989; EAD.,
Testimonianze artistiche, cit., p. 20, fig. 37.
28
Dai registri di Causa Pia apprendiamo che il trasferimento del retablo fu effettuato in
seguito alla costruzione del nuovo coro: nel 1699 venne dato l’incarico all’intagliatore
trapanese Tommaso Recupo di realizzare le porte dell’altare e del coro appena costruito e di
consolidare e trasferire all’interno del nuovo ambiente l’antico retablo della cappella
maggiore (Lucia MOCCI, Arredi lignei nella Sardegna meridionale tra Sei e Settecento.
L’opera dei Recupo e di Sisinnio Lai, Tesi di specializzazione in Studi Sardi, Università
degli Studi di Cagliari, Facoltà di Lettere, a.a. 1991-1992, rel. Renata Serra, doc. 7 in
Appendice; Paola BAGNARO, «Il retablo della chiesa di S. Chiara in Cagliari», in Biblioteca
Francescana Sarda, IX, Oristano 2000, p. 71, n. 20; Maria Gerolama MESSINA –
Alessandra PASOLINI, «Scultori, intagliatori ed ebanisti nel Meridione sardo», in Estofado
de oro. La statuaria lignea nella Sardegna spagnola, Cagliari 2001, p. 277; Francesco
VIRDIS, Artisti e artigiani, cit., p. 159).
29
Dalle note di scarico dei libri contabili della parrocchia apprendiamo che nel 1807 il
retablo era ancora ubicato nel coro; in quell’anno si spesero infatti 15 lire «por aconche y
abelir el retablo del coro de dicha iglesia» (ASDCA, CP Sanluri, vol. 20, c. 266; vol. 29, c.
45). Probabilmente venne rimosso da quella sede nel corso dei decenni successivi, in
seguito alla collocazione del nuovo altare maggiore.
26
Insula Noa, num. 2/2020
Lucia Mocci
dove è ubicato ancora oggi. Dell’impianto originario, costituito
presumibilmente da due ordini tripartiti da lesene e colonne, in ognuno dei
quali si aprivano le nicchie con semicatino a conchiglia, non rimane che un
solo ordine, tripartito da colonne addossate a lesene con tre nicchie e intagli
di gusto rinascimentale. Un vicino confronto, per lo stile degli intagli, può
essere effettuato con un’opera coeva di impianto manierista, come il
polittico dell’Assunta della parrocchiale di Barumini, strutturato in due
ordini di tre scomparti, comprendenti cinque dipinti e una nicchia centrale
con catino a conchiglia su cui è collocata la statua dell’Assunta (fig. 8).30
Nel nicchione centrale del retablo di Sanluri, è dipinta un’iscrizione che
attesta la sua ubicazione originaria:
ESTE RETABLO ESTAVA EN EL ALTAR MAYOR DESTA
PARROQUIA DE SANLURY Y PARA ASSENTARSE HALLI EL
TABERNACULO SE PASSO A ESTE ASSIENTO Y CORO EN EL MES
DE MAYO Y ANNO DEL SEÑOR 1699.31
L’iscrizione è attualmente nascosta da un’edicola in legno intagliato
e dorato di stile barocco che, addossandosi alla grande nicchia, la occulta
quasi completamente.32
In occasione degli ultimi restauri, avvenuti nel 1996, nelle due
nicchie laterali sono state riportate alla luce raffigurazioni pertinenti ad
un’Annunciazione (la colomba dello Spirito santo) e ad una Natività (un
angelo con il cartiglio recante la scritta GLORIA IN EXCELSIS DEO)
(figg. 6-7): forse è quanto sopravvive dei Sette misteri gioiosi che
abbellivano in origine il retablo.
L’inventario del 1599 ci consente inoltre di ricostruire
sommariamente i caratteri architettonici della parrocchiale cinquecentesca,
dedicata ai santi Cosma e Damiano.
30
Sul retablo di Barumini cfr. Alessandra PASOLINI, «Le opere. 5 – La Vergine
Assunta», in Estofado de oro, cit., pp. 109-110.
31
L’iscrizione venne pubblicata per la prima volta da Francesco COLLI VIGNARELLI nel
1965 («Iscrizioni sanluresi», cit., p. 44).
32
L’edicola, contornata da cariatidi e volute vegetali, sovrastata da un fastigio con
volute laterali e cartiglio sormontato da croce, è attribuibile su base stilistica allo stesso
intagliatore che, nel 1699, fu incaricato di consolidare e trasferire all’interno del nuovo coro
l’antico retablo della cappella maggiore (Lucia MOCCI, Arredi lignei nella Sardegna
meridionale, cit., pp. 12–13, 25–26).
27
Insula Noa, num. 2/2020
Lucia Mocci
In alcuni documenti tra i santi titolari compare anche Cromazio33 a
cui era intitolata una preesistente parrocchia distrutta da un incendio. A
conferma dell’esistenza di una più antica chiesa intitolata al santo di
Aquileia, M.G. Scano Naitza riporta il seguente documento redatto a Sanluri
dal notaio Antonio Castanyola nella chiesa di San Lorenzo, in data 22 marzo
1563:
Successive vero dicto et eodem die in dicta villa de Sanctluri instante et
petente dicto domino Antonio Pitzolo procuratore dicti domini Joannis
Ferrer, dictus dominus Jacobus Amat comissarius apostolicus sub
solempnitatibus contentis et expresatis inprequserta possessione ecclesie
Sancti Laurentii tradidit possessionem realem actualem et corporalem seu
quasi dicto domino Joanni Ferrer licet assenti et pro eo et nomine dicto
domino Antonio Pitzolo, procuratori suo de ecclesia parochialis Sancti
Gromazii (o Gromarii) dicte ville de Santluri que ecclesia antiquitus esse
solebat parrochia dicte ville et fortuita casu fuit combusta et dictus dominus
procurator protestatus fuit simili quod non solum re sed animo et corpore
dictam intendit accepisse et retinere possessionem per dicto eius principali et
eius nomine presentibus ibidem protestibus supperius proxime nominatis ad
premissa vocatis et speciali assumptis que fuerunt acta in civitate et castro
Callaris et villa de Sanctluri diebus mense et anno ac presentibus testibus
supra dictis.34
La parrocchiale dedicata ai santi Cosma e Damiano, a cui era
annesso un cimitero, era costituita da una sola navata coperta a capriate,
divisa in campate da archi diaframma e con capilla mayor, presumibilmente
voltata a crociera. Lungo le pareti della navata erano disposti gli altari del
Crocefisso e di Santa Lucia, mentre era in costruzione la cappella della
Vergine del Rosario. Gli altari erano abbelliti da pale d’altare, nicchie e
immagini sacre: «la ymagie gran de bulto» del Cristo in croce, «un Crist en
33
Il nome del santo di Aquileia è presente nel già citato atto notarile del 1571 (ASC,
ANS, Tappa di insinuazione Cagliari, Gerolamo Ordà, 886: «Esglesia de Sanct Gromary y
Sanct Cosme y Sanct Damia parrochia de la dita vila de Santluri») e in alcune disposizioni
testamentarie dei primi decenni del secolo successivo (ASDCA, QL Sanluri, vol. 2 (16111624), cc. 156, 200: «Lo cimitery del glorios Sant Gromay parroquia de la present vila»,
«iglesia de Sant Gromay parroquia de la present vila»). La dedica ai santi Cosma e
Damiano, invece, è attestata fino alla seconda metà del XVIII secolo, periodo in cui la
chiesa, ricostruita in forme tardo-barocche, assunse l’attuale intitolazione alla Vergine delle
Grazie. Sulle vicende relative all’intitolazione ai santi Cosma e Damiano e alla Vergine,
cfr. Francesco COLLI VIGNARELLI, «Chiese e Cappelle», cit., p. 68.
34
Maria Grazia SCANO NAITZA, «Considerazioni a margine del retablo di S. Elia», cit.,
p. 271, n. 31. Il documento è conservato nell’Archivio del Capitolo Metropolitano di
Cagliari (Resoluciones Capitulares desde el ano 1515 hasta el ano 1571, n. 1, c. 234).
28
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Lucia Mocci
creu de la confraria de Nostra Senyora del Roser ab son guarniment de
domasquillo vermell y florhs» e un altro Crist en creu nella sacrestia,
assieme all’immagine di Nostra Senyora de Agost, ai simulacri della
Vergine del Rosario, di Sant’Antioco, di Santa Lucia e a un retablo vell di
Sant’Anna. La chiesa aveva inoltre il campanile con la sua scala a
chiocciola (caragol) e quattro campane. 35
In genere, al termine delle visite pastorali «si lasciavano al clero
locale delle disposizioni, sotto forma di decreti da seguirsi fedelmente, per
emendare alcuni errori o mancanze riscontrati e per migliorare il tenore
della vita spirituale della comunità».36 Di tali decreti venivano stilate due
copie, da allegare rispettivamente al diario visitale che rimaneva disponibile
presso la curia vescovile e al registro parrocchiale contenente tutti i
documenti vescovili emanati per quella comunità o, in sua mancanza, da
includere nei Quinque Libri.
Anche nel caso della visita effettuata nel 1599 dall’arcivescovo
Alonso Lasso Sedeño a Sanluri furono emanati questo genere di decreti, per
noi molto utili in quanto ci consentono, assieme ad altri documenti redatti
nella stessa circostanza, di conoscere lo stato della chiesa in quell’anno.
Da una di queste carte, datata 16 marzo 1599, apprendiamo che nella
costruzione della cappella del Rosario erano allora impegnati, sulla base di
un atto di obbligazione stipulato nell’aprile del 1597, i picapedrers Michele
Valdabella, dell’appendice di Villanova, e Salvatore Marras, di Stampace.
Durante la visita pastorale viene constatato che l’opera non è stata eseguita
come stabilito nell’accordo (si dice infatti che la parete «es tota aberta y en
la dita parrochial si pot causar algun dany notable»), pertanto l’arcivescovo
comanda ai suddetti scalpellini, sotto pena di 100 ducati, di ultimarla
rispettando gli accordi presi nel 1597 («segon son obligat conforme lo susdit
acte»).37
35
segg.
ASDCA, QL Sanluri, vol. 1 (1589-1631), c. 276 ss.; Inventari, 2 (1599-1616), c. 93 e
36
Valerio Luca FLORIS, «Le visite pastorali in Sardegna nel medioevo ed in età
moderna: difficoltà, modalità, fonti, storiografia», RiMe, n. 4/II (giugno 2019), p. 60.
37
ASDCA, Inventari, 2 (1599-1616). Il foglio, non numerato, era inserito tra gli
Inventari del 1599 fino al riordino delle carte, avvenuto circa venti anni fa; attualmente non
compare in quel volume e non mi è stato possibile, per ora, rilevare la sua nuova
collocazione.
29
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Lucia Mocci
Nella sezione dei Mandatos y orde dedicata ai Reparos y obras
necessarias en la dicha iglesia parrochial, si osserva inoltre che la sacrestia
è muy peligrosa e minaccia di crollare, perciò si ordina che gli stessi maestri
impegnati nell’edificazione della cappella del Rosario e per la quale
avevano già ricevuto molti soldi, vengano a vedere se si può riparare:
Vista la sacrestia muy peligrosa por que amenaza ruina y està hendida toda,
mando su Señoria que les mesme officiales que hacen la capilla de Nuestra
Señora del Rosario mestre Miquel Baldabella y Salvador Marras contra quien
dejo mandamiento su Señoria Reverendisima que viniesse acabar la dicha
capilla per que an recebido màs dinero, de lo que se les devian vean si se
podrà remediar sin hacerla de nuevo y si ne se haga de nuevo.38
Della
chiesa
parrocchiale
tardo-gotica,
presumibilmente
cinquecentesca, la cui ubicazione era la stessa dell’attuale dedicata alla
Vergine delle Grazie, frutto di una ricostruzione risalente agli ultimi decenni
del Settecento (fig. 9), si conserva oggi solo una parte del campanile a canna
quadra, con archetti trilobati e aperture ogivali (fig. 10), simili a quelli delle
parrocchiali tardo-gotiche della Sardegna meridionale. Sopravvivono inoltre
alcuni degli arredi elencati nell’inventario del 1599: oltre al citato retablo
dell’altare maggiore, oggi nella chiesa di San Lorenzo (figg. 5, 30), il
Crocifisso di gusto rinascimentale della sacrestia (fig. 11), e il Cristo in
Croce che deriva la sua iconografia dal Crocifisso oristanese detto di
Nicodemo, nella terza cappella a sinistra, al centro di un’ancona
settecentesca di gusto barocco (fig. 12).39
I Mandatos emanati in occasione della visita del 1599, comprendono
anche la parte riguardante i Reparos de las yglesias rurales di sant’Elena,
38
ASDCA, QL Sanluri, vol. 1 (1589-1631), c. 266. In aggiunta al testo, sul margine
sinistro del foglio è scritto: «Que vean la sacristria los maestros que hacen la capilla de
Nuestra Señora del Roser y vean si se podra remediar sin hacerla de nuevo». Un accenno
all’attività dei due scalpellini a Sanluri è in Lucia MOCCI, Testimonianze artistiche, cit., p.
26. Sull’attività di Michele Valdabella e Salvatore Marras nell’isola, cfr. Mario CORDA,
Arti e mestieri nella Sardegna spagnola. Documenti d’archivio, Cagliari 1987, pp. 46, 71,
79, 88, 96, 97, 104, 140. Su Valdabella v. inoltre: Francesca SEGNI PULVIRENTI – Aldo
SARI, Architettura tardogotica e d’influsso rinascimentale, Nuoro 1994, p. 241; Ida FARCI,
«Contributo alla conoscenza dei maestri marmorari liguri e lombardi attivi in Sardegna nel
Settecento», in Biblioteca Francescana Sarda, X, Oristano 2002, p. 11. Su Salvatore
Marras v. Francesco VIRDIS, Artisti e artigiani, cit., pp. 56, 67.
39
Lucia MOCCI, Testimonianze artistiche, cit., pp. 25–29.
30
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Lucia Mocci
San Sebastiano, San Lorenzo, Sant’Anna, San Martino e San Giorgio: si
dispone di far aggiustare e rifare il tetto della chiesa di Sant’Elena, di
imbiancare la chiesa di San Sebastiano e di dotarla di un simulacro, di
realizzare un retablo per la chiesa di San Martino, di riparare le pareti della
chiesa San Giorgio e di provvedere ad alcuni piccoli lavori nelle chiese di
San Lorenzo e di Sant’Anna.40
Fatta eccezione per le chiese di San Giorgio e Sant’Elena, ormai
scomparse, tutte le altre sopravvivono ancora oggi, benché ampiamente
rimaneggiate.
La chiesa campestre di San Giorgio, ridotta ad un rudere già nel sec.
XIX, era ubicata a pochi chilometri dal paese, nella località San Giorgio,
lungo la strada per Samassi.41
La chiesa di S. Elena, situata a breve distanza dalla parrocchiale,
venne quasi completamente demolita nel sec. XIX per essere trasformata in
un edificio a due piani da utilizzare come casa comunale, oggi sede
dell’archivio storico (figg. 13-14). Dell’impianto originario, risalente
verosimilmente all’età medievale, costituito da una semplice aula
mononavata con abside semicircolare, non rimane che qualche traccia nelle
pareti perimetrali (fig. 14).42
La chiesa di San Martino, il cui impianto originario si fa risalire
all’età romanica (sec. XIII), si trova al di fuori del centro storico, nella
periferia meridionale del paese. Ha una sola navata, coperta a capriate,
abside semicircolare e facciata a capanna con campaniletto a vela (figg.1517).43
Anche la semplice chiesa di San Sebastiano, ubicata in prossimità
del castello medievale, è costituita da un’aula mononavata con campaniletto
a vela (figg.18-20). La sua origine potrebbe farsi risalire agli inizi del XVI
secolo come si deduce dall’iscrizione «Año MDXVIII» tracciata nella
facciata (fig. 20).44
40
Ivi, p. 97 (doc. 1).
Ivi, pp. 10–11.
42
Ivi, pp. 9–10. I resti dell’antica abside sono emersi in occasione dei più recenti
restauri.
43
Ivi, pp. 13–15.
44
Ivi, pp. 24–25.
41
31
Insula Noa, num. 2/2020
Lucia Mocci
La chiesa di Sant’Anna con l’annesso cimitero sorge al limite del
perimetro fortificato, a breve distanza dalle chiese di San Sebastiano e di
San Lorenzo. Nelle sue forme attuali (una navata con copertura lignea e
cappella presbiteriale voltata a crociera dedicata alla Vergine del Carmine e
due cappelle minori con copertura lignea, ai lati della navata, dedicate a
Santa Teresa e a Sant'Anna) è il risultato di una serie di rifacimenti e di
ampliamenti che ne hanno modificato profondamente l’impianto originario
risalente probabilmente all’età medievale, come indurrebbe a pensare il
recente rinvenimento, nella parete di fondo della cappella omonima, dei
resti di un’antica abside orientata a sud-est (figg. 21-24). Da un questionario
compilato dal parroco di Sanluri nel 1902 in occasione di una visita
pastorale, apprendiamo che era ritenuta per tradizione «la prima parrocchia
intra muros del paese».45 Questa tradizione trova conferma in un testamento
del 1604, in cui si fa riferimento ad una sepoltura «en lo cimiteri de la
parrochia antiga de Santa Ana».46
La cappella di Sant’Anna era adibita a luogo di sepoltura del
canonico Giovanni Pellis e della sua famiglia, e in origine vi era collocato
l’omonimo retablo che dal 1990 si trova nel transetto della chiesa
parrocchiale (figg.1–4), dopo gli ultimi restauri curati dalla Soprintendenza
di Cagliari.47
La chiesa di San Lorenzo, il cui primo impianto risale all’età tardo
romanica, presumibilmente all’inizio del XIV secolo, come si deduce da
alcuni elementi originari, come il portale lunettato e il piccolo rosone in
facciata, si presenta oggi articolata in due navate, frutto di un ampliamento
avvenuto in epoca imprecisabile, forse nel XV o XVI secolo, con l’aggiunta
di una navatella a cui corrisponde in facciata un portale con i conci a
ventaglio tipico dello stile gotico-catalano (figg. 25-30). Allo stesso stile si
45
ASDCA, Visite Pastorali (1902-1907), vol. 15, c. 336: «Si ignora il tempo in cui sia
stata edificata la chiesa parrocchiale, ma è stata eretta in Parrocchia nel sec. XVI, poiché
per tradizione consta che la prima parrocchia intra muros dell’antica città di Saint Lorens
(unde per corruzione San Lore, poi l’attuale nome Sanluri) fu la chiesetta di Sant’Anna,
detta pure del Carmine; poi ampliatosi il paese si fabbricò la chiesetta di San Pietro extra
muros nel 1377, come rilevasi dall’iscrizione dell’architrave della porta principale».
46
ASDCA, QL Sanluri, vol. 1, c. 194.
47
Lucia SIDDI, «Retablo di Sant’Anna», cit., p.173. Sulla chiesa di Sant’Anna cfr. Lucia
MOCCI, Testimonianze artistiche, cit., pp. 23-24.
32
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fanno risalire anche le due cappelle presbiteriali, frutto di rifacimenti
avvenuti nel XVII secolo ad opera di maestranze locali. Tra gli arredi più
antichi, se escludiamo il retablo della cappella maggiore che, come abbiamo
visto, proviene dall’altare maggiore della chiesa parrocchiale (fig. 5), si
conservano i simulacri di San Lorenzo (fig. 31), della Vergine d’Itria (fig.
32) e le due campane, una più piccola, trecentesca, l’altra quattrocentesca,
entrambe nel campaniletto a vela (fig. 26).48
Tra le yglesias rurales citate nella relazione del 1599 non compare la
chiesa medievale di san Pietro, che viene visitata nel 1604 dal canonico
cagliaritano Gregori Garau, in qualità di Visitador y comissari general
dell’arcivescovo don Alonso Lasso Sedeño. Nell’inventario redatto in
questa occasione, si legge che in questo oratorio es« fundada e instituida la
Confraria de Gonfallo de Roma».49 Tra i vari arredi, si citano i seguenti: il
simulacro del santo titolare, vestito con camice di tela, stola e manipolo di
damaschino rosso guarnito di passamaneria e frange di seta vari colori,
cordone, piviale di damasco bianco guarnito di passamaneria di seta rossa e
bianca; un Cristo in croce e due angeli di legno dorato:
Primo la imagie de Sant Pere en bulto ab un camis de tela saunesa una estola
y manyple de domasquillo vermell guarnit de passama de seda blanca y
vermella y naranjada y un cordo de fil canejat y capa de domas blanch
guarnida de passama de seda vermella y blanca. Item un Cristo de personaje
xich en creu. Item dos angels de llenya daurats.50
Dal riferimento ai due paliotti e alle due tendine da utilizzare per
coprire gli altari di San Pietro e del Crocifisso si deduce che esistessero
allora due soli altari, uno per ogni navata:
Item dos devant de altars. […] Item una cortina ab unas listas de seda
vermella per cobrir dit altar de Sant Pere. Item una cortina semblant per
devant lo altar ques en dita iglesia del Sant Crucifissi.51
48
Ivi, pp. 18–21.
ASDCA, Inventari, 2 (1599-1616), c. 98. La confraternita, detta anche di San Pietro
e, successivamente, della Pietà, risulta già esistente alla fine del XVI secolo (ASDCA, QL
Sanluri, vol. 1).
50
ASDCA, Inventari, 2 (1599-1616), c. 98.
51
Ibid.
49
33
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Lucia Mocci
Non compare invece alcun cenno a opere pittoriche e a retabli e ciò
avvalora l’ipotesi di chi sostiene che il cinquecentesco polittico di
Sant’Eligio, opera del cosiddetto Maestro di Sanluri, oggi nella pinacoteca
di Cagliari, che occupava la cappella maggiore fino ai primi anni del
Novecento, non sia stato realizzato per questa chiesa, ma vi sia stato
trasferito successivamente, dopo essere stato opportunamente modificato (il
Sant’Eligio dello scomparto centrale era stato trasformato in San Pietro con
l’aggiunta di tiara, barba e chiavi).52
Delle opere citate nell’inventario si conserva ancora oggi un Cristo
in croce cinquecentesco (figg. 38-39) e il busto di San Pietro (figg. 40-41),
ridipinti e modificati in seguito a restauri effettuati alcuni decenni fa da un
artigiano locale.53 Il simulacro di San Pietro, attribuibile, su base stilistica,
ad un ignoto scultore attivo nella seconda metà del sec. XVI, trova un vicino
confronto, per le fattezze del volto, con la statua di San Bartolomeo della
parrocchiale di Sardara. Come le analoghe sculture realizzate per essere
abbigliate, comprendeva in origine, oltre al busto, altre parti scolpite (le
mani e una struttura che reggeva il busto), purtroppo andate perdute assieme
alle sue vesti pontificali.54
La chiesa di San Pietro (figg. 33-36), sita al di fuori della cinta
muraria che cingeva il borgo fortificato di Sanluri, a breve distanza
dall’antico Portabeddu di cui rimane traccia solo nella toponomastica, è
articolata in due navate coperte a capriate, terminanti in cappelle voltate a
crociera, dedicate rispettivamente a San Pietro (cappella maggiore) e alla
Vergine della Pietà (cappella a destra). Sul lato sinistro della navata
maggiore si apre una cappella voltata a botte, dedicata al Cristo Crocifisso.
Nella facciata, sovrastata da un campaniletto a vela la cui campana è datata
52
Sulle vicende del retablo di Sant’Eligio v. Renata SERRA, scheda «Maestro di Sanluri.
Retablo di Sant’Eligio», in Cultura quattro-cinquecentesca in Sardegna. Retabli restaurati
e documenti, Cagliari 1985, pp.132-137; Aldo PILLITTU, «Una congiuntura mediterranea
per il Retablo di Sant’Eligio della Pinacoteca Nazionale di Cagliari», in Archivio Storico
Sardo, XLVI, Cagliari 2009, pp. 9–72.
53
Il restauro è stato effettuato intorno 1990 da un privato, senza l’autorizzazione della
Soprintendenza.
54
Le mani in legno intagliato, la base che sorreggeva il simulacro, il bacolo a tre croci e
i paramenti con cui veniva abbigliato, tra cui un piviale ‘antico’ con stola, un cingolo verde
e due camici, erano ancora esistenti nel 1939 (APS, Inventario Confraternita della Pietà
24/12/1939).
34
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1577 (fig. 37),55 si aprono i due portali d’accesso alle navate. Sopra il
portale destro, era inserita un’epigrafe in lingua sarda, attestante la
consacrazione della chiesa nel 1377 (fig. 35). L’iscrizione, custodita
attualmente all’interno dell’edificio, testimonia l’esistenza di Sanluri come
autonomo comune rurale, giacché la chiesa venne costruita per volontà del
popolo riunito in assemblea. La chiesa venne sottoposta nel corso dei secoli
a continue modifiche e rimaneggiamenti e la scarsa documentazione
d’archivio che la riguarda consente di seguirne le vicissitudini solo a partire
dal sec. XVII, quando si presentava in forme simili alle attuali, articolata in
due navate coperte a capriate e terminanti in cappelle voltate a crociera,
costruite nel sec. XVII in seguito alla demolizione delle antiche absidi e con
una terza cappella voltata a botte che si apriva, come oggi, sul lato sinistro
della navata maggiore. Secondo R. Salinas, che si occupò dei primi restauri
negli anni ’50 del secolo scorso, la chiesa sorse in epoca romanica, come
chiesa a navata unica, e fu ampliata nel sec. XIV con l’aggiunta, sul lato
destro, di una navata di minori dimensioni. Tale ampliamento dovrebbe
risalire al 1377, come testimonia l’epigrafe che si trovava sull’architrave
dell’ingresso.56
Conclusioni
Nel corso di questa trattazione abbiamo avuto modo di constatare come,
nella seconda metà del sec. XVI, attorno alla chiesa parrocchiale e agli
edifici sacri del paese abbiano operato maestranze diverse, impegnate sia in
opere di restauro che nella realizzazione di nuove cappelle, di pale d’altare e
di vari arredi religiosi. Sebbene solo una parte di queste opere sia giunta
sino a noi in forma originaria ma più spesso rimaneggiata, grazie alla ricerca
d'archivio e all'indagine stilistica si può ricostruire l'ambiente culturale
cinquecentesco del nostro territorio, fervido di iniziative e di diffusione
55
Nella campana è raffigurato lo stemma del canonico cagliaritano Giovanni Ferrer,
beneficiato della prebenda di Sanluri (uno scudo con tre ferri di cavallo) ed è tracciata la
seguente iscrizione: S. MARIA S. IO. BAPTISTA S. PETRE ORATE PRO NOBIS ANNO
DOMINI MCCCCCXXXXXXXVII TEMPORE R.D.I.D. CANONICI JOANIS FERRER
(cfr. Francesco COLLI VIGNARELLI, «Iscrizioni sanluresi», cit., p. 42).
56
Lucia MOCCI, Testimonianze artistiche, cit., pp. 15–18.
35
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delle conoscenze delle varie maestranze impegnate, che merita il nostro
interesse.
A titolo esemplificativo rievoco le vicende del retablo maggiore
della parrocchiale, realizzato da Pietro Francés con la collaborazione di
Antioco Mainas e poi di Pietro Mainas e Michele Cavaro. Il grandioso
retablo, inizialmente trasferito nel nuovo coro della medesima chiesa, fu
successivamente traslato nella cappella maggiore dell’oratorio di San
Lorenzo, ormai privo delle statue della Vergine e dei santi Cosma e
Damiano, che ne occupavano le principali nicchie.
Sopravvive, inoltre, un certo numero di manufatti di cui per ora non
siamo in grado di individuare gli autori, come l’ancona di Sant’Anna e le
diverse sculture ascrivibili al sec. XVI, alcune delle quali identificabili con
quelle citate negli inventari redatti in occasione delle visite pastorali.
Il quadro che emerge, benché lacunoso, è di grande rilievo e merita
di essere adeguatamente investigato e valorizzato.
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Fig. 1: Sanluri, chiesa parrocchiale, retablo di Sant’Anna (foto L. Mocci).
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Fig. 2: Sanluri, chiesa parrocchiale, retablo di Sant’Anna, particolare dello scomparto centrale
(foto L. Mocci).
Fig. 3: Sanluri, chiesa parrocchiale, retablo di Sant’Anna, particolare dei polvaroli con lo stemma dei Pellis
(foto L. Mocci).
Fig. 4: Sanluri, chiesa parrocchiale, retablo di Sant’Anna, particolare dei polvaroli con l’iscrizione
(foto L. Mocci)
38
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Fig. 5: Sanluri, chiesa di San Lorenzo, il retablo dell’altare maggiore proveniente dalla parrocchiale.
Fig. 6: Sanluri, chiesa di San Lorenzo, retablo dell’altare maggiore, particolare della nicchia a sinistra con la
colomba dell’Annunciazione (foto L. Mocci).
Fig. 7: Sanluri, chiesa di San Lorenzo, retablo dell’altare maggiore, particolare della nicchia a destra con l’angelo
della Natività (foto L. Mocci).
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Fig. 8: Barumini, retablo della Vergine Assunta (foto https://www.sardegna-fragili-immagini.beniculturali.it/ )
Fig. 9: Sanluri, chiesa parrocchiale della Vergine delle Grazie (foto L. Mocci).
Fig. 10: Sanluri, chiesa parrocchiale, particolare del campanile (foto L. Mocci).
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Fig. 11: Sanluri, chiesa parrocchiale, Crocifisso della sacrestia (foto L. Mocci).
Fig. 12: Sanluri, chiesa parrocchiale, Cristo in croce della III cappella a sinistra (foto L. Mocci).
Fig. 13: Sanluri, la casa comunale costruita nel XIX sec. in seguito alla parziale demolizione della chiesa di
Sant’Elena, oggi sede dell’Archivio Storico (foto L. Mocci).
Fig. 14: Sanluri, Archivio Storico Comunale, interno con i resti dell’arco dell’antica abside della chiesa di
Sant’Elena (foto L. Mocci)
41
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Fig. 15: Sanluri, chiesa di San Martino (foto L. Mocci).
Fig. 16: Sanluri, chiesa di San Martino, particolare del portale della facciata (foto L. Mocci).
Fig. 17: Sanluri, chiesa di San Martino, prospetto absidale (foto L. Mocci).
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Fig. 18: Sanluri, chiesa di San Sebastiano (foto L. Mocci).
Fig. 19: Sanluri, chiesa di San Sebastiano, particolare della facciata col portale e l’iscrizione (foto L. Mocci).
Fig. 20: Sanluri, chiesa di San Sebastiano, facciata, particolare con l’iscrizione (foto L. Mocci).
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Fig. 21: Sanluri, chiesa di Sant’Anna, facciata (foto L. Mocci).
Fig. 22: Sanluri, chiesa di Sant’Anna, interno (foto L. Mocci).
Fig. 23: Sanluri, chiesa di Sant’Anna, cappella di Sant’Anna (foto L. Mocci).
Fig. 24: Sanluri, chiesa di Sant’Anna, cappella di Sant’Anna, particolare dell’altare in cui si trovava il retablo.
Nella parete sono visibili i resti dell’arco dell’antica abside (foto L. Mocci).
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Fig. 25: Sanluri, chiesa di San Lorenzo, facciata (foto L. Mocci)
Fig. 26: Sanluri, chiesa di San Lorenzo, facciata, il campanile a vela (foto L. Mocci).
Fig. 27: Sanluri, chiesa di San Lorenzo, facciata, particolare (foto L. Mocci).
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Fig. 28: Sanluri, chiesa di San Lorenzo, facciata, portale di accesso alla navata maggiore (foto L. Mocci).
Fig. 29: Sanluri, chiesa di San Lorenzo, facciata, portale di accesso alla navata destra (foto L. Mocci).
Fig. 30: Sanluri, chiesa di San Lorenzo, interno (foto L. Mocci).
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Fig. 31: Sanluri, chiesa di San Lorenzo, simulacro di San Lorenzo.
Fig. 32: Sanluri, chiesa di San Lorenzo, simulacro della Vergine d’Itria (foto L. Mocci).
Fig. 33: Sanluri, chiesa di San Pietro (foto L. Mocci).
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Fig. 34: Sanluri, la facciata della chiesa di San Pietro prima del restauro (foto Archivio SABAP CA).
Fig. 35: Sanluri, chiesa di San Pietro, facciata, il portale destro prima del restauro con l’iscrizione che si trova
attualmente all’interno dell’edificio (foto L. Mocci)
Fig. 36: Sanluri, chiesa di San Pietro, interno (foto L. Mocci).
Fig. 37: Sanluri, chiesa di San Pietro, la campana cinquecentesca (foto SABAP CA
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Fig. 38: Sanluri, chiesa di San Pietro, crocifisso ligneo cinquecentesco (foto L. Mocci).
Fig. 39: Sanluri, chiesa di San Pietro, il crocifisso ligneo prima del restauro (foto SABAP CA).
Fig. 40: Sanluri, chiesa di San Pietro, busto di San Pietro (foto L. Mocci).
Fig. 41: Sanluri, chiesa di San Pietro, il busto di San Pietro prima del restauro (foto SABAP CA).
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Joan Armangué i Herrero
PISANI NEL CONTESTO DELLA MEMORIA LEGGENDARIA DI ESTERZILI
Joan Armangué i Herrero
(Università di Cagliari – Arxiu de Tradicions)
1. Pisani del Campidano
Tralasciando la geografia minore del ricco e articolato mosaico di regioni
storiche che, pianeggianti, giungono da Cagliari alle montagne del nord-est,
la grande regione geografica del Campidano lambisce le falde della
Barbagia nelle colline del Sarcidano.
Questa enorme pianura cessò di essere controllata dai giudici di
Cagliari dopo la caduta del capoluogo, Santa Igia, che capitolò nel 1258
sconfitta dal Comune di Pisa.1 Protagonisti e beneficiari degli accordi per la
resa del Giudicato, i «domini Sardinee», ossia i principali membri delle
famiglie Visconti, Donoratico e Da Capraia, costituiranno il mezzo tramite
il quale il Comune toscano gestirà il potere nel nuovo territorio acquisito.2
A Guglielmo da Capraia, giudice di Arborea, corrispose la
giurisdizione di un terzo dell’antico Giudicato di Cagliari, quello centrale,
vale a dire il paesaggio pianeggiante che si distingue dalla Barbagia di Seùlo
guardando verso il mare: in lontananza, il Campidano di Cagliari e, tutto
intorno, ai piedi del Sarcidano, le curatorie di Siurgus, Trexenta e Gerrei –
oltre a Gippi, Nuraminis e Parte Olla, più distanti. Intitolazione del Capraia
fu: «Magnificus vir dominus Guilelmus, comes Caprarie, iudex Arboree et
tertie partis regni callaritani» (Cardini 1976).
Dopo la scomparsa documentale di Guglielmo da Capraia, nel 1263,
Mariano II, tutore di Nicolò, figlio ed erede di Guglielmo, si proclamò
1
Per gi aspetti strettamente storiografici legati alla presenza pisana in Sardegna,
rimandiamo al manuale di Francesco ARTIZZU, La Sardegna pisana e genovese (1985: 140141). Per quanto riguarda più concretamente la curatorìa di Trexenta, si veda ID.,
«L’Aragona e i territori pisani di Trexenta e Gippi», in Annali della Facoltà di Lettere,
Filosofia e Magistero dell’Università di Cagliari, XXX (1967).
2
Franco CARDINI, «Guglielmo da Capraia d’Arborea», in Dizionario Biografico degli
Italiani, vol. XIX (1976), consultato nel sito on-line www.trexentastorica.blogspot.com, a
cura di Sergio SAILIS, articolo num. 30, in data 05.08.2020.
51
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Joan Armangué i Herrero
giudice di Arborea e signore del terzo del precedente giudicato di Cagliari.
Cittadino pisano, rese al Comune questo suo terzo campidanese tramite
testamento e morte nel 1295.
Da un punto di vista demografico, il complesso e irregolare
passaggio del territorio da un lignaggio all’altro non suppone,
evidentemente, alcuna mutazione, alcun sussulto nell’ambiente
agropastorale dei territori cagliaritani assoggettati, comunque, al Comune di
Pisa.
Dopo il passaggio del potere in Sardegna da mani pisane a catalanoaragonesi, nel 1324, i pisani ottennero il diritto di risiedere nell’isola in
qualità di sudditi del nuovo re. Ottime concessioni regie permisero di
ripopolare con elementi catalano-aragonesi la città di Bonaria, rivale della
Cagliari ancora pisana, fino a quando certe tensioni e una sicura intolleranza
condussero alla rottura definitiva nell’aprile 1326. Al Comune di Pisa venne
concesso, nonostante la perdita della sua egemonia nell’isola, la gestione
feudale delle curatorìe di Gippi e Trexenta.
Il centro più importante della Trexenta agricola era Goy de Silla,
attuale Guasila. Il Comune di Pisa, nel rispetto degli accordi di pace, non
poteva costruire nel territorio né castelli né fortezze per cui, isolata la
Trexenta fra regnicoli e arborensi, offriva una trista immagine di
vulnerabilità e scarse prospettive di futuro. Le tensioni fra catalanoaragonesi e pisani sono già evidenti dal 1335. Successivamente la Trexenta
fu progressivamente abbandonata dai pisani, di cui si perdono le tracce dal
1362, quando curatore del territorio era tale Gabriello di Coscio Compagni
(Artizzu 1985: 149). Pochi anni più tardi, il 18 ottobre 1365, Filippo della
Sala, luogotenente del vicario del Comune per le curatorìe di Gippi e
Trexenta, fu impiccato da Mariano IV durante l’assedio di Sanluri.3
Le fertili terre presso le falde del Sarcidano entravano ora in
possesso della Corona di Aragona, della quale formeranno parte fino alla
3
Sergio SAILIS, «Epilogo dell’avventura pisana in Sardegna: la tragica fine di Filippo
della Sala», consultato nel sito on-line www.trexentastorica.blogspot.com, articolo num. 97
(2015), in data 05.08.2020.
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dissoluzione della decadente regia istituzione, in Sardegna decretata nel 24
novembre 1717.4
2. Toponomastica di frontiera: Genna ‘e Pisanu (Guasila)
Basteranno due citazioni per incanalare il nostro discorso e inserirci nel
doppio, contrastante paesaggio del territorio in esame. Sintetizzando il
carattere agricolo della pianeggiante Trexenta, Vittorio Angius scrisse nel
XIX secolo: «È questa la contrada più famosa per la produzione del
frumento, che le altre più nobili per la stessa fecondità appena qualche volta
possono pareggiare» (Angius 1843: 238). Descrivendo invece la sua terra
natìa, «questo piccolo villaggio posto ai piedi della montagna di Santa
Vittoria, nella Barbagia di Seùlo» (Olianas 2018: 4), il noto esterzilese
Fernando Pilia scrisse con poetico furore: «Gli insediamenti successivi [alla
romanizzazione] sono modestissimi, sparsi in grandi distanze e formati da
minuti agglomerati di poche case, come imponeva la natura dei terreni poco
fertili, pietrosi o infestati da cespugli spinosi: una caratteristica di questa
zona che resta una delle più povere dell’isola» (Pilia 1986: 28).
Le colline del Sarcidano, così, funsero non soltanto da frontiera
naturale fra le due macro-regioni del Campidano e della Barbagia, ma anche
tra i poteri etnici durante il secolo compreso fra il 1258 e il 1365. A gestire
l’economia fondamentalmente agricola delle terre ai piedi di Esterzili, i
dominatori pisani: i primi ‘usurpatori’ stranieri con cui la Barbagia entrava
fortemente in contatto e in contrasto dopo la lontana romanizzazione; a
Esterzili e verso il nord, i discendenti degli autoctoni Galillensi i quali,
nonostante una economia di sussistenza talvolta variegata, dovevano
attingere alle terre fertili del Campidano durante le dure estati in cui lo
esigeva la remota pratica della transumanza.
4
Nueva planta de la Real Audiencia del Reyno de Zerdeña establecida por Su
Magestad. Cáller: en la Real Imprenta del Convento de S. Domingo, [1717]. Vale la pena
segnalare che con questa severa riforma viene introdotto per la prima volta in Sardegna
l’obbligo dell’uso della lingua spagnola nell’amministrazione, in detrimento del catalano,
che non godeva più dello stesso prestigio sociale: «[Capítulo] 3. Las causas y pleytos en la
Audiencia se substanciarán en lengua castellana».
53
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La concretezza e la chiara coscienza di questa condizione di
territorio di confine ci è pervenuta sotto forma di fossilizzazione linguistica
in alcuni, pochi toponimi. Dalla parte di Guasila possiamo ricordare la
descrizione con cui Sergio Sailis ubica il castello di Cuccuru de Casteddu
fra i giudicati di Cagliari e di Arborea: «Dalla sua cima si ha un’ampia
visuale a sud su una buona parte della valle solcata dal torrente
Sippiu/Lanessi, sino ai contrafforti delle basse colline di Castangiolas e
Genna Pisanu»,5 dove genna sta per ‘accesso’, ‘ingresso’, ‘porta pisana’.
3. Toponomastica archeologica: Perdu Pisanu (Esterzili)
Accediamo anche noi in Barbagia, soffermandoci però nel primo
insediamento che troviamo dopo esservi giunti dal Campidano e superate le
terre intermedie di Nurri e Orroli. Siamo a Esterzili, all’ombra di Santa
Vittoria, accidentato territorio addolcito dai caratteristici altopiani
localmente noti come «taccus», ‘tacchi’. Uno di questi altopiani, Taccu ‘e
Linu, ha dato origine a una bella fiaba, «Tachelinu», ancora viva in loco e
motivo di orgoglio in quanto vuol tradurre un segno di identità di cui gli
esterzilesi vanno fieri, l’umiltà. Raccolta da una studentessa del posto,
Erminia Pirisi –poi maestra di Esterzili, Signorina Mimìna–,6 fu pubblicata
nel 1922 da Gino Bottiglioni fra le sue Leggende e tradizioni di Sardegna in
grafia fonetica.7 La diffusione marginale, accademica, del testo in questa
5
Sergio SAILIS, «Cuccuru de Casteddu (Villamar)», consultato sul sito online
www.trexentastorica.blogspot.com, articolo num. 19 (2011), in data 06.08.2020.
6
«Verso il 1920, nella Scuola Normale di Cagliari, [Gino Bottiglioni] fu maestro delle
diplomande maestre elementari Assuntina Bandino, immaturamente scomparsa nel 1925, e
di Erminia Pirisi, morta a Cagliari nel 1979, la cara indimenticabile Signorina Mimìna che
insegnò a tante generazioni di scolari esterzilesi […]. Queste due studentesse esterzilesi, su
incarico del loro insigne Maestro, presero parte con diligente entusiasmo all’attività di
ricerca di testi e di indicazione fonetica, recuperando preziosi documenti di valore
etnografico. Nell’opera più nota di Gino Bottiglioni, Leggende e tradizioni di Sardegna
[…], sono comprese tre leggende popolari, due raccolte da Erminia Pirisi ed una suggerita
dal nonno di questa, cavalier Fortunato Todde» (Pilia 1986: 165).
7
Nonostante quanto affermato da Fernando Pilia (cfr. nota precedente), che ci presenta
un lavoro scolastico a cura della studentessa esterzilese Erminia Pirisi –e infatti a piè di
pagina la narrazione della leggenda le viene attribuita–, nella sua introduzione Gino
Bottiglioni fa riferimento a «una graziosa leggenda che mi fu narrata a Esterzili», come se
lui stesso avesse fatto tappa nel villaggio barbaricino (Bottiglioni 2003: 64).
54
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erudita grafia, incomprensibile a molti e noiosa per tutti, non gli permise di
influire sulla vitalità spontanea della fiaba, che poté continuare –almeno fino
all’edizione «in grafia normale», a cura di Fernando Pilia (1986: 165)– il
suo percorso orale senza gravi interruzioni. La sua attuale autonomia nei
confronti del testo di Bottiglioni, inoltre, ci viene dimostrata dalle molteplici
varianti con cui circola in paese. Essenzialmente, nella fiaba viene
presentato un giovane pastore, Tachelinu, che avendo incontrato nel bosco
una jana –fata benevola in questa circostanza– accede al suo palazzo, dove
gli viene permesso di scegliere qualunque oggetto fra i gioielli ammucchiati
in una stanza. L’umile pastore, però, nota in un angolo appartato un misero
campanellino, che ritiene adatto per la sua pecora preferita, e sceglie
soltanto quello (Bottiglioni 2003: 194).
Noi ci accorgiamo, però, che in questo caso il toponimo ha creato un
personaggio. Perché è nota la tendenza e la capacità umana, in ambito
popolare, di personificare i fenomeni naturali. Ce ne rendiamo conto con
maggiore chiarezza grazie alla micro-toponomastica archeologica del
territorio. Anche se questa caratteristica è diffusa in tutta la Sardegna, non
abbiamo bisogno di uscire da Esterzili per accorgerci che i monumenti
megalitici prendono vita e rimandano col loro nome tradizionale a un uso
domestico destinato ora a esseri fantastici, ora a persone comuni. Sarebbero
quindi abitazioni, come il loro nome indica, le domus de janas, ‘case delle
fate’; le tracce di un antico villaggio preistorico, S’Omixedda,8 ‘la casetta’;
le tombe di giganti, come quella di S’Omo ‘e Nannis, ‘la casa degli
antenati’; e naturalmente il famoso mègaron di Domu ‘e Orxìa (o Urxia),
quasi sulla cima di Santa Vittoria. Si presentano con indicazioni più
castrensi il nuraghe di Su Casteddu e il recinto o tememos di Crastu Orgiu,
‘dell’orzo’.9
8
Abbiamo potuto constatare che il termine generico di «domixedda», ‘casetta’, si può
riferire a diverse tipologie di monumenti megalitici, incluse le tombe di giganti. Queste
grandi sepolture, coperte da sedimenti millenari, possono presentare un’apertura dovuta a
vecchi crolli o all’attività più recente di cercatori di tesori o tombaroli. L’apertura viene
scambiata per la porta dell’abitazione, ritenuta quindi ad uso individuale: ecco il motivo del
ricorso al diminutivo della più diffusa «domus».
9
Per la nomenclatura dei monumenti archeologici, seguiamo esclusivamente Pilia 1986:
25-28; e Ortu 1993: 19-26. Non tutti i siti sono presenti nella carta archeologica in uso
presso gli uffici comunali («Data 12/1998. Aggiornato 06/1999»). Non siamo riusciti a
55
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Dobbiamo soltanto aggiungere a questo elenco le tracce di un
nuraghe in estrema rovina, Perdu Pisanu (Pilia 1986: 26),10 col gentilizio
maschile come prima, nel caso di Genna Pisanu (si noti anche, sempre a
Esterzili, il villaggio preistorico di Perdu Serrau).
Chiudiamo questo itinerario archeologico con il ricordo leggendario,
da noi raccolto, dell’ultimo pisano che abbandonò il territorio: lasciò
Esterzili dalla parte della tomba di giganti di Sa Ucca ‘e is Canis, ‘la bocca
dei cani’.11 Non si tratterà certamente del misero Filippo della Sala, sopra
ricordato quale personificazione dell’«epilogo dell’avventura pisana in
Sardegna»; ma l’aneddoto non è privo di valore storico: gli esterzilesi
ricordano, perché il fatto si è tramandato da generazione in generazione, che
i pisani –forse non da Esterzili né da Sa Ucca ‘e is canis–, arrivato un
momento cronologicamente difficile da fissare, ad un tratto se ne andarono.
Il senso comune trova immediata e molto logica la prova di questa fuga
leggendaria: «Come si sa? Perché non ci sono più».
4. Galillenses vs. Patulcenses (ovvero barbaricini vs. pisani)
Dal monte Santa Vittoria (1.212 m.) si vedono il mare e l’immenso
Campidano. Quando le estati sono rigide e non ha piovuto d’inverno, i
pastori devono scendere con le greggi in cerca di pascolo. Lo fece nel 1973
il nostro informatore E.C., ormai settantaquattrenne.12 Pagò l’affitto di un
campo di grano, mietuto a metà, a Villamar. Le sue pecore mangiarono sia
la paglia, sia il grano. La convivenza con i proprietari agricoli fu pacifica,
perché gli accordi erano chiari e vennero rispettati.
trovare in paese nessun anziano in grado di identificare il nuraghe di Perdu Pisanu,
evidentemente a causa del suo avanzato stato di degrado.
10
Uno studio archeologico svolto nel 1990 permise di completare il censimento dei
monumenti megalitici di Esterzili, ampliando e integrando così un precedente censimento
del Sarcidano, che aveva interessato Orroli e Nurri (Ortu 1993).
11
Anche questa viene descritta come «un’omixedda».
12
Nato a Esterzili, classe 1946, studi elementari non assimilati, pastore dai 12 anni,
scapolo. È uscito una sola volta dalla Sardegna per recarsi a Roma. Vede il mare da Santa
Vittoria nelle giornate chiare. Parafrasando Marcello Serra, si può ben dire che per lui la
Sardegna «è un continente».
56
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Joan Armangué i Herrero
Non sono stati sempre così sereni i rapporti tra contadini e pastori,
come dimostra la famosa Tavola di Esterzili, editto romano trascritto su
supporto di bronzo, naturalmente in lingua latina, emanato nell’anno 69 d.C.
e rinvenuto nel 1866 da un contadino esterzilese mentre arava un campicello
presso la località di Cort ‘e Lucetta.13 Fatto pervenire al canonico Giovanni
Spano dal parroco di Esterzili, è attualmente custodito presso il Museo “G.
A. Sanna” di Sassari. La sentenza imposta risolveva in favore dei Patulcensi
della pianura un lungo e aspro conflitto –violento– insorto con i montanari
Galillensi a causa dei loro ripetuti sconfinamenti nelle aree basse presso il
Sarcidano. Le terre, quindi, vennero riassegnate ai popoli indigeni14 in
coincidenza con il loro grado di romanizzazione, dacché Roma aveva
maggiore interesse a proteggere il grano che le secolari abitudini e i bisogni
stagionali dei pastori della Barbagia, che le risultavano indifferenti.
Con questo ci sembra sufficientemente accennato il conflitto storicoantropologico nel territorio studiato. Le informazioni contenute nella Tavola
sono evidentemente limitate, per quanto ricche, ed è possibile che le
intensive analisi erudite del suo contenuto (Tavola 1983), che appaiono
contrastanti, siano discutibili e suscettibili di approfondimenti paralleli o
complementari. Ma qualunque origine vogliamo attribuire a Patulcensi e
Galillensi, ovunque li vogliamo vedere stabiliti, qualunque itinerario
riteniamo più verosimile per la rotta che condusse a Esterzili la Tavola, per
l’economia del nostro approccio è sufficiente dare per stabilito che il
pacifico atto di transumanza avviato nel 1973 dal pastore E.C., esterzilese,
riproduceva una tendenza millenaria, talvolta conflittuale in periodi di
assenza di potere, di allontanamento della signoria.
E la signoria si allentò, come abbiamo visto, quando i pisani –
sostituti dei Patulcensi o qualunque nome vogliamo dare agli agricoltori
romanizzati– rimasero isolati nella Trexenta, senza nemmeno la possibilità
di erigere né usare fortezze per contenere gli impulsi direi anarchici dei
13
Per una descrizione sommaria e asettica, ma schiettamente precisa, di questa tavola, si
veda l’«Intervento introduttivo» di Antonietta BONINU in Tavola 1993: 15-18.
14
Sarebbe fuori luogo invocare il carattere coloniale e l’origine campana dei Patulcensi,
dal momento che li troviamo inseriti nel territorio almeno dal II secolo a.C.
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barbaricini. Per gli esterzilesi, i pisani erano diventati non più dominatori
troppo vicini, bensì prede facili e soprattutto ricche.
Sintetizzano in modo opportuno questa situazione di difficile
equilibrio pisano-barbaricino le seguenti parole dell’esterzilese Fernando
Pilia:
L’atteggiamento dei pastori montanari dell’area povera di risorse contro le
popolazioni delle fertili e ricche terre del sud-est dell’isola ha origini
remotissime e conserva ancora oggi la tradizione di fastidio e di
sconfinamento legata alla pratica abigeataria. D’altronde ancora durante i
secoli XIV e XVI, stando a quanto hanno registrato i parroci di questa zona nei
libri parrocchiali che hanno raccolto le cronache delle comunità dei nostri
villaggi, gli abitanti del territorio vicino al luogo dove è stata rinvenuta la
famosa tavola di bronzo avevano conservato lo stesso carattere irrequieto di
violenti invasori delle aree confinanti (Pilia 1993: 39).
La tradizione predatoria dei barbaricini era stata già subita durante la
signoria di Mariano III d’Arborea quando, nel 1319, si era lamentato con il
Comune di Pisa
per i frequenti reati commessi da pastori e uomini della Barbagia di Seulo: su
tutti abigeato, furti e omicidi ai danni dei sudditi del giudice di Arborea e alle
sue proprietà. Mariano d’Arborea, oltre a ribadire la richiesta di risarcimento,
chiedeva ai Pisani di intervenire per garantire il controllo del territorio e una
giustizia esemplare. Sconsolati, i rappresentanti del Comune toscano
ammisero che non solo non riuscivano a controllare gli abitanti della
Barbagia di Seulo ma, a loro volta, subivano violenze e altre offese. I
barbaricini, sin dalla prima infeudazione, si dimostrarono riottosi anche a
pagare i tributi (Oppus: 2016: 26-27).
5. Il tesoro dei pisani
Descritti i contesti storico e geografico, possiamo ora entrare nel pieno del
mistero che si nasconde dietro alla memoria leggendaria dei pisani a
Esterzili. Prima, però, conviene ancora tener conto che il loro arrivo in
Sardegna era ricordato a Ghilarza, nel secondo decennio del secolo XX, con
estrema chiarezza, poiché coincise con un fatto di enorme rilevanza: con i
pisani scomparirono le janas del territorio. Infatti, «le Gianas erano
piccoline piccoline e vivevano nelle case delle Gianas. Erano molto belle e
si vestivano di rosso con un fazzoletto fiorito. […] Questa gente, quando
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furono venuti i pisani, a poco a poco si furono disperse, ma delle case loro
se ne trova ancora» (Bottiglioni 2003: 158-159). La cronologia, però, non
appare salda per la signora Mariannicca Fadda, informatrice del già citato
folklorista Gino Bottiglioni, visto che si riferisce a un passato di soltanto
novanta anni, quando sua nonna incontrò una jana in località Òrgono
(nome, fra l’altro, di alcuni nuraghi in Sardegna). Molto prima di questo
ultimo contatto, «centottant’anni fa, vivevano le signore di Donnigazza nel
rione che si chiamava Donnigazza. Le case loro erano fatte come i nuraghi,
ma molto più grandi e in mezzo al giardino. […] Avevano grandi tesori e
usavano sotterrarli sotto al pavimento delle case. […] Quando sono venuti i
pisani sono scomparse» (Bottiglioni 2003: 160-161). Ecco testimoniati,
quindi, prima l’uso atavico delle domus de janas, poi l’origine degli
scusorxus da loro accumulati –‘tesori nascosti’– e ovunque il chiaro ruolo
dei pisani, che creano un impreciso prima e un poi nella cultura folklorica
sarda.
Abbiamo tralasciato per questo momento il ricordo di un altro
monumento megalitico di Esterzili, chiamato appunto Scusorxu (Ortu 1993:
22).15 E non ci sorprende un appellativo del genere, dal momento che sono
sicure, documentate, le antiche ricerche di tesori in questa località, in
pregiudizio dei beni archeologici che, in occasione dei restauri, furono
rinvenuti già inutilmente saccheggiati, danneggiati da antichi tombaroli.16
Costoro, avendo capito grazie all’attenta divulgazioni culturale a cura della
Sovrintendenza Archeologica per le province di Sassari e Nuoro17 che il
vero valore delle statuette di bronzo (i supposti tesori) non era tanto
materiale quanto artistico e storico, e che il valore di mercato si acquisisce
presso Musei e Collezioni sia pubbliche che private, si specializzarono e
15
Scrive Gino Bottiglioni (2003: 62): «Non sono pochi i monumenti nuragici e le tombe
dei giganti che prendono il nome dal tesoro che vi si crede sotterrato»; e propone i seguenti
esempi: «Si chiamano Su scusórgiu una sepoltura di giganti presso Baunei e un nuraghe a
Gesturi e a Sini. Un nuraghe De su schisórgiu è vicino a Santadi, un altro detto Su siddádu
[= ‘tesoro nascosto’] è nel territorio di Sindia ecc.» (Bottiglioni 2006: 62, n. 154).
16
Sono un buon esempio di questa pratica le tre tombe di giganti di Genna ‘e Cussa, le
cui strutture «sono notevolmente danneggiate dagli scavi clandestini» (Ortu 1993: 22).
17
Esterzili appartenne alla provincia di Nuoro fino al 2003, anno in cui passò alla
provincia di Cagliari. Attualmente, con la riforma del 2016, forma parte della provincia del
Sud Sardegna.
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impararono ad andare a colpo sicuro, con l’aiuto delle tecniche che la
scienza archeologica pone a disposizione dei ricercatori. Siamo venuti a
conoscenza che a Monte Nieddu, dove insistono quattro tombe di giganti, di
notte ma alla presenza di un pubblico privilegiato –in mezzo al quale
avremmo trovato il nostro informatore L.O.–,18 un uomo di Nurri, esperto in
furti a danno dello Stato, in base ai punti cardinali e alla distanza rispetto a
una «perda longa», infissa verticalmente sul pavimento, dedusse il punto
preciso dove doveva giacere la testa del defunto lì sotterrato; e infatti, aperto
un varco nella fossa, furono rinvenute due antiche monete e alcuni pezzi di
vasellame in terracotta: non certo un fantasioso scusorxu, bensì un ottimo
bottino archeologico, proprio come ci si auspicava ed era stato previamente
annunciato.19
Ma i pisani di Esterzili? Abbiamo detto della loro lontana scomparsa
da Bucca ‘e is Canis. Prima di abbandonare il territorio, però –come
avrebbero fatto più avanti gli ebrei espulsi dal Regno, nel 1492–, lasciarono
ben sepolti i loro tesori… che non sono stati ancora trovati:
A volte la fantasia popolare non si limita a creare l’esistenza di un tesoro, ma
cerca anche di stabilirne l’origine. […] A Esterzili si crede che i pisani, che
ebbero a temere l’invasione di un popolo, seppellirono tutti i loro averi in un
pozzo profondo quaranta metri e chiuso con uno strato di sabbia e di calce.
Mi raccontarono –scriveva Bottiglioni nel 1923– che essendosi trovata nel
1912 una carta nella quale si parlava di questo tesoro, furono fatti degli scavi,
ma non si rinvenne altro che un idoletto di bronzo, delle perle antichissime e
uno scheletro umano, perché le ricerche non seguirono le indicazioni precise
del documento.
[Nota:] Questo dovrebbe trovarsi presso il Signor Bernardo Dessy, sindaco di
Esterzili, il quale però mi fece comunicare che l’avea smarrito (Bottiglioni
2003: 62-63).
Per dotare di maggior prestigio di verosimiglianza un altro
documento simile rinvenuto a Cagliari, in lingua spagnola, il trascrittore
chiariva la fonte documentale da dove ne avrebbe tratto copia autentica:
«Antigüedades de Sardeña sacadas en ciudad de Pisa de los archivos
auténticos. Per cavare del nostro autentico questo registro mi son pagato
18
Nato a Esterzili, classe 1970, studi elementari, vaccaro.
Siamo coscienti che questa storia, anche se riconosciuta come veritiera dal gruppo di
amici del sig. L.O., potrebbe essere anch’essa una leggenda, oppure partecipe dei fenomeni
narrativi frequenti in tale genere etno-poetico: la presenza di testimoni, ad esempio.
19
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della moneta della città di Pisa – Anno 1721 – Toma Forlino, Bibliotecario e
Notaro di Pisa» (cit. Bottiglioni 2003: 62).
Si vede che gli agricoltori pisani stabiliti nelle pianure vicine a
Esterzili erano ricchi per davvero.
6. Una chiesa pisana in stile gotico-catalano? San Michele Arcangelo
Il nucleo abitativo di Esterzili nasce, in data indefinita lungo il Basso
Medioevo,20 in un fertile e umido terrazzamento fra Funtana ‘e Idda (‘del
villagio’) e l’umile ruscello di Maistu Antinu. Si trattava quindi di un
piccolo punto di aggregazione di agricoltori pastori che, lasciando i
minuscoli e dispersi abitati alto-medievali del territorio intorno al monte
Santa Vittoria, poterono utilizzare le abbondanti, perenni acque di Funtana
‘e Idda per l’irrigazione dei piccoli orti faticosamente stabiliti su
terrazzamenti artificiali lungo la vallata che scende verso il Rio Mannu.
L’insediamento originario presso quest’angolo naturale viene confermato
dalla toponomastica, in quanto poco più in alto, a duecento metri di distanza
e con un dislivello approssimato di dieci metri, sorge la chiamata Funtana ‘e
Susu (‘di sopra’), che non trova la sua corrispondente «de Basciu» (‘di
sotto’), bensì soltanto la suddetta Funtana ‘e Idda.
Presso questa fontana, la chiesa parrocchiale di San Michele
Arcangelo, patrono di Esterzili, teneva unito l’abitato nella fede.21 Nella sua
forma attuale, la facciata, semplice e sobria quanto si conviene a un contesto
umano di povertà estrema, si distingue per il suo portale ogivale, con
20
Iliana Olianas (2018: 22) afferma che «le prime citazioni scritte del villaggio si
trovano in documenti risalenti al 1200, al 1335 e al 1420».
21
Conosciamo i terreni confinanti con la chiesa di San Michele grazie a un atto di
permuta di due predi fra la parrocchia e Raimondo Locci, firmato a Esterzili in data 20
dicembre 1846: «Il vicario e il sindaco cedono perpetuamente al notaio Raimondo Locci
l’orto (Ortu de Funtana) che la chiesa possiede a Funtana de Idda, coerente colla strada
pubblica, con possesso di Valentino Olianas e con orto di Giovanni Antioco; il notaio Locci
rilascia in favore della chiesa parrocchiale tutto quel chiuso di Bingia de Cresia, confinante
col piazzale della parrocchia, colla strada pubblica, con ruscello di Maistu Antinu e con
vigna del prefatto sindaco Depau» (Archivio di Stato di Cagliari, Segreteria di Stato, II
serie, vol. 393, c. 21; cit. CARBONI 2015).
61
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colonnine sorrette da peducci a decorazione vegetale,22 e il suo grande
rosone, il tutto coronato da umili merletti che dinamizzano la linea
orizzontale superiore e rafforzano la parvenza di verticalità.
La bibliografia fa risalire la chiesa al XV secolo e la descrive facendo
riferimento al suo stile tardo gotico-catalano.23 Così lo chiarisce inoltre il
solito segnale di informazione turistica, non certo di fattura recente. Ciò
nonostante, la comunità ritiene, in modo unanime, che sia stata eretta dai
pisani. Si tratta, per dirlo molto chiaramente, di un atto di fede non soltanto
indiscusso, ma anche indiscutibile, nonostante i nostri chiarimenti che
tendevano a far capire che l’espressione scritta «secolo XV» corrisponde al
Quattrocento e che l’ultimo dei pisani (quello di Bucca ‘e is Canis, si
capisce) aveva abbandonato l’isola un secolo prima. In ambienti semi-colti e
colti, sempre nel contesto locale, si cerca ancora di intravedere negli archi
della navata (ogivali) qualche richiamo romanico. E se si deve abbandonare
–provvisoriamente– la spontanea tendenza filo-pisana, lo si fa con amarezza
e profonda delusione. Da dove nasce, però, tanta convinzione, tanta
insistenza? Certo, se diamo ascolto –e ne abbiamo dato veramente tanto– a
queste forme di memoria popolare, collettiva, e vogliamo affidarle una
speranza storicista, si potrebbe ipotizzare una fondazione di epoca pisana e
un restauro, ampliamento, ricostruzione quattrocentesca.24 Per questioni di
metodo e di onestà speculativa, in assenza di prova contraria questa porta
deve rimanere aperta. Ma non si può nemmeno chiudere la probabilità che il
tutto corrisponda a un’interpretazione leggendaria del ruolo che hanno
occupato i pisani in queste montagne, come ci accingiamo ad accennare nei
prossimi paragrafi conclusivi.
22
È eccezionale e sorprendente la somiglianza di questo portale a quello della chiesa di
San Valentino, nella vicina località di Sadali, sempre nella Barbagia di Seùlo.
23
«Eretta nel secolo XV in stile gotico-aragonese attardato» (Olianas 2018: 75); «Fu
edificata nel secolo XV, sotto la dominazione spagnola [?], in stile gotico-aragonese
attardato, col piccolo campanile a vela, la merlatura sul prospetto, il rosone e l’ingresso
ogivale» (Pilia 1986: 109).
24
La chiesa di San Michele Arcangelo viene citata, a metà sec. XIV, nelle Taxationis
benefficiorum Regni Sardinie (ca. 1350), dove si legge: «Episcopatus Suellensis. Ecclesiam
Santi Michaelis de Stercila cum Sidal – VIII libres» (Forci 2015: 100). Malgrado questa
interessante testimonianza, sarebbe vana speculazione voler interpretare lo stile e la
cronologia di tale chiesa, ormai scomparsa nelle sue forme pre-catalane.
62
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7. Come i ladri di Pisa
La fama che i pisani lasciarono dietro di sé in Sardegna può essere valutata
da certe locuzioni raccolte dal Wagner nel suo Dizionario etimologico
sardo, secondo il quale il «ladro di Pisa» è quello particolarmente abile, che
gode addirittura di una tecnica speciale che consiste nel far finta di litigare
on altri onde distrarre la vittima (DES, s.v.). Ciò nonostante, troviamo in
lingua catalana, documentata presso le isole Baleari, un’espressione che
riporta a una pratica simile (DCVB, s.v.): «Esser com els lladres de Pisa,
que de dia es barallen i de nits van a robar plegats» (‘Essere come i ladri di
Pisa, che di giorno bisticciano e di notte vanno a rubare insieme’). Altra
similitudine sardo-catalana la troviamo nel verbo sassarese «pisanà», vale a
dire ‘rubare’; si tenga conto che in catalano, familiarmente, i soldi possono
essere chiamati «la pisa» (DCVB, s.v.). Ne deduciamo che non si tratta,
quindi, di apprezzamenti locali sardi, contrariamente, però, a un altro
esempio proprio del logudorese settentrionale: «Bidersila a Pisa», ‘vedersela
brutta’ –secondo gli appunti di Pietro Casu che il Wagner poté consultare
quando il Vocabulario sardo logudorese-italiano era ancora inedito–
sarebbe conseguenza di «un doloroso ricordo della erosa signoria di Pisa». E
continua: «Pare che i pisani non abbiano lasciato un buon ricordo, almeno in
quella parte settentrionale dell’isola» (DES, s.v. «Pisa»).
Niente di tutto ciò, però, si può fare estensivo al territorio della
Barbagia di Seùlo. Potremmo addirittura affermare che in tal senso –vale a
dire, in relazione al danno economico che la loro presenza poté
rappresentare per i sardi della Barbagia– il ricordo dei pisani sia neutro. Che
fossero più ricchi dei poverissimi contadini e pastori sardi, va da sé: non
invano li si ritiene in grado di accumulare dei tesori –come gli ebrei di
Alghero (Armangué 2001). Ma certamente gravarono poco sull’economia
locale, dal momento che arborensi e pisani preferirono non avvicinarsi a
queste montagne,25 se non per commerciare pacificamente con la pregiata
cera esterzilese, che veniva esportata oltre mare (Pilia 1986: 153).
25
«I paesi di Villanovatulo, Esterzili, Sadali, Seùlo e Ussàssai erano feudatari [sic, per
«infeudati»] alla famiglia Carroz, ma fino alla sconfitta degli Arborea, per la resistenza
63
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8. Saggio etno-demoscopico conclusivo
Vogliamo quindi accennare alla possibilità che, nel contesto della memoria
tradizionale barbaricina in generale ed esterzilese in particolare, nel contesto
etno-poetico se vogliamo, il termine «pisano» si sia impoverito delle sue
connotazioni privativamente gentilizie per assumere un folklorico valore
cronologico, un indefinito marchio temporale antem quem e post quem,
decisamente vicino a un limbo in cui acquisisce un significato comunicativo
secondo il quale il prima dei pisani fa riferimento a un’epoca protostorica; e
vagamente, imprecisamente storica il dopo i pisani. Così, il fantastico e
fantasioso mondo nuragico, le janas, le signorine di Donigazza…
scompaiono con l’arrivo dei pisani (come se il mondo giudicale non avesse
lasciato memoria di sé nelle irrequiete terre degli eversori barbaricini); e con
l’uscita di scena dei pisani appaiono invece i tesori, gli scusorxus da loro
messi da parte in attesa di un ritorno. Ritorno che non avvenne mai, così la
speranza di un improvviso arricchimento rimane ancora aperta, è una
possibilità verosimile viste le ricchezze accumulate dai signori delle vallate.
Tutto questo nei tempi antichi: novant’anni fa, cent’ottanta, di più;
nel XV secolo, nel Quattrocento, prima. Cosa può esserci di più antico
nell’arte cristiana esterzilese se non il ricco contributo dei pisani? Ecco le
origini della goticizzante chiesa parrocchiale di San Michele Arcangelo: la
vollero decisamente i pisani, i primi usurpatori visti salire dalla valle prima,
molto prima dei sabaudi, degli spagnoli, degli aragonesi o catalani.
I pisani rappresentano, agli occhi dell’esterzilese fiero della propria
tradizione, ciò che di più arcaico esiste in queste colline dopo i tempi
fondazionali dei nuraghi, le janas i di Orxìa. Pisa è il mito dell’origine della
storia materiale, madre di quel tipo di ciliegia, chiamata appunto pisana, che
offrono gli arbusti selvatici presso i terrazzamenti che scendono verso Rio
Mannu e che indubbiamente innestarono gli stessi pisani presso l’orto
della popolazione e per le difficoltà del terreno, nessun feudatario osò presentarsi
personalmente e neppure inviare i suoi rappresentanti» (Pilia 1986: 40-41).
64
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primordiale che circonda la loro chiesa, quella del santo patrono Michele
Arcangelo.26
Bibliografia
ANGIUS, Vittorio (1843): Dizionario geografico-storico-statistico-commerciale degli stati
di S.M. il Re di Sardegna. Torino: 1843, vol. XXIII, s.v. «Trecenta».
ARMANGUÉ, Joan (2001): «Tesori in Alghero: il ‘sidadu’ della chiesa di Santa Croce (18201847)», in Tesori in Sardegna, ed. Joan Armangué e Luca Scala. Dolianova: Grafica del
Parteolla, pp. 42-53.
ARTIZZU, Francesco (1985): La Sardegna pisana e genovese. Sassari: Chiarella.
BOTTIGLIONI, Gino (2003): Leggende e tradizioi di Sardegna. Testi dialettali in grafia
fonetica, ed. Giovanni Lupinu. Nuoro: Ilisso.
CARBONI, Francesco (2015): Alcune fonti scritte della società ed economia di Esterzili. Sito
on-line
dell’Accademia
sarda
di
storia,
di
cultura
e
di
scienza,
www.accademiasarda.it/2015.
DCVB: Antoni M. ALCOVER – Joan de B. MOLL, Diccionari català-valencià-balear.
Versione on-line: www.dcvb.iecat.cat.
FADDA, Maria Ausilia (s.d.): «Esterzili. Nel cuore della Sardegna nuragica», in Archeologia
Viva, num. 88.
FORCI (2015): Antonio Forci, «Le decime papali nella diocesi di Suelli da una fonte inedita
del sec. XIV», in Studi Ogliastrini, num. 12 (2015), pp. 91-100.
OLIANAS, Iliana (2016): Esterzili. «Tutti i Comuni della Sardegna», num. 95, ed. Salvatore
Tola. Sassari: Carlo Delfino.
OLIANAS, Iliana (2018): Esterzili. Storia, tradizioni, personaggi. Sassari: Carlo Delfino.
OPPUS, Umberto (2016): Sa giustizia ti cruxat. L’amministrazione della giustizia in
Sardegna tra il XVI e il XIX secolo. Il caso del Ducato di Mandas. Cagliari: Arkadia editore.
ORTU, Grazia (1993): «Le testimonianze archeologiche di Esterzili e del suo territorio», in
Tavola 1993: 19-26.
PILIA, Fernando (1986): Esterzili. Un paese e la sua storia. Cagliari: Aldo Trois.
PILIA, Fernando (1993): Per un volume sulla Tavola di Esterzili e sulle controversie tribali
nella Sardegna antica, in Tavola 1993: 35-47.
SAILIS, Sergio (2011): «Cuccuru de Casteddu (Villamar)». Sito on-line
www.trexentastorica.blogspot.com, articolo num. 19.
SAILIS, Sergio (2015): «Epilogo dell’avventura pisana in Sardegna: la tragica fine di Filippo
della Sala». Sito on-line www.trexentastorica.blogspot.com, articolo num. 97.
TAVOLA (1993): La Tavola di Esterzili. Il conflitto tra pastori e contadini nella Barbaria
sarda. Convegno di studi, Esterzili, 13 giugno 1992, ed. Attilio Mastino. Sassari: Gallizzi.
26
La ciliegia selvatica non è conosciuta come pisana. bensì «ceresia aresti» o «bruda».
Ma interrogati in modo mirato alcuni esterzilesi, affermarono che, pur non sapendolo con
certezza, poteva soltanto trattarsi del frutto dei ciliegi innestati dai costruttori pisani della
chiesa parrocchiale.
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Giuseppe Piras
«P. JOSEPH MONSERRATUS DE CASTRO ARAGONESIO ...»:
ANNOTAZIONI EPIGRAFICHE E RECENTI ACQUISIZIONI SUL PITTORE ANTONIO
MARIA CASABIANCA, CON UNA POSSIBILE ATTRIBUZIONE A LUI DEL DIPINTO
RAFFIGURANTE IL PADRE GIUSEPPE MONSERRATO NELLA S. MARIA DELLE
GRAZIE DI CASTELSARDO
Giuseppe Piras
(Università di Sassari – Centro Studi Basilica di San Gavino di Torres)
In ricordo di Suor Caterina Branca
e di Padre Umberto Zucca
Il progetto denominato ‘Rilievo Scanner Laser 3D della basilica di San
Gavino’,1 avviato nel 2011 dal Centro Studi Basilica di San Gavino di
Torres2 con la collaborazione del Dipartimento di Ingegneria Civile
dell’Università di Pisa,3 del Dipartimento di Archeologia e Storia delle Arti
dell’Università di Siena4 e del Dipartimento di Architettura, Design,
1
In merito alle finalità e modalità di esecuzione del progetto si veda G. BAZZONI, La
basilica di San Gavino passata allo «scanner» per svelarne tutti i segreti, «La Nuova
Sardegna», 28 Luglio 2011, p. 38; E. FANCELLU, La Basilica di San Gavino in 3D grazie al
Progetto “Laser scanner 3D” voluto dal Centro Studi della Basilica di San Gavino di
Torres, «Il Corriere del Turritano», anno I, n. 2, 1 Ottobre 2011, pp. 18-19.
2
Il Centro Studi Basilica di San Gavino di Torres è un’associazione con sede a Porto
Torres (SS) che da anni si distingue per le sue iniziative in ambito culturale, segnatamente
nel settore storico-archeologico ed in quello architettonico-artistico, rivolte in particolare
allo studio ed alla valorizzazione del complesso monumentale edificato sul Monte Agellu
nel quale spiccano la basilica romanica (dedicata ai santi martiri Gavino, Proto e
Gianuario), le aule di culto d’età paleocristiana ed altomedievale rinvenute nell’Atrio
Comita e le cumbessìas (XVII sec.), termine del dialetto logudorese usato per indicare le
abitazioni destinate all’accoglienza dei pellegrini.
3
La struttura inserita nel progetto è il Laboratorio A.S.T.R.O. (Applicazioni
Scientifiche e Topografiche per il Rilievo Operativo) che ha per referenti la prof. Gabriella
Caroti e l’ing. Andrea Piemonte. Un resoconto preliminare dei risultati ottenuti dal
Laboratorio A.S.T.R.O. è in G. CAROTI, A. PIEMONTE, M. BEVILACQUA, Rilievi integrati
della Basilica romanica di San Gavino a Porto Torres, in Atti della 16a Conferenza
Nazionale ASITA (Fiera di Vicenza, 6-9 novembre 2012), Milano 2012, pp. 391-396.
4
Responsabile scientifico per il progetto è la prof. Giovanna Bianchi mentre il
coordinamento sul campo è stato affidato al dott. Giuseppe Fichera, del Laboratorio
67
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Giuseppe Piras
Urbanistica con sede ad Alghero5 nonché di numerosi ricercatori e studiosi
di discipline afferenti all’età medievale, ha portato alla realizzazione di un
modello 3D della basilica romanica6 (con l’impostazione di un archivio GIS
del monumento),7 allo studio delle murature dell’edificio,8 dei bacini
ceramici inseriti nel suo paramento esterno e delle testimonianze epigrafiche
e gliptografiche. Proprio quest’ultima attività di ricerca ha permesso a chi
scrive di identificare e analizzare tutte le iscrizioni, le marche lapidarie, i
segni ed i graffiti di vario genere e natura lasciati nel corso dei secoli nel
San Gavino.9 Oltre alla mappatura dei documenti epigrafici e gliptografici
LAAUM (Laboratorio di archeologia dell’architettura e dell’urbanistica medievali), con
sede a Grosseto, diretto dalla stessa prof. Bianchi ed afferente al Dipartimento di Scienze
Storiche e dei Beni Culturali dell’Università degli Studi di Siena.
5
Nel progetto è coinvolto il Laboratorio proSIT (Progetto Sistemi Informativi
Territoriali) che ha quale responsabile scientifico il prof. Maurizio Minchilli e coordinatore
la dott. Loredana Francesca Tedeschi.
6
La basilica (come già sottolineato in precedenza, dedicata ai tre Martiri Turritani
Gavino, Proto e Gianuario ma comunemente nota con l’intitolazione al solo san Gavino) è
un gioiello dell’architettura romanica eretto nell’XI sec. e ha quale caratteristica principale
la sua peculiare planimetria a sviluppo longitudinale con absidi affrontate, presenti già nel
progetto originale, che fa di questo monumento un unicum non solo in Sardegna ma anche
in Italia. Accanto a questa straordinaria particolarità il San Gavino, in virtù delle
ragguardevoli dimensioni del corpo dell’edificio (lungh. totale: 60,65 m; largh. totale:
19,84 m), detiene un altro primato: quello di essere il monumento romanico più grande
dell’Isola.
7
Il modello tridimensionale a mesh renderizzati ottenuto dall’elaborazione delle nuvole
di punti è il prodotto finale di un lungo lavoro di rilievo e modellazione 3D iniziato con la
campagna effettuata dal 5 al 10 giugno del 2011 da un gruppo di otto tecnici del
Laboratorio A.S.T.R.O. Il gruppo, suddiviso in squadre, ha operato simultaneamente con le
diverse metodologie necessarie al rilievo integrato: laser a scansione, fotogrammetria e
topografia classica.
8
Lo studio è stato condotto secondo i moderni criteri d’indagine dell’Archeologia
dell’Architettura e ha reso possibile la ricostruzione nel dettaglio dello sviluppo del
monumento tramite l’individuazione nelle strutture murarie dei diversi momenti della
fabbrica nonché degli interventi di restauro operati nelle epoche successive.
9
Questo lavoro ha ulteriormente affinato ed implementato, attraverso l’acquisizione di
nuovi dati, quello eseguito dallo scrivente nell’ambito del progetto ‘Cattedrali di Sardegna
– Restauro della basilica di San Gavino’ (POR Sardegna 2000-2006, Asse II, Misura 2.1) in
seguito a specifica attribuzione d’incarico. Cfr. G. PIRAS, S. CASTIA, Enrico Costa e
l’«Anonimo del 1818». La vexata quaestio dell’epigrafe di consacrazione della basilica di
S. Gavino in un inedito documento ottocentesco. Nota introduttiva e trascrizione, in
AA.VV., La basilica di San Gavino a Porto Torres. Teorie a confronto, Pisa 2010, pp. 5078, pp. 73-74, nota 56; G. PIRAS, Le epigrafi, i segni lapidari e i graffiti, in M. MILANESE (a
cura di), Villaggi e monasteri. Orria Pithinna. La chiesa, il villaggio, il monastero, Firenze
2012, pp. 63-112, p. 97, nota 214 e G. PIRAS, S. CASTIA, Appendice. Enrico Costa e
l’«Anonimo del 1818». La vexata quaestio dell’epigrafe di consacrazione della basilica di
68
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Giuseppe Piras
presenti nell’intera struttura architettonica della chiesa,10 l’indagine ha
riguardato anche gli arredi sacri custoditi al suo interno, in particolare i
dipinti e le sculture lignee.11
Il dipinto de ‘I tre Martiri Turritani nella gloria’
Il 25 ottobre del 2012, nell’ambito del Convegno ‘Arte e devozione ai Santi
Martiri Turritani alla fine dell’Ottocento’,12 è stata illustrata la scoperta della
firma e dell’anno di esecuzione del quadro collocato al di sopra dell’altare
maggiore ottocentesco che è addossato alla parete della navatella
meridionale della basilica.13 Il dipinto (Fig. 1), un olio su lamina zincata,14
riproduce ‘I tre Martiri Turritani nella gloria’, ovverosìa i santi Gavino,
Proto e Gianuario (secondo le fonti agiografiche martirizzati nella colonia di
Turris Libisonis, odierna Porto Torres, attorno al 303 d.C. sotto gli
S. Gavino in un inedito documento ottocentesco. Nota introduttiva e trascrizione, in
AA.VV., Enrico Costa (1841-1909). Società, politica e cultura tra Otto e Novecento,
Convegno di Studi, Sassari, 26-27 marzo 2009, Sassari 2012, pp. 257-296, pp. 288-289,
nota 56.
10
Entrando più nel dettaglio, il censimento e la catalogazione con successiva analisi
delle testimonianze epigrafiche e gliptografiche sono stati effettuati sul paramento murario
esterno ed interno del San Gavino; sui capitelli, sulle colonne e sulle basi delle navate; sulla
travatura lignea delle capriate; sulle lastre plumbee poste a copertura della basilica; sulle
torrette cilindriche e sugli archetti merlati che decorano il crinale del tetto ed infine sulla
statua del martire collocata al centro del colmo di quest’ultimo.
11
Un’esigua parte dei risultati ottenuti con i progetti ‘Cattedrali di Sardegna – Restauro
della basilica di San Gavino’ e ‘Rilievo Scanner Laser 3D della basilica di San Gavino’ è
confluita in G. PIRAS, Testimonianze epigrafiche e gliptografiche della basilica di San
Gavino: inquadramento generale della documentazione, in P. PERALTA, G. PIRAS, R.
PALMIERI, G.L. MEDAS, I segreti delle cattedrali, Cagliari 2016, pp. 31-39.
12
Sul convegno cfr., tra gli altri, P. SABA, I martiri nel quadro sconosciuto, «La Nuova
Sardegna», 18 Ottobre 2012, p. 28; IDEM, A Balai lontano per ricordare il martirio, «La
Nuova Sardegna», 21 Ottobre 2012, p. 40.
13
L’altare marmoreo (misure: cm 100x300x70,5) venne commissionato, in sostituzione
di quello seicentesco, dall’arcivescovo di Sassari Alessandro Domenico Varesini allo
scultore Giuseppe Gaggini (o Gagini, 1791-1867) il quale lo realizzò nel 1840, anno in cui
ultimò a Genova (sua città natìa) anche il pulpito marmoreo della Cattedrale di S. Nicola a
Sassari; cfr. M.G. SCANO, Pittura e scultura dell’Ottocento, Nuoro 1997, pp. 96 e 98; E.
COSTA, Sassari, ed. E. CADONI (a cura di), Sassari 1992, II, p. 1163 e S. NAITZA,
Architettura dal tardo ‘600 al Classicismo purista, Nuoro 1992, p. 205.
14
Compresa la cornice, le dimensioni del dipinto sono cm 168,5x265,5.
69
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Giuseppe Piras
imperatori Diocleziano e Massimiano)15 in Paradiso accolti da Nostro
Signore e da una schiera di anime di defunti posizionata in secondo piano ai
lati della scena. Fino ad allora l’opera pittorica era stata assegnata ad
Anonimo e non era databile altrimenti ma accurate e reiterate analisi non
invasive hanno consentito l’individuazione della firma in corrispondenza
dell’angolo inferiore destro del quadro. Il titulus (Fig. 2), graffito con un
punteruolo sulla superficie del dipinto, recita “Abbozzo di G. Galeazzo
1890” e ha svelato finalmente l’identità dell’autore del quadro (o di colui
che ne eseguì, per l’appunto, l’abbozzo), l’artista piemontese Giacomo
Galeazzo, consegnandoci nel contempo l’anno esatto della sua
realizzazione, il 1890.16 Le uniche notizie in merito al dipinto, mai oggetto
di schedatura da parte della Soprintendenza, provenivano dalle fonti orali e
dalla documentazione fotografica, anch’esse piuttosto scarne: si è potuto
appurare da queste che in passato il quadro stesse all’interno della piccola
chiesa di San Gavino a mare17 (nel Seicento intitolata a Sanctu Gavinu
15
La Passio sanctorum martyrum Gavini, Proti et Ianuarii, databile ad un periodo
compreso tra la seconda metà dell’XI e gli inizi del XII secolo, è il più antico documento
che contiene le vicende del miles Gavinus, convertitosi al Cristianesimo e per questo
condannato dal praeses Barbarus a subire la pena capitale della gladii animadversio,
sentenza eseguita secondo le fonti il 25 ottobre, assieme a quelle dei suoi socii, il presbitero
Protus e il diacono Ianuarius, anch’essi martirizzati per decapitazione (in quanto
rifiutarono di abiurare la fede cristiana) ma due giorni dopo, il 27 ottobre. I due codici più
antichi della Passio, cioè il Montepessulanus H1,1 ed il Montepessulanus H1,2, contenuti
nel Liber de Natalitiis in uso presso l’abbazia cistercense di Clairvaux, sono entrambi
attualmente conservati nella Biblioteca della Facoltà di Medicina di Montpellier. Per
l’edizione critica della Passio sanctorum martyrum Gavini, Proti et Ianuarii si rimanda a
G. ZICHI (a cura di), Passio sanctorum martyrum Gavini, Proti et Ianuarii, Muros 20135;
sulla sua datazione cfr. ivi, p. 52.
16
Sulla scoperta e su Giacomo Galeazzo cfr. G. PIRAS, ‘Abbozzo di G. Galeazzo 1890’.
La scoperta della firma di Giacomo Galeazzo nel dipinto de “I Martiri Turritani in gloria”,
«Il Corriere del Turritano», anno II, n. 21, 30 Novembre 2012, pp. 6-7; IDEM,
Testimonianze epigrafiche e gliptografiche cit., pp. 36-37 e, da ultimo, IDEM, Tituli picti et
tituli scariphati. Riflessioni intorno alla scoperta delle firme nei dipinti ottocenteschi della
basilica di San Gavino ed al culto dei Martiri Turritani, Sassari 2019, pp. 36-40 (con ampia
bibliografia precedente relativa all’artista piemontese) di cui questo contributo riprende,
almeno nella parte iniziale, in larga parte i contenuti, qui revisionati, implementati ed
emendati in relazione soprattutto alla figura del pittore Antonio Maria Casabianca grazie ai
dati acquisiti attraverso recenti ritrovamenti legati alla sua attività.
17
La chiesa di S. Gavino a mare, monumento incastonato nella suggestiva baia che si
apre di fronte alla splendida spiaggia di Balai, è stata edificata su una scogliera a picco sul
mare. Dal punto di vista architettonico la chiesa si presenta come un organismo ad un’unica
navata con volta a botte retta da archi doubleaux (P.G. SPANU, Martyria Sardiniae,
70
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scapichatu o San Gavino Descabeçado),18 della quale nel 2016 chi scrive ha
individuato in un trittico della chiesa di San Giovanni a Bonorva la più
antica raffigurazione sinora nota (seconda metà del Seicento – inizi del
Settecento)19 e, più recentemente, una sua probabile ulteriore
Oristano 2000, p. 123; G. PIRAS, Chiesette di Balai Vicino e Balai Lontano, in AA.VV.,
Porto Torres. Città del Parco Nazionale dell’Asinara, Porto Torres 2013, p. 25) collegato a
degli ipogei d’età romana (scavati nel costone roccioso) ad esso adiacenti dove, secondo
alcuni testi che trattano dell’inventio delle reliquie dei tre Martiri Turritani, sarebbero stati
trasportati e segretamente seppelliti i corpi di Gavino, Proto e Gianuario subito dopo la loro
decapitazione.
18
Sulla precedente intitolazione della chiesa di San Gavino a mare, in tempi recenti
denominata più semplicemente chiesa ‘di Balai vicino’, si rimanda a IDEM, Tituli picti cit.,
pp. 36-37 e 71-72, nota 84.
19
La chiesa di S. Giovanni Battista di Bonorva viene menzionata, insieme ad altre
chiese (tra queste anche il S. Antioco di Bisarcio), in un documento in logudorese
conservato presso l’Archivio Capitolare di Alghero (Archivio Capitolare di Alghero,
Noticias antiguas, I, fasc. 21, nuova fascicolazione c. 69, Papel en que se da noticia de
quando se edificò la Iglesia de Bisarcio y quien la consagró), nel quale la loro
consacrazione è assegnata all’anno 1174 (cfr. F. AMADU, La diocesi medioevale di
Bisarcio, Cagliari 1963, p. 173, doc. I e G. PIRAS, Le iscrizioni funerarie medievali della
basilica di San Gavino: contributi preliminari per una rilettura, in G. PIRAS (a cura di), Il
Regno di Torres 2. Atti di «Spazio e Suono» 1995 - 1997, Muros 2003, pp. 302-342, p. 332,
nota 75, con rilettura dell’anno citato nel documento). Quest’impianto originario,
ascrivibile ad età romanica, subì delle pesanti trasformazioni quando, verso la fine del
Seicento, si decise la costruzione di un edificio di culto di dimensioni maggiori destinato a
fungere da oratorio dell’Arciconfraternita di Santa Croce, fondata nel 1606. Cfr. F. SEGNI
PULVIRENTI, A. SARI, Architettura tardogotica e d’influsso rinascimentale, Nuoro 1994, p.
285; F.C. CASULA, DiStoSa. Dizionario Storico Sardo, Sassari 2001, s.v. San Giovanni,
chiesa, p. 1368; T. KIROVA, D. FIORINO, Le architetture religiose del Barocco in Sardegna.
Modelli colti e creatività popolare dal XVI al XVIII secolo, Cagliari 2002, pp. 54, 62, 70-71
e 82. L’Oratorio di S. Croce (intitolato per l’appunto a S. Giovanni Battista) ospita oggi al
suo interno, tra le altre opere (citiamo, ad esempio, una pregevole tela raffigurante ‘S.
Antonio Abate con san Gavino e san Carlo Borromeo’), tre dipinti pertinenti ad una pala
d’altare collocata nella cappella settentrionale della chiesa. I dipinti del trittico, olio su tela,
riproducono i tre Martiri Turritani (ai quali è dedicata la cappella); furono restaurati nel
1996 e catalogati da Wally Paris la quale li attribuì ad un anonimo pittore, d’ambito sardo,
riferibile ad un periodo compreso tra il XVII ed il XVIII secolo. L'ambientazione nella
quale sono inserite le figure dei martiri turritani propone nella parte inferiore un panorama
costiero con, sullo sfondo, un profilo montuoso prospiciente un ampio braccio di mare
solcato da imbarcazioni a vela latina. La conferma del fatto che la costa rappresentata sia
quella del Golfo dell'Asinara viene dalla raffigurazione, nello scomparto mediano del
trittico dov’è dipinta l'immagine di san Gavino, della città di Sassari seguita dalla croce che
anticamente segnava l'ingresso al nucleo di case sul Monte Agellu. Spostandosi verso la
sinistra dello stesso dipinto, il pittore ha poi voluto riprodurre, disponendoli in sequenza
secondo la loro ubicazione geografica, nell’ordine: un edificio provvisto, sulla sommità, di
un campanile a vela, identificabile forse nella casa-torre attraverso la quale si aveva accesso
all’atrio meridionale della basilica di San Gavino (edificio demolito da Dionigi Scano nel
corso dei restauri del 1903-07; cfr. A. INGEGNO, Storia del restauro dei monumenti in
71
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Giuseppe Piras
rappresentazione figurata in un inedito dipinto (Fig. 3) proveniente dalla
chiesa campestre di San Gavino (in gallurese Santu Baignu) di Scupetu,
località nei pressi di Tempio Pausania (OT).20
Sardegna dal 1892 al 1953, Oristano 1993, pp. 127-128 e 228-231, sch. 27; F. POLI, La
Basilica di San Gavino a Porto Torres. La storia e le vicende architettoniche, Sassari 1997,
pp. 72-73, fott. 9 e 10); la basilica stessa con in evidenza l'abside orientale, il tetto turrito ed
il campaniletto a vela sormontato da croce e vessillo; il centro abitato di Torres; la torre
aragonese e infine, all'estrema sinistra, il prospetto frontale della chiesetta di Balai. Proprio
l’esame di questa rappresentazione della chiesetta, pur evidentemente parecchio stilizzata a
causa delle sue ridotte dimensioni rispetto al resto dell’opera, ha rivelato che la sua facciata
dovesse apparire, all’epoca della realizzazione del dipinto, pressoché identica a quella
ancora oggi visibile. Anche i volumi posti dall’anonimo artista ai lati del monumento
sembra possano essere ricondotti ai contrafforti presenti sul fianco orientale dell’edificio di
culto ed al bancone roccioso sul quale esso si appoggia in quello opposto. Dettagli questi,
fondamentali per fugare i dubbi legati alla datazione dell’assetto del prospetto frontale della
chiesetta che, tra la seconda metà del Seicento e gli inizi del Settecento, doveva quindi
essere molto simile a quello attuale, contrariamente a quanto affermato dal canonico
Giovanni Spano (1803-1878) il quale, descrivendo l’edificio nel 1856, si era espresso nel
modo seguente: «La fabbrica è recente, e fu fatta perché, la tomba dedicata a Chiesa non
era capace per la moltitudine dei fedeli che assistevano ai divini misteri che vi si
celebravano» (G. SPANO, Nome, sito e descrizione dell’antica città di Torres, «Bullettino
Archeologico Sardo», II, n. 10 (ottobre 1856), p. 147, nota 1). Il riferimento fornito dallo
Spano ha per lungo tempo influenzato gli studi successivi, in taluni dei quali l’erezione
dell’impianto strutturale moderno della chiesetta è stata erroneamente assegnata
giustappunto alla metà dell’Ottocento (ad esempio F. MASALA, Per una classificazione
dell’architettura rupestre di età storica in Sardegna, in C.D. FONSECA (a cura di), Il
popolamento rupestre dell’area mediterranea: la tipologia delle fonti. Gli insediamenti
rupestri della Sardegna, Atti del seminario di studio (Lecce, 19-20 ottobre 1984), Galatina
1988, pp. 249-262, p. 258, nota 43). Occorre sottolineare infine che l’ulteriore
restringimento dell’arco cronologico all’interno del quale far ricadere la realizzazione del
trittico, rispetto alla datazione proposta dalla Paris, si fonda anche sulla stringente
somiglianza esistente tra l’asta reggivessillo impugnata dal san Gavino del S. Giovanni
Battista di Bonorva e la foggia (in particolare nella parte inferiore dell’asta, scanalata) delle
consimili presenti nella statua in argento del santo (denominata, nel dialetto sassarese,
‘Santu Bainzu di la prata’) donata alla Cattedrale di Sassari tra il 1670 ed il 1675 nonché
nella statua marmorea dello scultore Giacomo Antonio Ponzanelli (o Ponsonelli, 16541735), commissionatagli durante l’episcopato dell’arcivescovo Giuseppe Sicardo (17021714) ed eseguita e collocata nella cripta della basilica tra il 1706 ed il 1713 (cfr. M. PORCU
GAIAS, Sassari. Storia architettonica e urbanistica dalle origini al ‘600, Nuoro 1996, pp.
207, 260 e 320, nota 526).
20
La piccola chiesa campestre dedicata a Santu Baignu sorge in un terreno (attualmente
proprietà privata) situato a poco più di una decina di km a nord di Tempio Pausania. Nel
monumentale Dizionario geografico-storico-statistico-commerciale di Goffredo Casalis,
l’abate Vittorio Angius redattore, com’è noto, dei lemmi relativi alla Sardegna, alla voce
Gallura fece menzione due volte del Santu Baignu, riportando le date nelle quali venivano
celebrate le feste nella chiesa campestre: nell’ordine, il 4 maggio, giorno in cui per
tradizione viene ricordata la dedicazione della basilica di San Gavino e il 25 ottobre, dies
natalis di san Gavino. L’Angius riferì però l’edificio non alla località di Scupetu (come da
72
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consuetudine odierna) ma a quella di Padulu, regione ad essa finitima dove l’abate ubicò
anche la chiesa rurale di San Saturnino; V. ANGIUS, s.v. Gallura, in G. CASALIS, Dizionario
geografico-storico-statistico-commerciale degli Stati di S.M. il Re di Sardegna, Torino
1833-56, VII, 1840, pp. 41-196, pp. 180 e 187. Ciò è stato determinato quasi certamente
dalla posizione geografica del Santu Baignu, eretto proprio in prossimità del confine tra le
due località e ha indotto in errore Francesco Cesare Casula il quale, nel suo Dizionario
Storico Sardo, ha a torto duplicato la chiesa, ponendone una a Scupetu ed un’altra, con
medesima intitolazione a San Gavino ma, secondo il Casula, oramai scomparsa, nella
regione di Padulu; cfr. F.C. CASULA, DiStoSa. Dizionario Storico Sardo, Sassari 2001, s.v.
San Gavino (Santu Baignu), chiesa campestre, p. 1345 e San Gavino, chiesa campestre, p.
1348. Il Santu Baignu appare come un edificio di culto molto semplice, mononave,
modificato di recente con la realizzazione di un locale adibito a cucina addossato al fianco
settentrionale e di due contrafforti in quello opposto. Il paramento è completamente
occultato dall’intonaco mentre nella facciata, priva di monofora o finestra, spiccano il
campanile a vela provvisto di croce sulla sommità e un’epigrafe incisa nell’architrave
monolitico della porta (Fig. 4). L’iscrizione è così trascrivibile: 1618 S + O. Al centro dello
specchio epigrafico è riportato l’anno 1618, espresso in cifre arabe tra loro non equidistanti
e con l’ultima non nitidamente distinguibile a motivo della scarsa profondità ed ampiezza
del solco lasciato dallo scalpello sulla superficie lapidea. Sul lato destro dello specchio
epigrafico, compaiono una S ed una O, separate da una piccola croce greca collocata tra le
due lettere ma in alto in rapporto alla linea di testo. La tipologia scrittoria adottata per
questi caratteri è una capitale epigrafica umanistica ove spicca l’inusuale tratteggio del
ductus della S, fortemente inclinato verso destra tanto da far assumere alla lettera un
andamento corsiveggiante come si può riscontrare, ad esempio, nell’iscrizione della Santa
Maria Iscalas a Bonnanaro (SS), recante la data del 21 gennaio 1605, oppure nel titulus del
1640 (menzionante il Reverendus Franciscus Sanna) scolpito in rilievo in una lastra murata
nel cortile dell’asilo infantile di Sindia (NU). Sulle due epigrafi seicentesche di Bonnanaro
e Sindia cfr. rispettivamente G. PIRAS, Elementi di logudorese nelle epigrafi del S. Stefano
di Oschiri e della S. Maria Iscalas di Bonnanaro, BTA. Bollettino Telematico dell'Arte, 12
Luglio 2012, n. 656, URL: <https://www.bta.it/txt/a0/06/bta00656.html>, pp. 1-26 e G.
PIRAS, M.A. SANNA, La figura del Reverendus Petrus Franciscus Sanna attraverso due
inediti documenti epigrafici seicenteschi e le fonti letterarie, in L. LAI (a cura di), Sindia:
un territorio, una storia. Convegno di Studi (Sindia, 10 settembre 2016), Book of Abstracts,
Sindia 2017, pp. 17-18; G. PIRAS, Documenti epigrafici seicenteschi dal centro storico di
Sindia, in A. MASTINO (a cura di), Sindia: un territorio, una storia, Sassari 2018, pp. 259272. Colpisce infine l’assenza di allineamento con le cifre dell’anno e il modulo maggiore
rispetto a queste ultime tanto da far ritenere le due lettere e la croce presumibilmente opera
di un diverso sculptor che potrebbe aver aggiunto questa porzione di testo successivamente
all’incisione dell’anno 1618, anno che dovrebbe essere riferibile ad interventi effettuati
sull’edificio di culto così come un’altra iscrizione, grossolanamente incisa lungo il bordo
inferiore del basamento su cui poggia l’architrave, è testimonianza dei restauri eseguiti
negli anni sessanta del Novecento. Sulla chiesa si veda anche la scheda, curata da Maurizio
Serra, inserita in ASSOCIAZIONE CULTURALE NOSTRA SARDEGNA (a cura di), Guida alle
chiese campestri della provincia di Gallura, s.l. 2011, s.p. Dal Santu Baignu di Scupetu
proviene un olio su tela, oggidì custodito presso la casa parrocchiale della chiesa di San
Giuseppe a Tempio Pausania, che riproduce i SS. MM. Turritani. Il dipinto misura cm
170x122 ed è stato catalogato dall’Ufficio BB.CC. Ecclesiastici della Diocesi di TempioAmpurias con la sigla INP CAJ0017 (corre qui doveroso un cordiale ringraziamento nei
confronti del Mons. Francesco Tamponi, direttore dell’Ufficio, nonché dell’amico e collega
Tore Denau per aver segnalato allo scrivente l’opera e aver gentilmente concesso di poter
73
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consultare e pubblicare la documentazione fotografica ad essa relativa). Nella tela viene
ripreso un modello, assai ricorrente nell’iconografia tradizionale dei tre Martiri Turritani,
che propone nella parte centrale Gavinus nelle vesti di miles in sella ad un cavallo bianco,
affiancato dai suoi due socii: il presbitero Protus alla sua destra e il diacono Ianuarius alla
sua sinistra. Il dipinto appare come il prodotto di un pittore dalle modeste capacità
artistiche, asserzione facilmente arguibile tanto dall’ingenua e semplicistica resa coloristica
del panorama dietro i tre santi quanto dagli evidenti limiti nella rappresentazione
prospettica delle figure (esempi eclatanti sono costituiti dalla testa del cavallo oppure dal
piede del san Gavino infilato nella staffa) e dalla scarsa propensione verso l’impiego di
ombreggiature e mezzitoni che avrebbero fatto risaltare la fisionomia dei volti dei
personaggi, invero piuttosto sgraziati. Limiti questi che contrastano tuttavia con un certo
gusto, anche cromatico, nella raffigurazione dei dettagli decorativi dei paramenti sacri,
della corazza (nella quale spicca una piccola colomba che rimanda allo stemma gentilizio
della famiglia Sabelli, associata al santo) e dei calzari di Gavinus, dei finimenti del cavallo
e persino dei nastri colorati che rivestono l’asta reggivessillo. L’artista mostra altresì una
sorprendente conoscenza della produzione pittorica legata ai SS. MM. Turritani ed è
possibile ravvisare nella sua opera l’influenza (che in taluni casi diventa uno stringente
richiamo) esercitata da altri dipinti raffiguranti i tre santi dai quali egli ha preso chiaramente
spunto. Se si segue l’ordine cronologico di realizzazione dei dipinti, quelli a noi noti che
possono essere serviti da modello per il nostro pittore sono:
- l’olio su tela del fiammingo Frans van de Kasteele (il quale appose la sua firma col
riferimento al luogo, Roma, ed all’anno, il 1599, di esecuzione del dipinto; G. PIRAS, Tituli
picti cit., p. 54, nota 54) conservato nella basilica di San Gavino, da cui sono evidenti le
riprese nei lineamenti del volto e della figura del san Proto (in entrambe le opere con
paramenti liturgici presbiteriali e non vescovili), nella criniera del cavallo, molto folta e, nei
suoi finimenti, la particolare sagoma a S dell’asta del morso;
- la tempera su rame, conservata presso la sala del Tesoro del duomo di Cagliari, avente
identico soggetto del dipinto del van de Kasteele ed a lui recentemente attribuita (cfr. M.
PORCU GAIAS, Corpi Santi, Sassari 2018, pp. 105 e 176, sch. 60), a parere dello scrivente a
torto considerate le difformità nello stile pittorico rilevabili nelle due opere. Da questa
tempera il quadro del Santu Baignu ha ripreso la colorazione di corazza e calzari del san
Gavino, la tipologia di torre merlata (quadrata con torretta svettante dalla terrazza) che
compare nel vessillo rosso quale simbolo della municipalità turritana ma soprattutto la
postura del san Gianuario e la foggia della sua dalmatica;
- il sopraccitato trittico della chiesa di S. Giovanni Battista a Bonorva (cfr. supra, nota
19) col quale le affinità risultano molto evidenti negli elementi decorativi della lorica
musculata, dei pteruges (G. PIRAS, Tituli picti cit., p. 48, nota 40) e dei calzari del san
Gavino, nell’immanicatura dell’asta reggivessillo e nei paramenti sacri indossati dal san
Proto e dal san Gianuario.
Si ritrovano diverse analogie anche con l’olio su tela della parrocchiale di Muros,
realizzato nel 1784 dal piemontese Benedetto Orta (M. PORCU GAIAS, Corpi Santi cit., pp.
105 e 178, sch. 63), col quale i confronti si concentrano sull’identica postura del cavallo e,
come per il trittico di Bonorva, sul dettaglio dell’immanicatura dell’asta reggivessillo
nonché sui particolari cromatici e decorativi dei paramenti di Protus e Ianuarius; in un’altra
opera dell’Orta, lo stendardo processionale dipinto su tela e custodito nella sagrestia della
chiesa di San Giacomo a Sassari, datato all’ultimo quarto del XVIII sec. (ivi, pp. 105 e 178,
sch. 64), è possibile cogliere il trigramma IHS sormontato da croce e accompagnato dai tre
chiodi della passione di Cristo (sul simbolo cfr. G. PIRAS, Documenti epigrafici
seicenteschi cit., p. 268, nota 15) presente nell’ostia posta sul calice retto dal san Proto
come nel dipinto tempiese. In quest’ultimo un altro elemento di notevole interesse è, come
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Il dipinto de ‘La decollazione di san Gavino’
Con una conferenza svoltasi il 22 maggio del 2015, è stata presentata
ufficialmente una nuova scoperta effettuata su un dipinto della basilica
grazie alle indagini epigrafiche e gliptografiche svolte per il progetto
‘Rilievo Scanner Laser 3D della basilica di San Gavino’.21 Si è trattato in
questo caso della decifrazione della firma e dell’anno di esecuzione di
un’altra opera pittorica, ‘La decollazione di san Gavino’, un olio su tela
(Fig. 7) custodito nella parete della navatella settentrionale in
corrispondenza della quarta campata a partire dall’abside orientale, di fianco
ad un confessionale ligneo. Riproduce al centro san Gavino, inginocchiato
ai piedi di una rupe ed incatenato per i polsi con le mani giunte sul petto,
pochi istanti prima della sua decapitazione per opera di un boia; sul lato
destro della scena il praeses Barbarus, raffigurato seduto sulla sella curulis
già accennato, il paesaggio che si può scorgere sullo sfondo, dietro le zampe del cavallo del
san Gavino. All’apparenza potrebbe sembrare una rappresentazione di genere nella quale si
staglia un contesto urbano contraddistinto da edifici abitativi e campanili ma le strutture
inserite in primo piano paiono fornire degli indizi circa l’identificazione della città. Sono
infatti nitidamente distinguibili, da destra verso sinistra per chi guarda l’opera, in sequenza:
la facciata di una chiesa romanica a tre navate (Fig. 5), la facciata di un edificio in cui si
aprono tre monofore nel prospetto frontale (un’altra si può individuare nella porzione
visibile del fianco) ed una torre merlata di forma quadrata (Fig. 6). Architetture nelle quali
si possono verosimilmente riconoscere la basilica di San Gavino (benché il nostro pittore,
come già Giovanni Muru nella predella del Retablo maggiore della chiesa di S. Maria del
Regno ad Ardara del 1515, abbia riprodotto un portale in luogo dell’abside; sull’epigrafe
del Retablo cfr. G. PIRAS, Inscriptiones Medii Aevi ecclesiarum Sassarensium (saecula
XIII-XV), «Archivio Storico Sardo», XLIV (2005), pp. 359-422, p. 403, nota 107), la torre
aragonese e, proprio come nel trittico di Bonorva, la chiesetta di Balai vicino, monumenti
simbolo della città di Torres, centro nel quale si sono svolte le vicende dei tre martiri e dal
quale il loro culto si è irradiato. A conclusione di questa nota un approfondimento meritano
infine le didascalie con gli agionimi dei tre Martiri Turritani, inserite nel quadro tempiese
accanto alle figure dei santi. I tituli, di colore bianco, sono: S(an) Gavino, S(an) Proto
M(artire) e S(an) Geno/ario M(artire). L’olio su tela del Santu Baignu, catalogato con
datazione al XVII sec. andrebbe ricondotto, a parer di chi scrive, più ragionevolmente alla
fine del secolo seguente, sia per i rimandi ai dipinti sopraelencati (alcuni dei quali risalenti
per l’appunto a questo periodo) sia per la tipologia scrittoria adottata proprio per le
didascalie, tipica di modelli più frequentemente impiegati nel Settecento piuttosto che nel
secolo precedente, come mostra ad esempio l’inedita firma lasciata da un tal Pedro nel
1768, in un concio del paramento interno della chiesa di Balai vicino, epigrafe che ben si
attaglia alle caratteristiche delle didascalie e che con queste può essere posta in relazione
cronologica.
21
Cfr. G. BAZZONI, Svelato il mistero. Martirio dipinto da un sassarese, «La Nuova
Sardegna», 21 Maggio 2015, p. 27.
75
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(uno degli elementi iconografici che denotano l’imperium, cioè il potere del
quale egli era investito in qualità di governatore della provincia), recante sul
capo una corona e con braccio destro teso, provvisto di bastone (scipio),
nell’atto di ordinare l’esecuzione della pena capitale.22 Al di sotto della rupe
Gianuario e Proto, in atteggiamento di ossequiosa preghiera e con lo
sguardo rivolto verso Gavinus, entrambi tenuti incatenati da tre soldati.23
La prima menzione in letteratura riferibile a questo dipinto, dagli
studi fin qui condotti, è del canonico Giovanni Spano nel suo Bullettino
Archeologico Sardo dell’aprile del 1861,24 notizia in seguito inserita dallo
stesso autore nella Storia dei pittori sardi del 1870.25 In un lungo excursus
sulla pittura in Sardegna egli attribuì l’opera a Luigi Maria Galassi,
musicista bolognese stabilitosi a Sassari e attivo professionalmente almeno
dal 1788,26 che svolse anche l’attività di pittore, stuccatore e doratore.27 Del
22
Sul dipinto de ‘La decollazione di san Gavino’ si rinvia a G. PIRAS, Identità svelate:
la decifrazione della firma nel dipinto de La decollazione di san Gavino, «Il Corriere del
Turritano», anno V, n. 5, Maggio 2015, pp. 16-20 e IDEM, Tituli picti cit., pp. 24-35.
23
La scelta del pittore di non tener conto della narrazione contenuta nella Passio
sanctorum martyrum Gavini, Proti et Ianuarii e di tutte le altre fonti agiografiche (quali, ad
esempio, il Martyrologium Hieronymianum) che ricordano il dies natalis di Gavinus il 25
ottobre e quello di Protus e Ianuarius due giorni dopo, può essere giustificata
verosimilmente con la volontà di inserire tutti e tre i santi nella rappresentazione pittorica,
volontà che ha fatto sì che l’artista creasse un ‘falso’ rispetto al racconto della
documentazione agiografica. L’errata interpretazione delle fonti, con la collocazione del
martirio dei tre Martiri Turritani nello stesso giorno, non è comunque un fatto isolato e si
riscontra anche in opere scritte a carattere religioso, come nel caso della traduzione in
castigliano (con l’inserimento di storie di santi aggiunte all’edizione originaria) del noto
libro di esercizi di pietà per tutti i giorni dell’anno scritto dal gesuita P. Jean Croiset (16561738), dove viene riportato che «Executóse la sentencia el dia 25 de Octubre, en el qual,
cortadas sus sagradas cabezas, consiguieron estos tres Santos la ilustre corona del
martyrio». Si veda, tra le diverse edizioni in castigliano, quelle tradotte dal P. José
Francisco de Isla e dal P. Juan Fernández de Rojas: J. FERNANDEZ DE ROXAS (a cura di),
Adiciones al Año Christiano del Padre Croiset…Octubre, Madrid 1794, p. 140; J.F. DE
ISLA, Año Cristiano ó exercicios devotos para todos los dias del año…Octubre, Madrid
1818, p. 489.
24
G. SPANO, Pitture antiche a fresco e storia artistica sarda, «Bullettino Archeologico
Sardo», n. 4, anno VII, Aprile 1861, p. 53.
25
IDEM, Storia dei pittori sardi e catalogo descrittivo della privata pinacoteca, Cagliari
1870, p. 25.
26
A. LIGIOS, Una famiglia di musicisti: i Galassi, in M. QUAQUERO, A. LIGIOS, Musiche
e Musicisti in Sardegna, 3. Cappelle, Teatri e Istituzioni Musicali tra Sette e Ottocento,
Sassari 2005, pp. 183-186, p. 183.
27
Più in generale, sulla figura di Luigi Maria Galassi si rimanda a E. COSTA, Sassari
cit., III, pp. 1678-1679, 1691-1692, 1702-1703, 1706 e 1730; F. MARRI, La cappella
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Galassi, lo Spano affermò che «la sua opera più bella è la decollazione di S.
Gavino che conservasi nella Sacristia della Basilica di Porto Torres»,28 nota
ripresa dallo storico sassarese Enrico Costa nel suo Sassari.29
Successivamente fu la scrittrice danese Marie Gamél Holten a fornire nel
suo libro Den Ukendte Ø, pubblicato a Copenaghen nel 1913, una
descrizione del dipinto, da lei osservato nella sacrestia durante una visita
alla basilica turritana.30 Nel medesimo luogo, la sacrestia della basilica di
San Gavino, lo ritrovò la storica dell’arte Giuliana Altea la quale, il 4
ottobre del 1983 compilò per l’allora Soprintendenza BAAAS la scheda di
catalogo (n. 20/00043493) inerente al dipinto, da lei datato alla fine del
XVIII secolo ed attribuito ad un ignoto pittore sardo.31 A causa delle
condizioni di degrado in cui versava, sul finire dello stesso 1983 l’opera
(Fig. 8) venne sottoposta ad un intervento di pulitura e reintegrazione della
superficie pittorica col risarcimento inoltre di un lungo taglio verticale nella
tela nonché la ridipintura di alcune aree interessate da cadute di colore. Il
restauro ebbe però come risultato l’eliminazione di ciò che, purtroppo
erroneamente, non venne ritenuto pertinente alla fase originale del dipinto e
questo determinò una sua irreversibile trasformazione. Andarono così
perduti: i tre angeli che, scendendo dal cielo, tenevano tra le mani una
musicale turritana nella Cattedrale di Sassari nei secoli XVIII-XIX, p. II in «Note
d’archivio per la storia musicale», n.s., a. III (1985), pp. 100-101; M.G. SCANO, Pittura e
scultura cit., pp. 23, 32 e 282, nota 16; A. LIGIOS, Il Settecento. Sassari, in M. QUAQUERO,
A. LIGIOS, Musiche e Musicisti cit., pp. 177-190, pp. 189-190 e IDEM, Una famiglia cit., pp.
183-186.
28
G. SPANO, Pitture antiche cit., p. 53; IDEM, Storia dei pittori sardi cit., p. 25.
29
E. COSTA, Sassari cit., III, p. 1678: «Lo Spano nomina pure, verso lo stesso tempo, il
bolognese Luigi Galassi, che trovavasi a Sassari, padre del famoso scultore di cui altrove
parleremo, il quale era al tempo stesso musicista e pittore. Il suo miglior quadro è la
Decollazione di S. Gavino che eseguì per la Basilica di Portotorres».
30
M. GAMEL HOLTEN, Sardegna. Isola sconosciuta, Oliena 2005, pp. 122-123
(traduzione dal danese di Annette Bodenhoff Salmon): «Nella sacrestia un antico quadro
racconta la storia di San Gavino; un proconsole vestito di rosso guarda compiaciuto il boia
che afferra i lunghi capelli di Gavino mentre brandisce la spada che lo decapiterà. In un
angolo del quadro si vede Porto Torres, un insieme di torri uguali a quelle usate nel gioco
degli scacchi».
31
Seguendo il testo redatto dall’Altea il quadro, raffigurante «il martirio dei Ss. Gavino,
Proto e Gianuario» è «opera di un modesto pittore del Settecento, che traduce nel suo
linguaggio popolaresco motivi desunti dalla pittura dell’epoca». Lo stato di conservazione
era giudicato mediocre, a causa della presenza di lacune e di graffi nella tela. G. ALTEA,
Soprintendenza BAAAS Sassari, sch. di catalogo n. 20/00043493, 4 Ottobre 1983.
77
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corona di fiori e la palma del martirio per i santi; gli attributi dei Martiri
Turritani adagiati nel terreno;32 le figure di tre soldati armati di un’arma
inastata (del tutto simile ad un’alabarda) che sporgevano dalla tenda alle
spalle di Barbaro; la ciocca dei capelli di Gavino afferrata dalla mano
sinistra del boia; numerosi dettagli dell’incarnato dei volti dei personaggi e
del loro abbigliamento ed ancora, sul lato sinistro dell’opera, diversi
particolari della città di Turris Libisonis, racchiusa entro una cinta di mura
merlate e torri.33 Tra gli elementi che furono definitivamente cancellati dalla
tela figurò anche il titulus, inserito nella parte inferiore del quadro, entro una
fascia di colore grigio, che riportava il testo: “Filiæ Ierusalem venite et
videte martyres cum coronis”34 in lettere capitali, dipinte in nero, dal corpo
regolare con aste verticali ed oblique molto marcate, sottili invece i tratti
orizzontali. L’epigrafe era un versetto tratto dall’antifona35 che, nel
Breviario Romano in uso al clero della basilica Vaticana, doveva essere
intonata nel responsorium in occasione della liturgia celebrata il 30 maggio
per il dies natalis di sanctus Gabinus martyr,36 una delle due date in cui il
martire turritano Gavinus viene ricordato nel Martyrologium
Hieronymianum,37 accanto a quella del 25 ottobre riportata anche dalla
sopraccitata Passio sanctorum martyrum Gavini, Proti et Ianuarii.
32
Dalla rappresentazione di Protus si comprende che egli sia stato raffigurato in qualità
di vescovo e non di semplice presbitero come da tradizione agiografica più antica (il titolo
di vescovo gli verrà assegnato ufficialmente a partire dal XVII secolo). A testimoniare la
carica vescovile, nel dipinto ante restauro, non era solo il solenne paramento liturgico che
indossava (un piviale foderato in oro e fasciato di rosso con croce ricamata negli angoli
inferiori della fodera) ma soprattutto la mitra, il pastorale ed il Vangelo (attributi
iconografici che connotano per l’appunto i vescovi) toltigli e poggiati a terra dietro di lui.
33
Cfr. G. PIRAS, Tituli picti cit., pp. 27-30.
34
Ivi, p. 29.
35
Il verso, ispirato al Cantico dei Cantici, era parte di un’antifona per il Magnificat
recitato nel periodo pasquale durante la commemorazione di due o più martiri che ricorrono
nello stesso giorno.
36
Cfr. Breviarium Romanum cum Psalterio proprio, et Officiis Sanctorum ad usum
Cleri Basilicæ Vaticanæ Clementis X auctoritate editum. Pars hyemalis, Parisiis 1674, pp.
1052-1053; il responsorio completo era il seguente: «Filiæ Jerusalem, venite et videte
Martyres cum coronis, quibus coronavit eos Dominus: In die solemnitatis, et lætitiæ,
alleluia».
37
G. ZICHI (a cura di), Passio sanctorum cit., pp. 47-50 (con bibliografia precedente).
Sulle fonti agiografiche relative ai tre martiri turritani cfr., tra gli altri, F. POLI, La Basilica
di San Gavino a Porto Torres. La storia e le vicende architettoniche, Sassari 1997, pp. 4350; P.G. SPANU, Martyria Sardiniae cit., pp. 115-140 (il riferimento alla menzione nel
78
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Probabilmente anche in forza del nuovo aspetto assunto dall’opera
questa venne ridatata in letteratura al XVII secolo ed assegnata ad autore
anonimo.38 Le meticolose indagini diagnostiche condotte sul dipinto per il
summenzionato progetto ‘Rilievo Scanner Laser 3D della basilica di San
Gavino’ hanno tuttavia consentito di identificare, in prossimità dell’angolo
inferiore destro, un’iscrizione dipinta con colore nero impaginata su due
righe39 che può essere così trascritta:
[-c. 5-] 1849. / A[n]t(on)io Casabia<n>ca dipin[s]e.
L’iscrizione (Fig. 9), in una corsiva ottocentesca non particolarmente
calligrafica, denota alcune caratteristiche paleografiche tipiche di questa
scrittura, quali ad esempio lo sviluppo pronunciato delle aste (come nella B
di Casabianca) oppure l’adozione di riccioli alle estremità terminali dei
caratteri (nella A maiuscola di Antonio).40
Così come accaduto nel 2012 per l’olio su lamina di zinco
raffigurante ‘I tre Martiri Turritani nella gloria’ rinvenuta ha pertanto
svelato l’identità dell’autore de ‘La decollazione di san Gavino’, il pittore
Antonio Maria Casabianca, fornendo anche l’anno preciso della sua
Geronimiano è alle pp. 115-116); IDEM, Le fonti sui martiri sardi, in P.G. SPANU (a cura
di), Insulae Christi, Oristano 2002, pp. 179-181, 186-187 e 189-190; IDEM, Il
Cristianesimo, in A. MASTINO (a cura di), Storia della Sardegna antica, Cagliari 2005, pp.
455-497, pp. 472-475.
38
Tra la vasta documentazione edita, nella quale si attribuisce la paternità del dipinto ad
un pittore anonimo operante nel XVII sec. vanno segnalati G. ZICHI (a cura di), Passio
sanctorum cit., p. 33, fig. 4 e A.G. MANCONI (a cura di), Gavino, Proto e Gianuario Martiri
Turritani. Origine e sviluppo di una tradizione, Porto Torres s.d., p. 1, fig. 1.
39
La prima riga della scritta ha una lunghezza di cm 9,1 ed un’altezza massima di cm
2,8 mentre la seconda linea misura cm 15,9x1,4. La distanza tra le due righe è di circa cm 1.
40
Estremamente difficoltosa si è rivelata la decifrazione della seconda cifra dell’anno e
del cognome dell’autore dell’opera. All’imperizia del pittore vanno infatti imputate, nella
data, l’anomala esecuzione del ductus del numero 8 che ha fatto assumere alla cifra fattezze
molto più vicine a quelle di un 5, così come, nel cognome Casabianca, la mancata chiusura
degli occhielli della seconda A e della B. A ciò si è sommata nel cognome anche
l’inspiegabile assenza della N, non segnalata da alcun segno abbreviativo per contrazione
(ad esempio, l’usuale tilde soprascritta alle lettere che indica l’elisione della nasale) e
dunque riconducibile verosimilmente ad una tanto banale, quanto sorprendente,
dimenticanza dell’autore della firma. Malagevole è stata inoltre la lettura delle lettere nane I
ed O soprascritte nell’antroponimo compendiato del pittore nonché della terza cifra
dell’anno, un 4 tratteggiato col pennello in un unico tratto che risulta decisamente corto
nella sua estremità inferiore. G. PIRAS, Tituli picti cit., p. 31.
79
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realizzazione, il 1849. Allo stesso tempo è stato possibile fissare i modelli
pittorici di riferimento dai quali l’artista ha tratto ispirazione per la
composizione di questa scena. Il più vicino al nostro dipinto è un particolare
dell’opera ‘I SS. Martiri Turritani’, olio su tela del pittore fiammingo Johan
Bilevelt (o Bilivert) ascrivibile al secondo quarto del XVII secolo ed ospitato
nella seconda cappella sinistra della chiesa di S. Caterina a Sassari. Nel lato
destro dell’opera, alle spalle del san Gavino a cavallo, è riprodotta infatti
una scena della decapitazione di Gavinus (Fig. 10) che presenta la stessa
ambientazione e lo stesso schema figurativo che ritroviamo nella tela della
basilica turritana.41 Altrettanto chiara è l’influenza esercitata sul Casabianca
da un altro olio su tela (Fig. 11), cronologicamente di poco posteriore a
quello realizzato dal Bilevelt: si tratta del ‘Martirio di san Gavino’ eseguito
probabilmente nel sesto decennio del Seicento dal pittore caravaggesco
Mattia Preti e conservato a Sassari nella chiesa delle monache cappuccine,
intitolata a Gesù, Giuseppe e Maria.42 Il richiamo alla tela attribuita al Preti
è ravvisabile nella posizione delle mani del martire, giunte sul petto, con la
sinistra che tiene stretto il fazzoletto consegnato al santo, secondo la Passio,
dalla moglie di Calpurnio per coprirsi gli occhi prima della decollazione.
Ancora dal dipinto del Preti è stata ripresa la cromia della lorica musculata
indossata dal martire e la presenza di soldati armati di alabarde, in secondo
piano, dietro la figura del governatore Barbaro (tre milites con alabarde
compaiono anche nel ‘Martirio di san Gavino’ del pittore Ridolfo Turi,
datato 1621).43 Affinità si riscontrano anche con il dipinto di Gerolamo
Ruffino,44 risalente al 174645 e custodito nella parrocchiale di San
Bartolomeo ad Ossi, che propone il medesimo soggetto ma con la presenza
41
Ivi, p. 49, nota 42.
Sul dipinto attribuito a Mattia Preti si veda E. COSTA, Sassari cit., II, p. 314; IDEM,
Archivio pittorico della città di Sassari, Sassari 1976, p. 245; C. MALTESE, R. SERRA,
Episodi di una civiltà anticlassica, in AA.VV., Sardegna, Milano 1969, pp. 133-364, pp.
379-380; M.G. SCANO, Pittura e scultura del ‘600 e ‘700, Nuoro 1991, pp. 110, 138 (sch.
112) e 142; EADEM, La pittura del Seicento, in F. MANCONI (a cura di), La società sarda in
età spagnola, II, Cagliari 1993, pp. 124-153, pp. 141 e 145; M. PORCU GAIAS, Corpi Santi
cit., pp. 103 e 173, sch. 53.
43
G. PIRAS, Tituli picti cit., p. 50, nota 43.
44
M. PORCU GAIAS, Corpi Santi cit., pp. 104 e 174, sch. 55.
45
In M. DERUDAS, Ossi. Storia, arte, cultura, Cagliari 2012, ebook, Kindle, l’anno
riportato è il 1736.
42
80
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di Proto e Gianuario, effigiati dietro le sbarre della loro prigione (anche in
questo caso, come nell’opera della basilica di San Gavino, disattendendo
però quanto effettivamente narrato nella Passio dei tre Martiri Turritani).
Il pittore Antonio Maria Casabianca: nuove acquisizioni
Per ciò che concerne la vita, l’attività e la produzione artistica del
Casabianca, rispetto a quanto già riportato dallo scrivente nel più volte
citato lavoro Tituli picti et tituli scariphati. Riflessioni intorno alla scoperta
delle firme nei dipinti ottocenteschi della basilica di San Gavino ed al culto
dei Martiri Turritani edito nel 2019 del quale, come in precedenza è stato
qui sottolineato, questo contributo rappresenta un aggiornamento,46 è
fondamentale porre in rilievo la recentissima individuazione della lapide
commemorativa del pittore fatta apporre in sua memoria dal fratello Niccolò
Benedetto nell’antica chiesa della Madonna del Rosario ad Alghero, oggi
divenuta il Museo Diocesano d’Arte Sacra e ivi attualmente esposta.47
La lapide (Fig. 12), in marmo, è cementata alla parete interna nordovest del Museo Diocesano e affissa grazie all’ausilio di tre grappe
marmoree che la sorreggono. Di forma rettangolare, misura cm 127 x 64 x
3,5 e presenta nella parte superiore della lastra, scolpita in rilievo,
l’immagine della Croce sul Golgota inscritta in un cerchio. L’inedito
epitafio dedicato ad Antonio Maria Casabianca è impaginato su quattordici
righe ed inciso in lettere capitali (altezza cm 2) tipiche del XIX secolo, in
origine rubricate in nero.48 Il testo funerario commemorativo recita:
A perenne ricordo / dell’onesto cittadino algherese / Antonio Maria
Casabianca / pittore non mediocre / e cultore di varie belle arti / che
moriva in Sassari vittima del cholera / addi 25. Agosto 1855 / in età d’anni
46
Si veda supra in questo saggio, alla nota 16.
Devo l’importante segnalazione alle amiche Lina Cherchi e Francesca Ladu, della
cooperativa Mosaico (società che gestisce i servizi turistico-culturali nel Museo
Diocesano), alle quali va un affettuoso ringraziamento per la disponibilità mostratami.
48
La rubricatura all’interno dei solchi dei caratteri è purtroppo svanita nella quasi
totalità delle lettere, residuando solamente in alcuni punti e compromettendo di
conseguenza la leggibilità del titulus. Nel complesso il manufatto necessiterebbe di un
intervento di pulitura e restauro col ripristino del pigmento della rubricatura originaria.
47
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58 / lasciando nella desolazione / la diletta consorte e sette cari figli /
l’inconsolabile di lui fratello / Niccolò Benedetto / mosso da amor sincero /
q(uesta) m(emoria) p(ose).
La lapide fornisce pertanto informazioni preziose sulla vita
dell’artista certificandone la cittadinanza algherese e consegnandoci la data
esatta del suo decesso, a 58 anni, avvenuta a Sassari il 25 agosto del 1855 a
causa dell’epidemia di colera scoppiata in quell’anno nel capoluogo
turritano. Dettaglio quest’ultimo di particolare importanza, in quanto
consente di emendare il dato inserito nei Libri mortuorum per la parrocchia
di Sant’Apollinare a Sassari49 che segnalava la morte per colera, ma il 20
agosto dello stesso anno, di un Antonio Casabianca di 57 anni, figlio di
Giacomo50 e Teresa Terraneo, suffragando al contempo, aldilà di ogni
ragionevole dubbio, l’ipotesi formulata in passato da chi scrive di
identificazione del Casabianca riportato nei Libri defunctorum con il nostro
artista.51 Altri elementi biografici del pittore trasmessi dall’epigrafe funebre
sono il riferimento alla consorte, della quale però non è stato trascritto il
nome, ai suoi sette figli52 ed infine al committente della lapide,
«l’inconsolabile di lui fratello Niccolò Benedetto»,53 cittadino algherese,
49
Il documento è edito in E. TOGNOTTI, L’anno del colera. Sassari 1855. Uomini, fatti e
storie, Sassari 2000, p. 60 (schede a cura di Silvia De Franceschi).
50
In alcune carte incluse negli Atti notarili conservati nell’Archivio di Stato di Sassari,
datate agli anni 1783 e 1785, è attestato un Giacomo Casabianca, mercante di Sestri
Levante stabilitosi ad Alghero che operava in Sardegna anche come procuratore di un tal
Giacomo Podestà, anch’egli negoziante originario di Sestri Levante ma residente a Livorno.
Cfr. Archivio di Stato di Sassari, Atti notarili, copie, Alghero città, 1783, cc. 232-233;
Sassari città, 1785/I, cc.149-153; Sassari città, 1785, II, cc. 875-877 in M.V. SANNA,
Diaspore mercantili e regia Azienda nella Sardegna sabauda. Commercio e imprese dal
passaggio dell’isola ai Savoia (1720) alle riforme degli anni Venti dell’Ottocento, tesi
dottorale, Dipartimento di Studi storici, geografici e artistici dell’Università degli Studi di
Cagliari, XVIII ciclo, a.a. 2006-2007 (coordinatore prof. Bruno Anatra).
51
G. PIRAS, Tituli picti cit., pp. 34-35.
52
Nei Libri mortuorum per la parrocchia di Sant’Apollinare a Sassari, in quel tragico
anno 1855, figura alla data dell’11 agosto il decesso di un Francesco Casabianca, di 30
anni, figlio di Antonio e Caterina Diana. Questi dati porterebbero a riconoscere
verosimilmente in Caterina la moglie del pittore Antonio Maria ed in Francesco uno dei
figli, portato via due settimane prima del padre dall’infausta epidemia di colera che
imperversò a Sassari. Cfr. E. TOGNOTTI, L’anno del colera cit., p.60.
53
Nel Museo Diocesano, alla destra della lapide di Antonio Maria Casabianca è stata
murata col cemento un’altra lastra funeraria pressoché identica alla sua per dimensioni e
fregi decorativi, opera di un tal ‘Niou G.’, posta «alla pia ricordanza dell’antica consorella
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regio misuratore del Genio militare a Cagliari divenuto poi regio Misuratore
Generale, che nel 1843 partecipò al concorso per il progetto del Teatro
Civico (eretto nell’area del magazzino di Calasanz)54 e il 18 marzo 1854
ricevette l’incarico di redigere il piano regolatore topografico ed
architettonico della città di Alghero55 ma che fu anche autore di brevi opere
a stampa.56 Nella lapide Antonio Maria Casabianca viene definito «pittore
non mediocre e cultore di varie belle arti» e a riprova della sua discreta
fama lo Spano lo inserì nella summenzionata Storia dei pittori sardi
evidenziandone l’origine algherese, la precoce morte nel 1855 per colera e
l’intensa produzione pittorica «per città e villaggi»,57 con un richiamo
specifico alle sue opere presenti proprio nella chiesa del Rosario ad Alghero
tra le quali il canonico ploaghese ricordò due «tele di vasta dimensione»
riproducenti ‘S. Nicolò di Bari, e la Vergine colle anime Purganti’.58 Grazie
alle ricerche condotte da Antonio Serra, sappiamo che il ‘San Nicola di
Bari’ venne donato il 21 marzo 1830 dal negoziante Lorenzo Olivieri alla
confraternita del Rosario la quale nell’omonima chiesa algherese dedicò una
di quest’Oratorio» Giusepp’Anna Perella, consorte di Niccolò Benedetto Casabianca, morta
ad Alghero il 12 maggio 1867 all’età di 76 anni.
54
Sulle vicende legate al progetto per la costruzione del Teatro Civico ed alla
partecipazione al bando di gara da parte di Niccolò Benedetto Casabianca si rinvia a A.
SARI, I teatri stabili ad Alghero nell’Ottocento, «Insula», 4 (dicembre 2008), pp. 37-62, in
particolare pp. 47-49 e 56-57 (riguardo ad una lettera di lamentele inviata il 9 aprile 1858
dal Casabianca al sindaco di Alghero e al Consiglio Edilizio cittadino).
55
ID., Alghero nel XIX secolo. I piani d’ingrandimento, «Revista de l’Alguer. Anuari
acadèmic de cultura catalana», IX, 9 (1998), pp. 69-87, nello specifico pp. 78-79; alla p. 80
viene documentata l’esecuzione ad opera del Casabianca, confratello ed ex priore della
confraternita del Rosario, di due progetti di adeguamento al nuovo gusto classicistico della
facciata dell’Oratorio adiacente alla cattedrale.
56
Nel 1846 Niccolò Benedetto Casabianca diede alle stampe a Cagliari un Catechismo
popolare sulla costituzione corredato d’un sunto de’diritti e de’doveri dell’uomo e del
cittadino costituzionale seguìto tre anni dopo dal volumetto, composto di undici pagine e
nel quale si firmò ponendo anche il cognome materno Terraneo, intitolato Cenni storicogenealogici intorno all'origine dei principi di Savoia-Carignano, e degli altri rami
discendenti dalla stirpe della real casa Savoia, corredati di alcune interessanti notizie
relative alla stessa real casa.
57
G. SPANO, Storia dei pittori sardi cit., p. 26. Le notizie fornite dallo Spano sono
riprese in A. PILLITTU, s.v. Casabianca, Antonio Maria, in Allgemeines Künstler-Lexicon,
XVII, München-Leipzig 1997, p. 43.
58
G. SPANO, Storia dei pittori sardi cit., p. 26.
83
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Giuseppe Piras
cappella al santo59 ed inoltre che il dipinto era custodito fino a qualche anno
fa nei locali dell’Episcopio; la ‘Vergine con le anime del Purgatorio’ è
purtroppo da ritenersi invece oramai dispersa.60 Presso l’Archivio Storico
Diocesano della città catalana è conservato un altro dipinto del Casabianca:
un olio su tela61 che propone il ritratto del vescovo di Alghero Pietro
Raffaele Arduino (1843-1863), fatto realizzare per celebrare la
consacrazione della chiesa rurale di N.S. di Valverde avvenuta il 2 dicembre
1842 ad opera proprio dell’Arduino, appartenente all’Ordine dei Frati
Minori Conventuali.62 L’olio su tela (Fig. 13), in origine collocato nella
sacrestia del Santuario di Valverde, è privo di data ma è stato motivatamente
ricondotto dal Serra ad un anno successivo al 1846 giacché il vescovo
algherese in quell’anno divenne commendatore dell’ordine cavalleresco di
Casa Savoia e nel ritratto egli, insieme alla croce pettorale vescovile,
indossa per l’appunto «un collare di seta marezzata verde da cui pende la
croce dell’ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro»,63 prova dell’avvenuto
conferimento dell’onorificenza dell’ordine mauriziano. La firma del
Casabianca (Fig. 14), apposta dal pittore di fianco alla figura dell’Arduino,
nell’angolo sinistro, è così decifrabile:
Anto(nio) Casabianca dip(inse) –
Più in basso, all’interno di una fascia e con lettere della stessa
tipologia scrittoria adottata ne ‘La decollazione di san Gavino’ della basilica
turritana (una sorta di ‘marchio di fabbrica’ che pare ricorrere spesso nei
quadri del Casabianca) è posto questo titulus celebrativo:
59
A. SERRA, Contributo alla storia dell’associazionismo confraternale in Alghero. La
confraternita del Rosario nei secoli XVI-XVII, «Biblioteca Francescana Sarda», VI (1995),
pp. 31-116, p. 79, nota 251.
60
IDEM, Ritratto di Pietro Raffaele Arduino, Vescovo di Alghero (1843-1863), in Breve
compendi de la Doctrina Cristiana (rist. anast.), Alghero 2017, pp. XVIII-XIX, p. XIX.
61
Le dimensioni del dipinto, appeso nella sala di lettura più interna dell’Archivio
Storico Diocesano, sono cm 98x75. È qui doveroso un cordiale ringraziamento a don Paolo
Secchi, direttore dell’Ufficio BB.CC. Ecclesiastici della Diocesi di Alghero-Bosa, nonché
all’archivista Alessandra Derriu per la loro liberalità nell’aver permesso a chi scrive
l’analisi de visu dell’opera.
62
Ibid.
63
Ivi, p. XVIII.
84
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Giuseppe Piras
Ill(ustrissi)mus et reve(rendu)s d(ominu)s d(o)n f(rate)r Petrus.
Raphael. Arduino. a(ssisten)s / o(rdini)s Min(oru)m Conv(entualiu)m
s(anc)ti Francisci. episcopus. Algarensis / qui. ecclesiam. hanc.
consacr(avi)t die. II. dec(embri)s an(n)o 1842.
L’epigrafe, dalla canonica funzione didascalica, oltre a
commemorare la consacrazione della chiesa di N.S. di Valverde nel 1842
testimonia perciò anche dell’incarico di Assistente dell’Ordine dei Frati
Minori Conventuali ricoperto dal vescovo.
Continuando nell’elenco dei dipinti del Casabianca presenti ad
Alghero, è opinione di chi scrive quella che potrebbero essere ascritti alla
mano del nostro pittore alcuni dei ventisei ritratti di vescovi algheresi, privi
di firma nella parte anteriore della tela, custoditi presso la sacrestia della
cattedrale dell’Immacolata Concezione; si tratta nello specifico di quelli
raffiguranti Andrés Bacallar (1578-1604),64 Gavino Manca de Cedrelles
(1612-1613),65 Carlo Francesco Casanova (1741-1751)66 e forse anche, più
dubbiosamente, quelli di Matteo Bertolinis (1733-1741)67 e di Giuseppe
Maria Incisa Beccaria (1764-1772).68 In tutti questi dipinti (Fig. 15)
sembrerebbe poter ravvisare difatti il medesimo stile ingenuo, riscontrabile
64
Il dipinto che ritrae il vescovo Bacallar è nella parete occidentale della sagrestia, in
cui sono collocati dodici dei ventisei ritratti vescovili. A partire dalla porta d’ingresso
risulta essere l’ottavo della serie e reca nella parte inferiore la seguente didascalia: Andreas
Baccalar decanus e‹cclesiae› Calarit(anae) ele‹c›t(us) / ep(iscopu)s Algar(ensis) a(nno)
1578. trans(latus) ad sede(m) Turr(itanam) a(nno) 1604.
65
Posto immediatamente dopo il dipinto raffigurante il vescovo Bacallar, il ritratto di
Gavino Manca de Cedrelles è quello che più di tutti mostra i caratteri stilistici tipici della
produzione artistica di Antonio Maria Casabianca. Questo è il titulus che compare sotto la
figura del vescovo: Gavinus Manca Cedrelles ep(iscopu)s Bosan(ensis) trans(latus) / ad
ecc(lesiam) Algar(ensem) a(nno) 1612. inde ad Turrit(anam) an(no) 1613.
66
La didascalia del ritratto (il quarto della parete orientale della sagrestia a partire
dall’angolo NE) è così trascrivibile: Carolus Casanova Ventimilien(sis) el‹e›ct(us)
ep(iscopu)s / Algaren(sis) a(nno) 1741. tran(slatus) ad sed(em) Tur‹r›it(anam) an(no)
1751.
67
L’iscrizione del dipinto del vescovo Bertolinis (posto subito prima del ritratto del
Casanova) può essere decifrato in questo modo: Mathæus de Bertollinis Pedemont(anus)
el(ectus) ep(iscopu)s / Algar(ensis) a(nno) 1733. trans(latus) ad eccl(esiam) Turrit(anam)
an(no) 1741.
68
Ecco il testo epigrafico che compare nel ritratto del vescovo Giuseppe Maria Incisa
Beccaria (il sesto della parete orientale dall’angolo NE): Ioseph Maria Incisa e‹cclesiae›
Pedemon(tanae) elect(us) ep(iscopu)s / Algar(ensis) a(nno) 1764. trans(latus) ad sed(em)
Turrit(anam) a(nno) 1772.
85
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anche nelle altre opere pittoriche del Casabianca, nel riprodurre i volti dei
personaggi, caratterizzati da un marcato corrugamento della fronte, evidenti
rughe nasogeniene messe ancor più in risalto dall’ovale del viso e dagli
zigomi ben delimitati attraverso l’ombreggiatura, il particolare disegno delle
sopracciglia (frequentemente sottili e ad ‘ali di gabbiano’), la forma
allungata degli occhi così come quella del naso, dai contorni ben delineati,
oppure delle dita, molto affusolate (talvolta in maniera eccessiva tanto da
risultare non proporzionate rispetto al resto del corpo) od ancora della
bocca, in cui l’arco di Cupido e il filtro soprastante sono piuttosto definiti.
Infine, nelle iscrizioni commemorative (non esenti da mende nell’uso del
latino e nelle abbreviature) inserite sotto le figure a descrizione dei vescovi,
i caratteri impiegati appartengono allo stesso modello scrittorio che si
ritrova usualmente nei dipinti del Casabianca.
La più antica fonte documentaria finora nota riguardante Antonio
Maria Casabianca riporterebbe sempre alla sua città di residenza e
risalirebbe al 1834, anno nel quale egli, a riprova della sua poliedricità
nell’arte pittorica (qualità confermata dalla lapide commemorativa del
Museo Diocesano), dipinse le scene per la cantata scenica Il Tempio della
Gloria, spettacolo andato in scena nel Teatro degli Amatori di Alghero il 4
novembre di quell’anno.69 Un’annotazione di Enrico Costa, contenuta nel
suo Sassari, ci informa invece che nell’aprile del 1835 il Capitolo turritano
deliberò di consegnare molti quadri conservati nel Duomo, fra i migliori, al
pittore Antonio Casabianca, affinché li pulisse «riducendoli in ottimo stato
di decenza (!) per il prezzo di lire due cadauno».70 Proprio nel Duomo di
Sassari era fino a poco tempo fa custodito un olio su tavola71 che raffigura
santa Benedetta distesa sul fianco (Fig. 16), col capo poggiato su tre cuscini
e nella mano sinistra la palma del martirio.72 Maria Grazia Scano il 15
69
A. LIGIOS, L’Ottocento. Alghero, in M. QUAQUERO, A. LIGIOS, Musiche e Musicisti
cit., pp. 567-609, pp. 578 e 593, nota 41.
70
E. COSTA, Sassari cit., II, p. 1175.
71
La tavola è attualmente conservata presso la quadrerìa del Museo diocesano di
Sassari. Le sue misure sono cm 43,5x106,2.
72
Dovrebbe essere questa l’opera alla quale la storica dell’arte Maria Grazia Scano fece
riferimento nel suo volume Pittura e scultura dell’Ottocento, pubblicato nel 1997,
attribuendola erroneamente però ad un tal Giuseppe Casabianca (non altrimenti noto) e
86
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Giuseppe Piras
novembre del 1977 schedò l’opera per la Soprintendenza BAAAS
individuando la firma del Casabianca con l’anno di esecuzione, il 1838,73
titulus recentemente esaminato e ampliato nella sua lettura così come segue
(Fig. 17):
Antonio Casabianca p(inse vel ittore?) 183874
Il Casabianca è autore anche dell’olio su tela riproducente i SS.
Cosma e Damiano (Fig. 18), in origine collocato nella sagrestia del
convento di San Francesco di Ittiri e in tempi recenti trasferito a Cagliari nei
locali di proprietà dell’Ordine dei Frati Minori. Il dipinto,75 recante la firma
del pittore, fu oggetto di schedatura da parte di Ave Orrù il 16 novembre
198276 ma, così come per l’olio su tavola del Duomo di Sassari, la
decifrazione dell’epigrafe dev’essere migliorata ed ampliata rispetto alla
trascrizione riportata nella scheda di catalogo. Questo è quanto
effettivamente compare nel quadro di Ittiri (Fig. 19):
Ant(oni)o Casabianca p(inse vel ittore?) / in Sassari 1837.77
Le attestazioni relative alla produzione pittorica del Casabianca sono
state poi arricchite dal rinvenimento, presso le soffitte della casa
parrocchiale della chiesa di Sant’Apollinare a Sassari, di un ulteriore olio su
tela78 (Fig. 20) raffigurante in questo caso un sant’Alfonso Rodriguez
(1531-1617).79 L’identità del santo gesuita viene rivelata dal titulus posto
ravvisando nel soggetto rappresentato, genericamente una ‘Santa martire’. M.G. SCANO,
Pittura e scultura cit., p. 110.
73
M.G. SCANO, Soprintendenza BAAAS Sassari, sch. di catalogo n. 20/00025639, 15
Novembre 1977.
74
G. PIRAS, Tituli picti cit., p. 33.
75
Le dimensioni sono cm 130x100.
76
A. ORRÙ, Soprintendenza BAAAS Sassari, sch. di catalogo n. 20/00043043, 16
Novembre 1982. Questa è la decifrazione della firma fornita dalla Orrù: ANT.
CASABIANCA IN SASSARI 1837.
77
G. PIRAS, Tituli picti cit., p. 34.
78
Ivi., p. 35. Le misure del dipinto sono cm 81,3x65,7.
79
Alfonso Rodriguez nacque a Segovia il 24 luglio 1531 (l’anno esatto della sua nascita
rimane tuttavia ancora controverso: da taluni, tra i quali i Bollandisti, è ritenuto essere il
1531 mentre altri studiosi oscillano tra il 1532 ed il 1533) e morì a Maiorca il 31 ottobre del
1617. A 39 anni, dopo la morte della moglie e dei suoi tre figli, entrò nella Compagnia di
Gesù. Accettato come fratello coadiutore, per quarantasei anni fu portinaio presso il
87
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Giuseppe Piras
nella parte inferiore del dipinto, epigrafe che recita per l’appunto: “B(eatus)
Alphonsus Rodriguez Soc(ietatis) Iesu” e fornisce altresì un’indicazione in
merito alla sua realizzazione in quanto Alfonso Rodriguez, dichiarato
venerabile il 20 dicembre 1625, venne beatificato solo nel 1825 per essere
poi canonizzato da Leone XIII il 1 gennaio del 1888. L’anno esatto della
realizzazione e la firma dell’autore dell’opera (in questo caso col suo nome
completo Antonio Maria) sono stati apposti, con un sottile tratto di
carboncino, nel retro della tela80 dove, su un’unica riga, è chiaramente
leggibile la seguente scritta (Fig. 21):81
Antonio M(ari)a Casabianca dip(ins)e 1851.82
Il dipinto raffigurante il Padre Giuseppe Monserrato
Una recente segnalazione83 ha permesso allo scrivente di effettuare un
sopralluogo presso la chiesa di Santa Maria delle Grazie a Castelsardo84 e di
collegio di N.S. del Monte Sion a Maiorca. Condusse una vita austera, dedita alla preghiera
ed esercitò una grande influenza spirituale sui suoi confratelli, come ad esempio san Pietro
Claver il quale dovette a lui la sua vocazione missionaria. Ebbe rivelazioni e visioni
mistiche che narrò in ventuno scritti dal titolo Obras espirituales. Sulla sua biografia e le
sue opere cfr., tra gli altri, G. ACCOLITO, Vita del venerabile f. Alfonso Rodriguez
Coadiutore Temporale della Compagnia di Giesù volgarizzata da Giovanni Accolito,
Bologna 1631; W. YEOMANS (trad. a cura di), St. Alphonsus Rodriguez: autobiography,
London 1964.
80
La firma è stata eseguita a cm 10,5 dal bordo inferiore del dipinto.
81
Lunghezza della scritta cm 30,7.
82
G. PIRAS, Tituli picti cit., p. 34.
83
Un sentito ringraziamento va all’amica Betta Demurtas, studiosa attenta, autrice della
segnalazione.
84
La chiesa di Santa Maria delle Grazie è stata fino ad oggi oggetto di pochissimi studi
anche se, come sottolineato dalla Paris, la sua struttura mostra chiaramente come l’attuale
corpo di fabbrica non corrisponda a quello originario. Tralasciando in questa sede
considerazioni di carattere architettonico, non pertinenti all’argomento affrontato, è invece
opportuno rilevare l’esistenza di un documento che fornisce un sicuro e prezioso
riferimento per la datazione della chiesa di Santa Maria delle Grazie, attestando insieme
l’indissolubile legame che questa ha avuto con l’annesso convento. Si tratta dell’iscrizione
della vecchia campana in bronzo del campaniletto a vela in cui viene testimoniato l’anno di
realizzazione, il 1401, e quello del suo restauro, il 1619, ma soprattutto l’edificio di
appartenenza, ovvero il conventus Sanctae Mariae Gratiarum civitatis Castri Aragonensis
(la lettura dell’epigrafe è in W. PARIS, Cenni sulla storia del convento e della chiesa di S.
Maria delle Grazie, in AA.VV., Santa Maria delle Grazie di Castelsardo, Sassari 1995, pp.
5-7, p. 6). Il titulus indica quindi la presenza, alla data del 1401, sia della chiesa di Santa
88
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Giuseppe Piras
accertare la presenza, al suo interno, di un’opera che in via ipotetica
potrebbe essere riconducibile alla produzione pittorica di Antonio Maria
Casabianca.
L’opera è un olio su tela (Fig. 22), attualmente posto nella parete
settentrionale dell’edificio in prossimità dell’area presbiteriale,85 di fianco al
portale che mette in comunicazione la chiesa, per mezzo di una scalinata,
con la sacrestia e con un ambiente pertinente all’ex convento intitolato a San
Francesco.86 Il dipinto,87 dotato di cornice e protetto da un vetro, fu oggetto
Maria delle Grazie sia del convento ad essa collegato. Sulle vicende costruttive della chiesa
cfr. EADEM, La chiesa, in AA.VV., Santa Maria cit., pp. 7-10; M. NIEDDU, La chiesa di
Santa Maria delle Grazie a Castelsardo. Storia e arte, tesi di laurea, Facoltà di Lettere e
Filosofia dell’Università degli Studi di Sassari, a.a. 2007-2008 (relatore prof. Aldo Sari).
85
Prima dei restauri della Santa Maria delle Grazie eseguiti dalla Soprintendenza
BAAAS delle province di Sassari e Nuoro nel periodo 1987-1994 (il risanamento
dell’interno con il rifacimento degli intonaci è stato effettuato tra il 1992 e il 1994) il
quadro risultava collocato nella parete meridionale della chiesa, «appeso alla destra del
pulpito». Cfr. W. PARIS, Soprintendenza BAAAS Sassari, sch. di catalogo n. 20/00042955,
7 Settembre 1981 (con ubicazione indicata nella «parete destra»); M. NIEDDU, La chiesa di
Santa Maria cit., p. 158. Sui restauri si rimanda a M. DANDER, I restauri della chiesa, in
AA.VV., Santa Maria cit., pp. 16-22 e M. NIEDDU, La chiesa di Santa Maria cit., pp. 128134.
86
Anche sull’origine del convento, così come per la Santa Maria delle Grazie, la
carenza di fonti documentarie ha fatto sì che le notizie al riguardo rimontino ad epoche di
molto successive alla sua fondazione e che gli studiosi abbiano espresso nel corso dei secoli
opinioni tra loro profondamente discordanti circa la sua datazione. Francisco Ángel Vico,
nella sua Historia general de la Isla y Reyno de Sardeña, ammise la mancanza di
documentazione in merito e, affidandosi unicamente ad informazioni tramandate dagli
anziani («mayores»), affermò che il «Monasterio de los frailes Fra(n)ciscos Claustrales de
Castillo Aragonés» fosse «mui antiguo Monasterio, desde quando tenían el dominio deste
Castillo los de la Casa de Oria». La sua edificazione venne fatta risalire dominazione dei
Doria anche dal Sisco (il quale inoltre attribuì alla loro iniziativa l’arrivo a Castelsardo di
dodici religiosi) e dal Martini mentre Giuseppe Manno, in un lungo elenco di «monasteri
esistenti in Sardegna prima del secolo XIII» tratto da quanto era stato pubblicato nelle
opere di Fara, Vico e Aleo, menzionò un monastero benedettino «in Castelsardo col titolo
di priorato di s. Martino». Vittorio Angius sostenne che l’istituzione del convento dei
francescani con la chiesa di S. Maria delle Grazie fosse avvenuta mentre san Francesco era
«forse ancor vivente»; il canonico Spano, riprendendo il Manno, rilevò l’erezione ad opera
dei Doria del convento benedettino di San Martino che fu «poi verso la fine del secolo XIII
concesso ai Francescani, ossia Minori Conventuali». Padre Costantino Devilla, minore
conventuale, notò come del convento non venga fatta menzione né nelle serie dell’Ordine
redatte nei periodi 1330-1334 e 1385-1390 né in quelle successive. Dionigi Scano, infine,
ascrisse la sua fondazione alla bolla di papa Gregorio XI, vergata ad Avignone il 28 aprile
1376, con la quale il pontefice accolse le richieste del giudice d’Arborea Ugone III, fratello
di Eleonora, concedendo al Ministro Generale dell’Ordine, Leonardo Rossi da Giffoni
(1373-1378), la possibilità di costituire («facere fundari et edificari»), «in insula Sardiniae
duo loca», nei quali gli studiosi hanno voluto riconoscere i conventi francescani di
89
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Giuseppe Piras
nella seconda metà del Novecento di alcuni estemporanei interventi
conservativi che portarono alla sistemazione, nel retro del quadro, di un
pannello laminato,88 elemento che venne ancorato, tramite chiodi di piccole
dimensioni, ad una tela di lino messa a rinforzo di quella del dipinto. Le due
tele, inizialmente fissate tra loro mediante chiodatura, in tempi più recenti
(forse all’atto dell’applicazione del pannello laminato) vennero spillate
lungo i bordi con punti metallici, oggi completamente ossidati. Questi
interventi hanno certamente sottoposto la tela a sollecitazioni meccaniche
causando una perdita di tensione e conseguente deformazione della
superficie del dipinto con la compromissione della pellicola pittorica che in
molti punti risulta crettata e sollevata mentre in altri è andata
irrimediabilmente perduta, come mostrano le lacune presenti in particolar
modo nella parte inferiore dell’opera.
Castelsardo e Uta. Nello stesso documento del Regesto Pontificio si specifica che i «duo
loca» dovevano essere fondati e costruiti in luoghi adatti ai religiosi dell’Ordine «virumque
videlicet eorum cum ecclesia, campanili, etc. et aliis necessariis officinis, dummodo in
utroque dictorum locorum duodecim Fratres dicti Ordinis congrue valeant sustentari…»;
una trascrizione del documento è, tra gli altri, in L. VVADDINGUS, Annales Minorum. In
quibus res omnes trium ordinum a sancto Francisco…, IV, Lugduni 1637, doc. XCIV (28
aprile 1376), p. 151. Per i riferimenti in letteratura al convento di Castelsardo cfr. F. DE
VICO, Historia general de la Isla y Reyno de Sardeña, Barcelona 1639, II, parte VI, cap. 38,
p. 81r; A. SISCO, Memorie, II, ms. redatto tra il 1716 e il 1801, Archivio del convento di
Santa Maria di Betlem, Sassari, f. 202; G. MANNO, Storia di Sardegna, I, lib. VIII, Milano
1835, p. 400, nota 2; V. ANGIUS, s.v. Castel-Sardo, in G. CASALIS, Dizionario cit., IV,
Torino 1837, pp. 224-241, p. 233; P. MARTINI, Storia ecclesiastica di Sardegna, III,
Cagliari 1841, p. 451; G. SPANO, Testo ed illustrazioni di un codice cartaceo del secolo XV
contenente le leggi doganali e marittime del porto di Castel Genovese…, Cagliari 1859, p.
25; C.M. DEVILLA, I Frati Minori Conventuali in Sardegna, Sassari 1958, pp. 236, 450 ss.,
557 e 580 ss.; W. PARIS, Cenni sulla storia cit., p. 5; U. ZUCCA, Castelsardo e i frati minori
conventuali nei Quinque Libri del 1581-1607, «Biblioteca Francescana Sarda», VII (1997);
P.O. FATTACCIO, Momenti di storia francescana a Castelsardo: il convento di Santa Maria
delle Grazie nell’età moderna, in A. MATTONE, A. SODDU (a cura di), Castelsardo.
Novecento anni di storia, Roma 2007, pp. 739-749, pp. 741-742; M. NIEDDU, La chiesa di
Santa Maria cit., pp. 43-44.
87
Le dimensioni dell’opera sono cm 113x83.
88
Il periodo presumibile in cui vennero condotti questi interventi si può desumere dalla
data di consegna, il 9 settembre 1961, del lotto al quale apparteneva il pannello laminato, da
parte della ditta I.G.A.V. di Abbiategrasso alla società Sarda Legnami di Sassari, data
segnalata nel documento di trasporto incollato nell’oggetto e che costituisce perciò, in
assenza di altre fonti al riguardo, un preciso terminus post quem per la collocazione
temporale dei lavori.
90
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Il dipinto raffigura il Padre Giuseppe Monserrato, frate francescano
che fu Custode turritano tra il 1709 e il 171089 e successivamente guardiano
e commissario del Terz’Ordine nel convento di Castellaragonese (divenuto
poi Castelsardo) dove passò gran parte della sua esistenza e morì il 3 agosto
1716.90 Sebbene le notizie sul Monserrato siano nel complesso piuttosto
scarne, brevi cenni legati alla sua vita sono pervenuti a noi grazie ad alcuni
storici, quali ad esempio l’Angius, il quale sottolineò la presenza nel
convento castellanese delle ossa «del venerabile frate Giuseppe Monserrato
nativo di questa città, per cui mediazione credono i castelnovesi ricevuti da
Dio molti benefizi».91 Pasquale Tola gli dedicò uno degli addenda al terzo
volume del suo Dizionario biografico degli uomini illustri di Sardegna in
cui ribadì che il frate, «sacerdote professo dell’ordine dei minori
conventuali»,92 aveva origini castellanesi indicando altresì la sua
appartenenza «alla casata de’ Pompeiano»;93 il Tola tenne soprattutto a
porne in risalto le eccelse doti spirituali, la rettitudine morale e la fama
sanctitatis che circondava la sua figura, rafforzata anche dai racconti,
diffusisi tra la gente, di «molti fatti prodigiosi da lui operati, e doni e
inspirazioni superiori delle quali fu privilegiato dal cielo, per lo che è
comunemente onorato col titolo di venerabile».94 La tradizione riferisce di
prodigi compiuti dal frate, capace di scrutare i cuori e predire il futuro95
mentre il Devilla, riprendendo un documento del tempo, così descrisse ciò
che avvenne alla sua morte:
Avendolo esposto i fratini in chiesa, al solito, vi corre tutto il popolo et
ognuno prendeva qualche particella della tonica […] e di più gli levarono
tutti i capelli; poi il popolo fece istanza che si lasciasse per tre giorni in
89
C.M. DEVILLA, I Frati Minori cit., p. 457.
U. ZUCCA (a cura di), San Francesco e i francescani in Sardegna, Oristano 2001, pp.
54 e 55.
91
V. ANGIUS, s.v. Castel-Sardo cit., p. 233.
92
P. TOLA, Dizionario biografico degli uomini illustri di Sardegna, III, Torino 1838,
pp. 337-338, p. 337.
93
Ibid.
94
Ibid.
95
U. ZUCCA (a cura di), San Francesco cit., p. 55; M. NIEDDU, La chiesa di Santa
Maria cit., p. 56.
90
91
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Giuseppe Piras
mezzo alla chiesa […] e tutto il tempo restarono le carni come da vivo; e per
esperienza dopo tre giorni gli furono cavate 5 onze di sangue.96
La devozione popolare e l’affetto nei confronti del frate, elevato a
‘venerabile’ dell’Ordine,97 furono tali che le persone gli assegnarono
l’appellativo di Biaddu Ghjuseppu98 (ovvero ‘Beato Giuseppe’),
denominazione con la quale è ancor oggi comunemente conosciuto, benché
l’apertura di un’istruttoria per introdurre la Causa di Beatificazione presso la
Congregazione delle Cause dei Santi risulti alquanto problematica
considerata l’evidente difficoltà nella raccolta della documentazione che lo
riguarda, documentazione purtroppo ormai perlopiù persa.99 La sua tomba è
stata fino al recente passato meta di pellegrinaggi da parte di fedeli che vi si
recavano da Castelsardo e dalle zone limitrofe per impetrare una grazia dal
frate,100 usando accendere lumi101 in segno di venerazione102 o arrivando
financo ad asportare con le mani frammenti d’intonaco della parete muraria
e a prelevare manciate della terra che ricoprivano il punto in cui si riteneva
fosse stato seppellito in quanto materiali considerati, dalla credenza
popolare, alla stregua di vere e proprie reliquie ed ai quali venivano
riconosciute proprietà guaritrici, in particolare dalle infezioni del cavo
orale.103 Sull’esatta collocazione del tumulo, oggidì non facilmente
individuabile a motivo dell’assenza di una lapide o signacolo all’interno
della Santa Maria delle Grazie che permetta di localizzarlo, riferisce il Tola
il quale riportò che la sepoltura del Padre Giuseppe Monserrato fosse in una
96
C.M. DEVILLA, I Frati Minori cit., p. 598; P.O. FATTACCIO, Momenti di storia
francescana cit., p. 748.
97
U. ZUCCA (a cura di), San Francesco cit., p. 55.
98
P.O. FATTACCIO, Momenti di storia francescana cit., p. 748.
99
U. ZUCCA (a cura di), San Francesco cit., p. 54.
100
A.F. MATTEI, Sardinia sacra seu de episcopis sardis historia, Romae 1761, p. 182.
101
U. ZUCCA (a cura di), San Francesco cit., p. 55.
102
M. SECHI NUVOLE, Ricerche geografiche su una colonia genovese in Sardegna:
Castelsardo, in A. SAIU DEIDDA (a cura di), Genova in Sardegna. Studi sui genovesi in
Sardegna tra Medioevo ed Età contemporanea, Cagliari 2000, pp. 113-160, pp. 141-142.
103
Devo questa informazione alla cortesia dei sigg. Massimiliano Fiori e Giuseppe
Brozzu, rispettivamente Priore e membro della Confraternita Oratorio di Santa Croce in
Castelsardo, divenuta proprietaria della chiesa di Santa Maria delle Grazie in seguito ad un
atto di acquisto stipulato col Municipio il 22 febbraio 1914 e che ancora oggi si occupa
della custodia del monumento. Cfr. W. PARIS, Cenni sulla storia cit., p. 7.
92
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Giuseppe Piras
cappella della chiesa104 dove si apriva una porta laterale sopra cui era
possibile leggere la seguente iscrizione:
Hic requiescit Pater Joseph Monserratus sacerdos professus ordinis
Minorum Conventualium huius civitatis Castri-Aragonensis et conventus
filius, mira innocentia morum, supernisque charismatibus completatus, qui
cum per plures annos coenobii tertii ordinis ejusdem urbis visitator, ac
religiosae perfectionis magister extitisset, ut praedixerat, die tertia videlicet
augusti 1716, vitae cursum in hoc suo conventu et patria sanctissime
absolvit, cuius merita quantae sint apud Deum gratiae, quas cives illum
invocantes, non semel reportarunt, clare demonstrant.105
Di un’iscrizione recante il testo citato dal Tola tuttavia non è rimasta
più alcuna traccia né nel presumibile luogo nel quale doveva essere allogata
la tomba del frate né altrove all’interno della chiesa, dove invece sono
presenti altri documenti epigrafici.
In corrispondenza dell’altare maggiore, nella pavimentazione, è
inserita una lapide106 profondamente degradata a causa del secolare
calpestio che ha consunto la superficie in marmo e reso quasi illeggibili i
caratteri incisi nello specchio epigrafico; l’approfondita analisi autoptica e i
successivi rilievi fotografici e grafici hanno comunque permesso a chi scrive
di decriptare il contenuto del titulus, assegnabile verosimilmente al Seicento
sulla base della tipologia scrittoria adottata (un’elegante capitale epigrafica
umanistica del periodo, con lettere filiformi dal modulo regolare) e così
interpretabile:
Hic iacet corpus / Ioạ[nn]is Ahuia / Ruis civis civitatis / Castri /
Arago[ne]ṇsis / [---]X[---].
104
P. TOLA, Dizionario biografico cit., p. 338. Seguendo la tradizione orale perpetuata
dai castellanesi e le indicazioni fornite dal Tola, dovrebbe trattarsi della Cappella
dell’Immacolata e la parete sarebbe quella dove attualmente è posizionato l’altare dedicato
a san Francesco. Di parere diverso è Maria Nieddu la quale individua il luogo di
seppellimento, senza però motivare l’assunto, «accanto all’Altare Maggiore»; M. NIEDDU,
La chiesa di Santa Maria cit., p. 57.
105
P. TOLA, Dizionario biografico cit., p. 338.
106
Queste le dimensioni della lastra marmorea: cm 177x76.
93
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Giuseppe Piras
Oltre alla lapide funeraria di Juan Ahuja Ruiz, cittadino di
Castellaragonese, nell’area presbiteriale vi è un’altra iscrizione marmorea,
inclusa nel paramento murario del lato settentrionale dell’arco trionfale,107
che commemora la concessione del privilegium quotidianum perpetuum ac
liberum per l’altare dedicato alla Santissima Pietà, sancita da parte del
pontefice Benedetto XIV il 4 ottobre 1751 con procura conferita il 9
gennaio 1753 al Ministro Generale dell’Ordine, il bolognese Carlo Antonio
Calvi (1747-1753), grazie alla quale la celebrazione della Messa su
quest’altare privilegiato consentiva di lucrare l’indulgenza plenaria per le
anime del Purgatorio, pro omnibus defunctis.108 Al contrario, non paiono
riconducibili a tracce di ulteriori testimonianze epigrafiche i numerosi solchi
tracciati sulla faccia a vista del primo concio,109 a partire dall’arco, nello
stipite destro dell’archivolto su cui si apre il succitato portale di fianco al
quale è collocato il dipinto del Padre Giuseppe Monserrato. Questi
sembrano essere piuttosto il prodotto casuale della lama di uno scalpello con
la sovrapposizione, in momenti diversi, di altri strumenti a punta fine che
hanno lasciato dei segni richiamanti solo all’apparenza il ductus di lettere in
minuscola gotica, tipo di scrittura epigrafica che invece ritroviamo
nell’inedito cartiglio di uno stemma araldico marmoreo sistemato nella
facciata dell’abitazione della famiglia Pruneddu, sita in via Guglielmo
Marconi 8, proprio di fronte alla rampa d’accesso al Mim-Museo
dell’intreccio mediterraneo. Lo stemma (Fig. 23) è composto da uno scudo
107
Inglobata nell’angolo settentrionale della muratura dell’arco, misura cm
69,7x55,5x5,5.
108
L’iscrizione, in una capitale epigrafica umanistica con caratteri rubricati in nero,
l’impiego di lettere nane e interpunti di forma triangolare, recita:
Altare hoc omnipoten/ti Deo in honorem S(anctis)s(i)me / Pietatis ꞏ erec/tum privilegio
quotidi/ano perpetuo ꞏ ac libero / pro omnibus defunctis ꞏ / ad quoscumque sacer/dotes
vigore brevis Bene/dicti Papæ XIV ꞏ die IV octo/bris MDCCLI ꞏ insignitum ꞏ at/que a
Ministro Generali / Ordinis die ꞏ IX mensis Ianu/arii ꞏ MDCCLIII designatum. Cfr. anche
W. PARIS, Soprintendenza BAAAS Sassari, sch. di catalogo n. 20/00042946, 7 Settembre
1981 (scheda non potuta consultare dallo scrivente); M. NIEDDU, La chiesa di Santa Maria
cit., pp. 94 (il testo presenta l’omissione, forse per un refuso, della parola Altare nella prima
linea, di insignitum nella decima e la lettura disignatum in luogo del corretto designatum
nell’ultima) e 153.
109
Le dimensioni del concio sono cm 24,2x35,4x13.
94
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sagomato110 in cui campeggia un’aquila bicipite coronata imperiale al volo
abbassato, al di sopra del quale sono incise due lettere in capitale epigrafica,
una A (con traversa angolare) e una M, iniziali del titolare dell’arma; sulla
punta dello scudo è invece posto un cartiglio recante un motto in versi che
impiega caratteri in gotica minuscola quadrata, allineati tra loro grazie a dei
sottili binari graffiti sulla superficie lapidea e distanziati per mezzo di
interpunti rotondi a mezz’altezza della riga, con uso della tilde diritta
orizzontale in funzione abbreviativa. Questa la trascrizione del testo
epigrafico:
⁔ Povero ꞏ sono ꞏ e ꞏ gra(n) ꞏ / pe(na vel so?) ꞏ porto ꞏ de ꞏ me ꞏ se ꞏ
g/uarde ꞏ q(ui) ꞏ me ꞏ fara ꞏ torto.
Ritornando, dopo la breve rassegna sulle testimonianze epigrafiche
presenti all’interno della Santa Maria delle Grazie, all’iscrizione funeraria
del Padre Giuseppe Monserrato sopra la porta laterale, pubblicata da
Pasquale Tola nel 1838, è doveroso rimarcare le perplessità di chi scrive
rispetto a quanto venne effettivamente osservato dal Tola (o da colui il quale
gli fornì la lettura dell’epitaffio) ed all’eventualità che l’iscrizione possa
essere andata perduta, magari in circostanze concomitanti con la chiusura
del convento nel 1855 e la successiva formale cessione della chiesa al
Municipio il 9 ottobre del 1863111 (i francescani officiarono comunque nella
chiesa almeno fino al 1865).112 È legittimo pensare che lo spazio occupato
da un testo epigrafico della lunghezza riportata dal Tola non dovesse essere
di certo trascurabile e lo storico sassarese d’altro canto non chiarì nella sua
descrizione il tipo di supporto dell’iscrizione, se dunque questa fosse stata
incisa, scolpita oppure dipinta. La sua scomparsa, il suo danneggiamento o,
ancor peggio, la sua distruzione non sarebbero però potuti passare
inosservati soprattutto in virtù del fatto che il titulus funerario era relativo ad
110
Una caratteristica particolare di questo stemma è la sovrapposizione in più punti del
profilo dello scudo sagomato alla cornice della formella marmorea quadrangolare
all’interno della quale esso è incluso.
111
C.M. DEVILLA, I Frati Minori cit., pp. 136-138; W. PARIS, Cenni sulla storia cit., p.
7; P.O. FATTACCIO, Momenti di storia francescana cit., p. 749 indica invece l’anno 1873.
112
C.M. DEVILLA, I Frati Minori cit., pp. 136-138; M. NIEDDU, La chiesa di Santa
Maria cit., p. 59.
95
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Giuseppe Piras
un personaggio oggetto di devozione popolare, molto amato a Castelsardo e
nei territori circostanti.
Cosa vide dunque il Tola o la persona che a lui comunicò la
trascrizione dell’iscrizione? Una lapide o un altro manufatto?
Un indizio utile per sciogliere la questione e dare risposta al quesito
viene, ancora una volta, dalle note biografiche che il Tola dedicò al frate nel
suo Dizionario biografico. Lo storico diede infatti notizia dell’esistenza, nel
convento castellanese, delle «memorie amplissime delle virtù e delle gesta
di questo pio religioso, scritte dal P. M. Limps dello stess’ordine, autore
della Vita di S. Francesco d’Assisi»,113 aggiungendo nella riga seguente che
queste tuttavia «al presente non vi si ritrovano più». Orbene, non sappiamo
se le «memorie amplissime» menzionate dal Tola corrispondessero a dei
documenti manoscritti custoditi nel convento ma ciò che sembra pressoché
certo è che il «P. M. Limps» al quale egli fece riferimento vada in realtà
identificato con il p. Ludovico Lipsin (ante 1700-1767), dotto minore
conventuale belga che ricoprì, a partire dal 1750, l’incarico di Custode del
Sacro Convento di Assisi,114 luogo nel quale rimase fino alla sua morte nel
1767 e dove ebbe modo di incontrare e stringere amicizia col Padre Antonio
113
P. TOLA, Dizionario biografico cit., p. 338.
Louis Lipsin, O.F.M. Conv., secondo le fonti nacque a Liegi prima dell’anno 1700.
Entrato nell’Ordine dei Frati Minori Conventuali si segnalò ben presto per le sue doti
intellettuali e le capacità in campo teologico pastorale. Membro dei Conventuali della
provincia di Cologne divenne dottore in Teologia a Montpellier e successivamente, per due
volte, fu Ministro Provinciale della provincia di Liegi. Nel 1741 gli venne affidata la
funzione di Vice Custode del Sacro Convento di Assisi, poi nel biennio 1744-1745 quella
di archivista conventuale e, a partire dal 7 giugno del 1750 sino al 1752, assunse il delicato
ruolo di Custode dello stesso convento, dove morì nel 1767. Fu autore di diverse opere, tra
libri a stampa e manoscritti; per i primi si possono ricordare la Paraphrase ou reflexions
chretiennes en forme de prières sur chaque verset des sept pseaumes de la pénitence
pubblicata a Liegi nel 1717, il noto Catechismus Historico-Theologico-Dogmaticus in quo
symbolum apostolorum et præcipui fidei christianæ articuli brevi clara et facili methodo
explanantur uscito a Venezia nel 1750 e la Compendiosa historia vitæ seraphici patris
Francisci in formam dialogi Pro Clariori intelligentia, et firmiori Rerum descriptarum
memoria in gratiam franciscanæ juventutis edita ad Assisi sei anni dopo; tra i suoi
manoscritti si possono citare invece il Commentarium super Regulam sancti Francisci… e
la Dissertatio De Statu, et situ sacri corporis Seraphici Patris Sancti Francisci…opera,
quest’ultima, che verrà donata dal p. Lipsin al frate sassarese p. Antonio Sisco (si veda
infra nel testo). Cfr. G. FRATINI, Storia della basilica e del convento di S. Francesco in
Assisi, Prato 1882, p. 385; E.M. BUYTAERT, Louis Lipsin, O.F.M. Conv., «Franciscan
Studies», 11, n. 1 (marzo 1951), pp. 96-103.
114
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Giuseppe Piras
Sisco durante il periodo in cui il frate sassarese dimorò ad Assisi,115
omaggiandolo anche con dei suoi manoscritti autografi, datati al 1744,116
custoditi prima nella biblioteca del convento dei Minori Conventuali di
Santa Maria di Betlem a Sassari ed attualmente conservati nella Biblioteca
Universitaria del capoluogo turritano.117 Proprio ad Assisi, nel 1756 (perciò
quarant’anni dopo la scomparsa del Padre Giuseppe Monserrato) il Padre
Lipsin diede alle stampe un’opera relativa alla vita del santo fondatore del
suo Ordine, intitolata Compendiosa historia vitæ seraphici patris
Francisci118 nella quale egli stilò altresì un lungo elenco di figure di
francescani che, ad iniziare dall’anno 1600, si erano distinti per la loro
rettitudine nel proprio operato, le virtù morali e per i quali si era prefigurata
la condizione di fama sanctitatis. Il ventisettesimo religioso della serie è per
l’appunto il Padre Giuseppe Monserrato, al quale il Padre Lipsin riservò
questa descrizione:
P. Joseph Monserratus de Castro Aragonesio, Sardiniæ Provinciæ, mira
innocentia morum, supernisque charismatibus locupletatus, qui cum per
plures annos Sororum Tertii Ordinis ejusdem Urbis Visitator, ac Religiosæ
perfectionis Magister extitisset, ea qua prædixerat die, tertia videlicet Augusti
1716. vitæ cursum sanctissime absolvit, cujus merita quanti sint apud Deum,
gratiæ, quas Cives illum invocantes non semel reportarunt clare
demonstrant.119
Nel leggere il testo del Lipsin si può cogliere immediatamente come
gran parte del suo contenuto sia stato ripreso pedissequamente
nell’iscrizione citata da Pasquale Tola ma cosa ancor più interessante
(nonché preziosa per comprendere forse ciò che realmente era visibile ai
tempi del Tola) è che la descrizione del frate belga sia stata riportata, quasi
nella sua totalità (se si eccettuano solo alcuni brevi passaggi), nel dipinto
115
P. TOLA, Dizionario biografico cit., s.v. Sisco (Antonio), pp. 204-208, p. 204.
Ivi, p. 207.
117
L. LIPSIN, Dissertatio De Statu, et situ sacri corporis Seraphici Patris Sancti
Francisci Ordinis Fratrum Minorum Fundatoris…, Biblioteca Universitaria di Sassari, ms.
91, cc. 1r-22r, 1744; O. RINGHIERI, Theses Quinque Adversus Incorruptionem, et
erectionem in pedes Sacri Corporis Seraphici Patris Francisci, Biblioteca Universitaria di
Sassari, ms. 92, cc. 25r-174r, 1744.
118
L. LIPSIN, Compendiosa historia vitæ seraphici patris Francisci in formam dialogi
Pro Clariori intelligentia, et firmiori Rerum descriptarum memoria in gratiam franciscanæ
juventutis, Assisii 1756.
119
Ivi, Pars altera, pp. 150-151.
116
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Giuseppe Piras
riproducente il Padre Giuseppe Monserrato collocato nella Santa Maria delle
Grazie. Il titulus che compare nella parte inferiore dell’opera pittorica è
infatti trascrivibile nel modo seguente:
[P. J]oseph Monser(r)atus de Castro aragonesio Minorum
Conventualium Sardiniæ / [Pro]vinciæ Sacerdos mira innocentia morum
supernisque charismatibus / [loc]ụpletatus qui cum per annos plures
Sororum Tertij Ordinis S(ancti) Francisci / [ei]usdem Urbis Visitator ac
religiosæ perfectionis Magister extitisset / [c. 3]ịum antea prædixerat die
tertia videlicet Augusti 1716 vitæ / [cur]sum sanctissime absolvit cuius
merita quanti sint apud Deum gratia[e] / [quas] Cives ịllum invocantes ṇon
semel reportarunt clare demonstra[nt].
Focalizzando l’attenzione sui tre testi e mettendoli a confronto è
facile constatare l’interdipendenza tra la descrizione del Lipsin ed il titulus
del dipinto. Sull’assunto che sia quest’ultimo a derivare dal testo letterario
non dovrebbero esserci esitazioni di sorta poiché il Lipsin mostra il
medesimo utilizzo delle iniziali maiuscole anche nelle descrizioni degli altri
religiosi120 così come è ricorrente nel suo volume l’impiego di certe
locuzioni e formule presenti nel passo dedicato al p. Monserrato;121 pare
infine più logico pensare alla possibilità che il pittore abbia avuto a
disposizione il brano dell’opera edita piuttosto che sia avvenuto il contrario.
Dell’iscrizione riportata dal Tola nel 1838 colpiscono invece il
riferimento all’appartenenza del frate castellanese all’Ordine dei Minori
Conventuali (indicazione che si ritrova nel dipinto ma è assente nel libro del
p. Lipsin) e, nell’attestazione dell’incarico svolto per diversi anni dal p.
Monserrato di visitator della comunità femminile del Terz’ordine
120
Nella Compendiosa historia del p. Lipsin la forma maiuscola viene adottata per le
lettere iniziali di parole indicanti luoghi, mesi, incarichi, virtù cristiane o per particolari
termini (ad esempio ‘Cives’).
121
Si possono citare, tra quelle usate nella descrizione del p. Monserrato, la formula
‘mira morum innocentia’ (adoperata alla p. 146 della Compendiosa historia per il frate
Illuminatus Rosegart) oppure ‘per plures annos’ (alla p. 153 per il p. Lucas Krotisinius) od
ancora la frequente locuzione ‘vitae cursum’ (per esempio alla p. 179 nella vita del frater
Alexius a Messana).
98
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francescano esistente a Castellaragonese,122 la sostituzione del termine
Sororum con coenobii quasi a voler ragguagliare solo genericamente sulla
presenza del convento ma senza entrare nel merito della comunità a cui esso
pertineva. Un ulteriore dettaglio nell’iscrizione del Tola risulta ancor più
curioso, ovverosìa il ricorso al participio passato completatus in luogo di
locupletatus, usato invece dal p. Lipsin. Nel dipinto viene impiegato
quest’ultimo termine ma si può notare come nella tela esso non sia visibile
per le prime tre lettere e che della quarta, la U, a causa del degrado della
pellicola pittorica si scorga solo l’asta obliqua di sinistra, condizione che
potrebbe facilmente indurre un ignaro lettore a identificarla erroneamente
con l’estremità di una lettera M. Nasce così il sospetto che il termine
completatus inserito dal Tola sia in realtà il frutto di un’errata
interpretazione della lettera in cui egli (o la sua fonte) sarebbe incorso a
causa dell’impossibilità di individuare, allora come oggi, la parte inziale
della parola. Tutto ciò quindi porterebbe a ritenere che il Tola nel suo
Dizionario biografico non fece altro che citare l’epigrafe dipinta nel quadro
del Padre Monserrato, con un testo che tuttavia venne ampliato nel
contenuto e modificato arbitrariamente rispetto a quello originario
dell’opera pittorica.
L’epigrafe del dipinto ebbe una prima decifrazione, in molte sue
parti da emendare, ad opera di Wally Paris la quale la inserì nella scheda di
catalogo dell’olio su tela da lei redatta per la Soprintendenza BAAAS per le
province di Sassari e Nuoro il 7 settembre 1981.123 Nella scheda la Paris
122
Sul Terz’ordine francescano a Castellaragonese si rimanda a U. ZUCCA, Castelsardo
e i frati minori cit., pp. 64-67 e a M. NIEDDU, La chiesa di Santa Maria cit., p. 51, col
riferimento documentario a tre sorelle appartenute a quest’Ordine: «‘sorri’ Juana Burtolu»,
«‘sorri’ Juana Manarinu» e «sorre Bartulumia», quest’ultima seppellita nel convento.
123
W. PARIS, Soprintendenza BAAAS Sassari, sch. di catalogo n. 20/00042955 cit.:
IOSEPH
MONSERATUS
DE
CASTRO
ARAGONENSIO
MINORUM
CONVENTUALIM SARDINAE / VINCIAE SACERDOS MIRA INNOCENTIA
MORUM SUPERNISQUE CHARISMATIBUS / LOCUPLETATUS QUI CUM PER
ANNO PLURES SORORUM TERTIJ ORDINIS S. FRANCISCI / USDEM URBIS
VISITATOR AC RELIGIOSA PERI ECTIONIS MAGISTER EXTITISSET / IAM
ANTEA PRAEDIXERAT DIE TERTIA VIDELICET AUGUSTI 1716 VITAM / VIA
SANCTISSIME ABSOLUIT CUIUS MERITA QUANTI SINT APUD DEUM GRATIA /
CIVES ILLUM INVOCANTES NON SI MEL REPORTARUNT CLARE DEMONSTRA.
99
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attribuì il dipinto ad un «ignoto pittore sardo» ascrivendolo al sec. XVIII (la
data riportata è il 1716, cioè l’anno di morte del p. Monserrato che compare
nel titulus) e ritenne di riconoscere in esso «la figura di San Francesco,
intento a contemplare il crocifisso, tenuto nella mano sinistra»,124
valutazione che la stessa storica dell’arte nel 1995 sottopose a revisione,
rettificandola con la corretta identificazione del «ritratto di Giuseppe
Monserrato come fosse S. Francesco».125 Nello stesso contributo la Paris
diede una lettura, però incompleta, del titulus discostandosi in alcuni punti
da quella fornita precedentemente nella schedatura del 1981.126
Venendo infine alla descrizione del dipinto, esso raffigura per
l’appunto il Padre Giuseppe Monserrato, col capo chino in un momento di
contemplazione del crocifisso stretto nella sua mano sinistra mentre la
destra è portata al petto come nel gesto di invocazione della misericordia
divina che si compie durante l’atto penitenziale. Di fronte a lui, sopra un
tavolino coperto da un drappo dal color verde smeraldo, è poggiato un libro
aperto da sotto il quale spuntano, poco visibili a causa della colorazione
molto scura dello sfondo della tela, cinque cordoni provvisti alle estremità
di altrettanti elementi a forma di stella a cinque punte.127 Analizzando
accuratamente l’opera chi scrive ha potuto constatare da subito le molteplici
affinità mostrate dal soggetto riprodotto con i caratteri stilistici che
contraddistinguono la produzione artistica di Antonio Maria Casabianca,
della quale si è profusamente argomentato in questo saggio. Nel dipinto
Si è potuto notare come nella lettura della Paris sia stata apportata sul testo
dattilografato una rettifica a penna delle prime lettere nella parola iniziale della terza riga,
modificata correttamente in ‘locupletatus’.
124
Ibid.
125
EADEM, La chiesa cit., pp. 7-9, nota 21. Alla p. 9 si accenna anche alla biografia del
p. Monserrato assegnandone la stesura opportunamente al confratello Ludovico Lipsin.
126
Ibid.: IOSEPH MONSERATUS DE CASTRO ARAGONENSIO MINORUM
CONVENTUALIM SARDINIAE / VINCIAE SACERDOS MIRA INNOCENTIA
MORUM SUPERNISQUE CHARISMATIBUS LOCUPLETATUS QUI CUM ANNO
PLURES SORORUM TERTIJ ORDINIS S. FRANCISCI / USDEM URBIS VISITATOR
AC RELIGIOSA PERI ECTIONIS MAGISTER EXTITISSET / IAM ANTEA
PRAEDIXERA DIE TERTIA VIDELICET AUGUSTI 1716 VITAM / VIA
SANCTISSIMA ABSOLUIT CUIUS MERITA QUANTI SINT APUD DEUM GRATIA.
127
Potrebbe forse trattarsi delle nistole (la stella sarebbe un esplicito richiamo alla
simbologia mariana) di un messale oppure, meno probabilmente, essere la rappresentazione
della parte terminale di un flagello o un riferimento alla casata di appartenenza del p.
Monserrato.
100
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Giuseppe Piras
castellanese è evidente uno stile ingenuo in cui è possibile cogliere la
medesima poca propensione del Casabianca verso la resa delle giuste
proporzioni di talune parti del corpo dei personaggi raffigurati ed invece la
sua predilezione nei confronti di alcuni dettagli dei volti. Nel ritratto del
Padre Giuseppe Monserrato (Fig. 24) ritroviamo infatti molti particolari
tipici del modo di dipingere dell’artista algherese, come il marcato
corrugamento della fronte, l’accentuazione delle rughe d’espressione nella
coda dell’occhio e di quelle nasogeniene, il particolare disegno delle
sopracciglia, sottili e ‘ad ali di gabbiano’, gli zigomi posti in risalto
dall’effetto del chiaroscuro, l’ovale del viso delimitato in maniera netta, la
forma allungata degli occhi e del naso, dai contorni ben delineati. Sorprende
la stringente somiglianza dello sguardo inespressivo del p. Monserrato, dagli
occhi socchiusi, rivolti verso il basso, quasi inanimati, con quello che è
possibile percepire anche nel ritratto del vescovo Gavino Manca de
Cedrelles, in quello del sant’Alfonso Rodriguez e perfino nel san Gavino
che sta per essere decapitato. Rimandano ancora al Casabianca l’attitudine a
voler definire minuziosamente la sagoma della bocca e la forma
eccessivamente affusolata delle mani, nelle quali il pittore tradisce la sua
difficoltà a disegnare correttamente il loro profilo (in particolare nel dorso e
nel punto di raccordo tra il pollice e l’indice) così come è facile arguire
raffrontando la mano destra del p. Monserrato con quella della santa
Benedetta, del san Damiano o del vescovo Carlo Francesco Casanova (Fig.
25). Analogie, quelle fin qui elencate, che porterebbero senza remore di
sorta ad assegnare alla mano del Casabianca l’opera pittorica della Santa
Maria delle Grazie se non fosse che in essa si intravede una certa ruvidità
nella resa dei contorni della figura e nell’utilizzo delle tonalità di colore che
non si attaglia alle caratteristiche degli altri dipinti noti del pittore, nei quali
la pennellata risulta un po' più morbida e sfumata. Diversa è inoltre la
tipologia scrittoria delle lettere del titulus, nel quadro castellanese molto più
slanciate e filiformi rispetto a quelle convenzionalmente adottate nelle opere
dell’artista catalano, difformità questa che tuttavia può essere motivata dalla
notevole lunghezza del testo epigrafico e dalla conseguente necessità di
impiegare caratteri dai tratti più stretti per permettere al pittore di far
rientrare il titulus nello spazio a disposizione sulla tela.
101
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Giuseppe Piras
Segni diacritici usati nell’edizione
ạḅc
lettere riconoscibili, ma dalla forma gravemente
compromessa
[abc]
integrazione delle lacune
abc
lettere mancanti e inserite dall’editore
(abc)
scioglimento delle abbreviature
(abc?) [abc?] scioglimenti incerti o integrazioni incerte
[---]
lacuna laterale non misurabile
[-c. 8-]
lacuna laterale misurabile in
approssimativo di caratteri mancanti
(vel abc ?)
nota dell’editore posta in presenza di più soluzioni
interpretative
⁔
ab
lettere unite in nesso
ꞏ, ., -
segni di interpunzione
102
un
numero
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Giuseppe Piras
Fig. 1: ‘I tre Martiri Turritani nella gloria’ di Giacomo Galeazzo, olio su lamina zincata, 1890. Basilica di San
Gavino.
Fig. 2: La scritta incisa con un punteruolo sulla superficie del dipinto del Galeazzo.
103
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Fig. 3: ‘I tre Martiri Turritani’, olio su tela. Dalla chiesa di Santu Baignu di Scupetu, Tempio Pausania. Inedito
(per gentile concessione dell’Ufficio BB.CC. Diocesi di Tempio-Ampurias; ph. Giuseppe Ortu).
104
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Giuseppe Piras
Fig. 4: Epigrafe con data del 1618 nel Santu Baignu di Scupetu. (cortesia di Margherita Cossu e Michele
Montanarella).
Fig. 5: ‘I tre Martiri Turritani’ dal Santu Baignu di Scupetu. Particolare (per gentile concessione dell’Ufficio
BB.CC. Diocesi di Tempio-Ampurias; ph. Tore Denau).
Fig. 6: ‘I tre Martiri Turritani’ dal Santu Baignu di Scupetu. Particolare (per gentile concessione dell’Ufficio
BB.CC. Diocesi di Tempio-Ampurias; ph. Tore Denau).
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Fig. 7: ‘La decollazione di san Gavino’ dopo il restauro del 1983-84, Antonio Maria Casabianca, 1849. Basilica di
San Gavino.
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Giuseppe Piras
Fig. 8: Documento fotografico del 1982 che ritrae il dipinto de ‘La decollazione di san Gavino’.
Fig. 9: Il titulus con la firma del pittore Antonio Maria Casabianca nel dipinto de ‘La decollazione di san Gavino’.
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Fig. 10: La decapitazione di san Gavino. Particolare del dipinto de ‘I SS. Martiri Turritani’ di Johan Bilevelt,
chiesa di S. Caterina, Sassari.
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Giuseppe Piras
Fig. 11: ‘Il martirio di san Gavino’, Mattia Preti, sesto decennio del XVII sec. Chiesa delle Cappuccine, Sassari.
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Fig. 12: La lapide commemorativa di Antonio Maria Casabianca. Museo Diocesano d’Arte Sacra. Alghero.
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Fig. 13: ‘Ritratto di Pietro Raffaele Arduino, vescovo di Alghero’, Antonio Maria Casabianca, post 1846, Archivio
Storico Diocesano, Alghero
Fig. 14: ‘Ritratto di Pietro Raffaele Arduino, vescovo di Alghero’, particolare della firma di Antonio Maria
Casabianca.
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Giuseppe Piras
Fig. 15a: ‘Ritratto di Pietro Andrés Bacallar, vescovo di Alghero’, sacrestia della Cattedrale di Alghero.
Fig. 15b: ‘Ritratto di Gavino Manca de Cedrelles, vescovo di Alghero’, sacrestia della Cattedrale di Alghero.
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Fig. 15c: ‘Ritratto di Carlo Francesco Casanova, vescovo di Alghero’, sacrestia della Cattedrale di Alghero.
Fig. 15d: ‘Ritratto di Giuseppe Maria Incisa Beccaria, vescovo di Alghero’, sacrestia della Cattedrale di Alghero.
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Giuseppe Piras
Fig. 16: L’olio su tavola del Casabianca raffigurante una ‘Santa Benedetta’ conservato presso il Museo diocesano
di Sassari.
Fig. 17: Particolare del cognome Casabianca, nella firma dipinta nella ‘Santa Benedetta’ del Museo diocesano di
Sassari.
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Giuseppe Piras
Fig. 18: L’olio su tela del Casabianca, datato 1837, riproducente i SS. Cosma e Damiano.
Fig. 19: Dipinto de ‘I SS. Cosma e Damiano’. Particolare della firma del pittore Casabianca.
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Giuseppe Piras
Fig. 20: Il ‘Sant’Alfonso Rodriguez’ datato 1851 della chiesa di S. Apollinare a Sassari.
Fig. 21: Particolare della firma di Antonio Maria Casabianca nel dipinto che ritrae sant’Alfonso Rodriguez.
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Fig. 22: ‘Ritratto del venerabile p. Giuseppe Monserrato’, chiesa di Santa Maria delle Grazie, Castelsardo.
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Giuseppe Piras
Fig. 23: Stemma araldico con cartiglio recante il motto, Castelsardo.
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Giuseppe Piras
Fig. 24: Particolare del dipinto raffigurante il Padre Giuseppe Monserrato.
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Giuseppe Piras
Fig. 25: Particolare della mano destra nei seguenti dipinti: ‘Santa Benedetta’ (1), ‘Ritratto del venerabile p.
Giuseppe Monserrato’ (2), il san Damiano ne ‘I SS. Cosma e Damiano’ (3), ‘Ritratto di Carlo Francesco
Casanova, vescovo di Alghero’ (4).
Fig. 26: Disegno raffigurante la porta di Castelsardo, con data 7 giugno 1773. Nella parte retrostante il disegno è
presente la seguente annotazione: ‘Le 7 juin 1773. Intérieur de la porte, de Castel Sardo, en Sardaigne. Cette
porte est située sur le bord du crater d'un volcan dans lequel la ville est batie; on monte un chemin assez difficil
pour y arriver et on descend presque de même pour entrer dans la ville’; Parigi, Musée du Louvre-Département
des Arts graphiques, n. inv. RF 14351 recto.
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Aldo Sari
LA CATTEDRALE DI ALGHERO
CENNI SULLA SISTEMAZIONE DEL SUO PRESBITERIO NEL XVII - XVIII SECOLO
Aldo Sari
(Università di Sassari)
La Cattedrale di Alghero, in fabbrica alla fine del primo trentennio del
secolo XVI e conclusa nel successivo, è il più significativo esempio di
architettura ecclesiastica in stile gotico catalano sorto in Sardegna. Solo in
essa, infatti, come nelle grandi cattedrali del Regno d’Aragona, cappelle
radiali si affacciano dietro l’abside sul percorso semicircolare del
deambulatorio. Né meno straordinario appare nel corpo longitudinale a tre
navate il percorso rettilineo tra l’ingresso e l’altare ritmato da alte arcate su
pilastri ed enormi colonne dalla pronunciatissima entasi di impronta
spiccatamente tardomanieristica. Colonne che per lo stravagante
virtuosismo e la contraddizione della regola suscitarono la meraviglia dei
contemporanei (uno per tutti il cosiddetto Maestro di Ozieri, che le
riprodusse nella tavola con la Traslazione della Casa di Nazareth del
polittico di Nostra Signora di Loreto dipinto per la chiesa omonima di quella
città, allora appartenente alla diocesi di Alghero). Altro vanto della
Cattedrale algherese è il settecentesco arredo presbiteriale, argomento di
questo studio.
Nei primi decenni del XVIII secolo il commercio e le principali
attività produttive della Sardegna erano soprattutto in mano dei genovesi,1 i
quali, inoltre, ricavavano enormi profitti con il monopolio dell’olio, dello
zucchero e di altre spezie.2 I loro investimenti, che avevano conosciuto una
1
Lorenzo DEL PIANO, Una relazione inedita sulla Sardegna nel 1717, in «Archivio
Storico Sardo», XXIX (1964), pp. 175-192. A p. 191 dell’anonima Descrizione dell’isola e
del regno di Sardegna nel 1717, pubblicata in appendice allo scritto di L. Del Piano, si
legge: «Nel Regno non vi è un nazionale applicato alla mercanzia, né alla marinaria,
essendo in mezzo del mare, permettendo che questo che porta tutto il denaro del Regno lo
ricevano li genovesi et altri forastieri».
2
Maria Luisa PLAISANT, I genovesi in Sardegna nei secoli XVI e XVII, in Genova in
Sardegna. Studi sui genovesi in Sardegna fra Medioevo ed Età contemporanea, ed. Anna
SAIU DEIDDA, Cagliari 2000, pp. 31-39;
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Aldo Sari
stagione straordinariamente propizia nel secondo quarto del secolo
precedente, si basavano su una presenza plurisecolare nell’isola, sulla
solidarietà della comunità ligure ivi residente e sulle relazioni con
l’amministrazione regia e la classe politica locale.3 Punti di forza erano la
capillarità dei piccoli operatori liguri coinvolti in quasi tutte le attività
economiche isolane e la rete di prestiti e appalti gestiti dagli esponenti più in
vista della loro comunità.4 Per controllare meglio il proprio potere
economico la ricca e unita borghesia mercantile genovese di Alghero e di
Cagliari si era costituita in confraternita fin dal XVI secolo.5
La cessione nel 1720 del Regnum Sardiniae ai Savoia consolidava il
secolare predominio genovese nel settore economico-commerciale isolano.6
Egemonia che trova conferma nello scritto di un anonimo ufficiale
piemontese di stanza in Sardegna dal 1755 al 1759.7 Genova importava
legumi, vino, olio, carni fresche e salate, tonno e, soprattutto dal Capo di
Sassari, grani e formaggi, ed esportava nell’isola «stoffe ordinarie e fine in
Lana, e Seta, Lino, Bombace Sapone e Rami lavorati Ferro in barra, Otigli
di Campagna, Serrature per casa Mobili ordinarj, Argenterie lavorate ogni
sorta di adornamenti per le Chiese, cioè Lampade d’ottone Candelieri etc.
Drogherie d’ogni qualità Legnami per Botti».8
Anche Francesco D’Austria-Este, nella sua Descrizione della
Sardegna del 1812, riconosceva il primato commerciale genovese nell’isola
e, per Cagliari, citava addirittura i principali esercenti liguri: «Con Genova
poi si fa il più di commercio e lo fanno a Cagliari Casa Viale, Casa Pulini,
Salvator Rossi, Federici, Casa Gandolfo, Casa Cerella, Casa Navoni,
Cortesi, ecc. Oltre tanti cavalieri, particolari cointeressati in questi negozi.
Da Genova si porta tela, seterie, cose di moda, bijouterie, vetri, carta, panni
3
Bruno ANATRA, I genovesi a Cagliari nella prima metà del XVII secolo, in Genova in
Sardegna cit., pp. 41-46.
4
Bruno ANATRA, I genovesi cit. p. 45.
5
Isabella ZEDDA, L’Arciconfraternita dei Genovesi in Cagliari nel secolo XVII, Cagliari
1974.
6
Marinella FERRAI COCCO ORTU, Testimonianze della presenza genovese in Sardegna
attraverso le fonti dell’Archivio di Stato di Cagliari (secc. XVI-XIX), in Genova in
Sardegna cit., pp. 47 e ss.
7
ANONIMO PIEMONTESE, Descrizione dell’isola di Sardegna, ed. Francesco Manconi,
Cinisello Balsamo 1985.
8
ANONIMO PIEMONTESE, Descrizione cit., p. 86.
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Aldo Sari
di Francia, e vi si manda di Sardegna Tonni salati, sale qualche poco,
tabacco, formaggio, frutti secchi e grano».9
I rapporti mercantili con le città che si affacciavano sul
Mediterraneo –«Raggira adunque tutto il Commercio sulli forasteri, e questi
sono per lo più Francesi, Napolitani, Genovesi, e Cattalani» –10 favorivano
di conseguenza gli scambi culturali.
L’apporto genovese nel campo delle arti figurative –conteso da
quello napoletano–11 era testimoniato fin dal XIV secolo, come attesta il
frammento di dossale con la Madonna del Bosco nella Cattedrale di Sassari,
attribuito all’ambito di Nicolò da Voltri, attivo a Genova fra il 1385 e il
1417;12 ma si rafforzava notevolmente nella prima metà del Seicento,
quando arrivavano nell’isola opere di G. Battista Paggi, Giovanni Carlone,
Domenico Fiasella, Orazio e Giovanni Andrea de Ferrari,13 oltre a un gran
numero di tele di artisti rimasti sconosciuti, ma di buon livello, e vi aprivano
bottega alcuni pittori liguri, tra i quali Pantaleone Calvo, un anacronistico
manierista operante tra il 1631 e il 1664.14
Le relazioni culturali con Genova e le altre città italiane, ormai
limitate, però, a Torino, Roma e Napoli, non subivano importanti
cambiamenti con il passaggio della Sardegna ai Savoia.15
Durante l’occupazione austriaca dell’isola (1708-1717), si eseguiva
il paliotto d’argento per l’altare maggiore della cattedrale di Alghero. Era
stato voluto dal vescovo di quella diocesi, mons. Tommaso Carnicer (1695-
9
Francesco D’AUSTRIA-ESTE, Descrizione della Sardegna (1812), ed. Giorgio
BARDANZELLU, Roma 1934, p. 220.
10
ANONIMO PIEMONTESE, Descrizione cit., p. 87.
11
Ivi, pp. 85-86: «Napoli [ci provvede] Sedie di Paglia, Stoffe di Seta ordinarie, e
Damaschi, Tele comuni, e grezze, Calzetti di Seta di varie qualità, Quadri, Argenterie
lavorate, Reti, ed attrazzi per le Tonnare, Galloni in oro, argento buoni, e falsi ed altri di
Seta, Grossi Mobili di Casa, e sino dei Coffani ordinarj, ed altre cose di meno valore».
12
Renata SERRA, Retabli pittorici in Sardegna nel Quattrocento e nel Cinquecento,
Roma 1980, p. 10.
13
Maria Grazia SCANO, Storia dell’arte in Sardegna. Pittura e scultura del ‘600 e del
‘700, Nuoro 1991, pp. 104-113.
14
Ivi, pp. 113- 115.
15
Ivi, p. 215 e ss.
123
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Aldo Sari
1720),16 un domenicano di antica famiglia cagliaritana, che a questo scopo
aveva inviato mille scudi a Genova con il patron Bartolomeo Ballero.
Il paliotto, del peso di 1030 once d’argento, corrispondente a poco
più di ventisette chilogrammi,17 per un valore di 2575 lire, veniva a costare
in totale 4695 lire, 7 soldi e 7 denari, di cui 1050 lire per la fattura e 65 per il
supporto ligneo.18 Il vescovo, il cui stemma sarebbe dovuto apparire al
centro del paliotto, contribuiva con 2500 lire.
Il frontale, eseguito nel 1715, come dichiara il marchio territoriale e
di garanzia del titolo impresso in varie parti della sua superficie, con il
16
Archivio Capitolare di Alghero (ACapA), Notizie antiche e moderne compilate o
copiate nella maggior parte dal Canonico Antonio Michele Urgias nel 1824, ms, pp. 83-84:
«Tommaso Carnicer, nato in Cagliari da illustre famiglia, Domenicano. Occupò
meritamente la Cattedra di Teologia Dommatica nella R.a Università di Cagliari. Da
Provinciale del suo Ordine fu promosso al Vescovado di Alghero, ed ottenne la
consagrazione nella Capitale ai 20 novembre 1695. Arrichì la nostra Cattedrale di
preziosissimi doni, e nel 1700 cedette al Capitolo l’Amministrazione del pie’ dell’Altare.
Finì di vivere in seno della sua greggia addì 13 luglio 1720». Con altra, più recente grafia è
tracciata a conclusione una postilla ai preziosissimi doni, fra i quali il palliotto d’argento
che costò lire novemila cinquecento novanta.
17
L’oncia era un’unità sottomultipla di misura di peso (ma anche di lunghezza, valore,
superficie, volume) in vigore in Italia e in vari paesi prima dell’introduzione del sistema
metrico decimale. Usata in Italia fino al 1861, a Torino corrispondeva a gr. 30,75, a Genova
a gr. 26,4, a Milano a gr. 27,16, a Venezia a gr. 39,75, a Bologna a gr. 30, a Firenze a gr.
28,2, a Napoli a gr. 26,75, a Palermo a gr. 26,4. A Genova quindi 1030 once equivalevano a
kg. 27,192.
18
Il canonico Antonio Michele Urgias trascrive nei suoi scritti la nota delle spese, che
merita di essere conosciuta. Notizie antiche raccolte fedelmente dal Canonico Ant. Michele
Urgias di Alghero 1818, Tomo secondo, ms, Biblioteca Comunale di Sassari, pp. 100-101:
«Ho saputo, che il Pallio di argento fu fatto nel 1715 vivente Monsignor Carnicer, e che
contiene 1030 oncie di argento, ed una quarta; de quibus &. Seppe inoltre il predetto
Canonico sul Pallio suddetto che si eseguì essa spesa essendo Prefetto della Sagristia il
Canonico Nicolò de Sini, e che il valore delle descritte oncie di argento ascese alla somma
di L. 2575. / La fattura in Genova 1050. / L’anima, ossia legno & 65». In Manoscritti e
Memorie per uso privato Del Canonico Antonio Michele Urgias Pensionato di S. M. il Re
di Sardegna 1823, Tomo Quarto, ms, Biblioteca Comunale di Sassari, ff. 66v-67r, si riporta
ancora la lista, tratta da una carta di poco successiva alla data di esecuzione del paliotto,
con le singole voci di spesa: «Frontal de plata, onzas / 1030 ; y un cuarto a escudo. £ 2575.
12. 6. / Hechura 1050. - - / = 3625. 12. 6. / Por la guarnicion de leña. 65. - - / Por la arca de
d.o frontal. 12. - - / Por 58 palmos de tela escurada. 9. 13. 4. / Por 54 palmos de tela. 4. 1. - /
Por 6. libras, y media de algodon 2. 8. 9. / Por cuerdas, y papel de estras. 3. 16. - / Por la
aduana en Genova. 21. 15. - / Por llevar d.a arca al Bastimento. 1. 16. - / Por interès a 20 p.r
ciento. 749. 5. - / Por la mora se ha pagado. 200. - - = £ 4695. 7. 7».
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castrum di Genova sovrastato dal castello e al piede la data [1]715,19
giungeva ad Alghero in quello stesso anno.20
Ma, poiché la spesa aveva superato la somma anticipata, il 27
dicembre il Carnicer domandava al Capitolo –«convocat y congregat a so de
campana ut moris est en la sacristia de aquesta Cathedral–, attraverso il suo
Vicario Generale, canonico Gyrony Mannu, di distrarre la differenza, di
2195 lire, 7 soldi e 5 denari, riservandosi di rifonderla interamente, «per que
se conegui que lo dit frontal es prenda feta de dita sa Señoria Ill.ma». I
canonici aderivano all’unanimità alla sua richiesta, «essent aquesta en tanta
profit y decoro de la Iglesia». Dal messaggio del vescovo, riferito al
Capitolo dal canonico Mannu, apprendiamo quale fosse stata la
sollecitudine del Carnicer per la realizzazione e spedizione ad Alghero
dell’opera, che, giunta avventurosamente in città con il vascello di patron
Ballero, era stata portata nel palazzo vescovile.21
Il paliotto,22 lavorato a sbalzo, cesello e intaglio, è costituito da
diversi elementi saldati fra loro e inchiodati su un sostegno ligneo.
Membrature architettoniche –quattro lesene su cui si sovrappongono,
sorgenti da volute fogliacee, erme angeliche ad altorilievo con le belle teste
quasi a tutto tondo– dividono la movimentata struttura in tre specchiature,
con la centrale di ampiezza doppia rispetto alle laterali. Le specchiature
sono delimitate ciascuna da una cornice ad ovuli, la cui smussatura agli
19
Cfr. Ugo DONATI, I Marchi dell’argenteria italiana. Oltre 1000 marchi territoriali e
di garanzia dal XIII secolo ad oggi, Novara 1993, pp. 173-175.
20
Antonio Michele URGIAS, Manoscritti e Memorie cit., ff. 66v-67r: «Nel 1715 giunge
da Genova un prezioso paliotto in argento, per il quale viene spesa la ragguardevole somma
di 4695 lire, 7 denari e 7 soldi, delle quali ben 2500 devolute dal Vescovo Tommaso
Carnicer».
21
ACapA, Giunta Capitolare, IV, c. 190. Gerolamo Manno riferiva in questi termini il
recado del Carnicer: «Señors VS.a molt bé se arrecorderà que ya alguns temps es que
intenta lo S.r Bisbe fer un frontal de plata per la Cathedral sa esposa, y que per aquest
effecte envia mil escuts a Genova per medij de Patron Bartholome Balero, y havent apretat
tot aquest temps ab lletras perque de una vegada vingues dit frontal, per lo ultim ha volgut
nostra Señora S.ma portarlo en salvament; y ara se troba en lo palau del S.r Bisbe, que vol
envie VS.a per portarlo a la Iglesia, y perque a mes de los mil escuts, y vol ancara altras
2195=07=5= per acabar de pagar lo dit frontal segons la fatura que ha portat dit Patró
Balero, per trobarse lo dit S.r Bisbe molt curt, demana a VS.a que hatga de bistraure
aquesta partida, perque se conegui que lo dit frontal es prenda feta de dita sa Señoria
Ill.ma».
22
Misura frontalmente cm. 283 x 106, lateralmente cm.15 x 106.
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Aldo Sari
spigoli lascia il campo a spampanati tulipani. L’ornato tocca vertici di
eccellenza esecutiva nella lavorazione a giorno degli specchi, con le volute
che circoscrivono, nei riquadri laterali, una cornice liscia, dentro la quale si
svolgono sottili girali, e, nel centrale, lo stemma di mons. Carnicer,
delimitato da un’ulteriore cornice lobata ad ovuli che s’apre in un cartoccio
le cui fantastiche volute dai lembi arrotolati svelano corolle e foglie di
tulipano.
Nel secondo decennio del Settecento, la fabbrica della cattedrale,
protrattasi per alcuni secoli, poteva considerarsi ormai ultimata.
Alghero era stata istituita sede di diocesi da papa Giulio II con la
bolla Aequum reputamus del 26 novembre 1503, venticinquesima domenica
dopo Pentecoste, che aveva reso operante la riforma delle circoscrizioni
ecclesiastiche progettata da Alessandro VI su richiesta di Ferdinando II.23
Promulgato l’8 dicembre di quello stesso anno, un venerdì, festa
dell’Immacolata Concezione di Maria, per felice coincidenza titolare della
parrocchiale algherese, il provvedimento pontificio dava origine alla nuova
più vasta diocesi del Capo di Sopra, e alla quarta dell’isola. Alghero –la cui
sede contrastava con il resto del suo territorio che, attraverso il Montacuto,
il Goceano e il Marghine, si addentrava nella Sardegna centro-settentrionale,
fino all’attuale Nuorese– incorporava infatti gli antichi vescovadi di
Bisarcio, Castra ed Ottana, con 44 parrocchie, cinque più dell’archidiocesi
turritana, di cui diveniva suffraganea.24
La piazzaforte catalana, che era stata elevata a rango di città dal
sovrano nel 150125 anche in funzione del nuovo ruolo che avrebbe dovuto
rivestire nella Chiesa sarda, per molto tempo non ebbe un edificio degno di
23
Damiano FILIA, La Sardegna Cristiana. Storia della Chiesa, II, Sassari 1913, p. 218;
Antonio NUGHES, Alghero. Chiesa e società nel XVI secolo, Alghero 1990, pp. 27-28.
24
Raimondo TURTAS, Storia della Chiesa in Sardegna dalle origini al Duemila, Roma
1999, p. 339.
25
Antonio Michele URGIAS, Manoscritti e Memorie cit., f. 23; cfr. pure Antonio ERA,
Le raccolte di carte specialmente di re aragonesi e spagnoli (1260-1725) esistenti
nell’Archivio del Comune di Alghero, Sassari 1927, pp. 111-112 (reg. I, 300). Però
Giovanni Francesco FARA, In Sardiniae Chorographiam, in Opera, ed. Enzo Cadoni,
Sassari 1992, p. 178, dichiara: «Alguerium[…] fuit postea, anno 1514, Ioanne de Loayasa
episcopo creato, cum effectu civitatis nomine insignitum».
126
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fungere da cattedrale: a tale scopo era stata adattata dapprima la
parrocchiale fondata dai Doria, antichi signori della città.
Solo nel terzo-quarto decennio del secolo si dava inizio, sull’area di
quella, alla fabbrica della nuova sede secondo un impianto solenne e
‘moderno’ esemplato sulle grandi cattedrali catalane, ma di ascendenza
francese, a tre navate con deambulatorio e cappelle radiali, come quelle di
Valencia, Barcellona, Girona, Manresa, Tortosa. Forse per coprire in parte
le spese il vescovo Guglielmo Cassador (1525-1527) riceveva dal pontefice
Clemente VII nel 1526 l’autorizzazione a vendere alcune case di proprietà
della mensa episcopale poste in vico S. Andrea, presso le mura cittadine.26
Nel 1543 i lavori dovevano essere ancora limitati all’area presbiteriale e
lungi dall’essere finiti, se Giovanni Bertram de Ayllon, procuratore del
vescovo Pietro Vaguer (1541-1562), nel Parlamento presieduto dal viceré
Antonio Cardona, aveva domandato in nome del Capitolo algherese che una
porzione del donativo venisse destinata, vista la grande povertà della
diocesi, a concludere la nuova cattedrale o almeno a riparare la vecchia che,
non essendo stata abbattuta, continuava ad essere utilizzata per le funzioni
di culto.27
Quattro anni dopo era certamente ultimato il campanile a canna
ottagona che si eleva sulla cappella centrale del presbiterio. In quella, ancora
nel primo quarto del XIX secolo, era leggibile la data 1547 apposta sul
portaletto della scala d’accesso alla cella campanaria.28 La girola,
incominciata dalla cappella di destra, non doveva però essere del tutto
compiuta, come attesta l’adozione d’una copertura a crociera liscia
nell’ultima cappella a sinistra, secondo modalità estranee al gusto
tardogotico in cui era stata iniziata la chiesa.
Il cantiere proseguiva per gran parte del decennio successivo e,
dopo un’interruzione di qualche lustro, riprendeva con più vigore sotto il
vescovato di monsignor Pietro Pérez del Frago (1566-1572), eletto alla sede
26
Dionigi SCANO, Codice diplomatico delle relazioni fra la Santa Sede e la Sardegna,
Roma 1940, II, doc. CDIX.
27
Archivio di Stato di Cagliari, Antico Archivio Regio, Parlamenti, busta 158; Vittorio
ANGIUS, in Goffredo CASALIS, Dizionario geografico storico-statistico-commerciale degli
Stati di S. M. il Re di Sardegna, XVIII quater, Torino 1856, p. 535.
28
Antonio Michele URGIAS, Manoscritti e Memorie cit., f. 36.
127
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di Alghero il 20 dicembre 1566.29 Qualche anno prima un architetto italiano
o di formazione classicistica –e non ci stupiremmo se si trattasse di uno
degli ingegneri militari presenti in città, Rocco Capellino o Giorgio Palearo
Fratino o suo fratello Jacopo, giunto in Sardegna nella primavera del 1563 e
trattenutovisi per due mesi e mezzo– aveva dato una svolta in chiave
rinascimentale alla costruzione.30
Al momento della nomina di monsignor del Frago, quindi, il giro
presbiteriale dal bel disegno gotico già continuava nelle membrature
classicistiche del nuovo progetto, che contemplava un’ampia aula
longitudinale divisa in tre navate e unita al corpo gotico mediante un vasto
transetto, secondo uno schema tardorinascimentale. Monsignor del Frago,
supponendo che il cantiere potesse concludersi in breve tempo, faceva
abbattere le strutture della vecchia chiesa e trasferiva il Capitolo a S.
Michele.
Nel 1567 gli obrieri della fabbrica della cattedrale vendevano per la
sua prosecuzione un censo di £ 395.5.2 a Angelo di Angelo Carcassona,
mentre Agostino Rocamartí, amministratore della fabbriceria, pagava al
maestro Angelo Iagaracho £ 244.5.4 a saldo del suo lavoro.31
L’ambizioso progetto non trovava però riscontro nelle reali
possibilità finanziarie della città. Sicché si comprendono la durata della
fabbrica e le numerose interruzioni.
Né le donazioni dei particolari, i contributi della Università e le
vendite dei censi da parte dei fabbricieri poterono accelerare la costruzione,
se negli ultimi mesi del 1577 il nuovo vescovo eletto, Andrea Baccallar
(1578-1604), inviava una lettera ai canonici del capitolo nella quale, dopo
aver sottolineato il disagio di celebrare le funzioni religiose nella chiesa di
S. Michele, vecchia e scomoda, ordinava, per affrettare i lavori della nuova
29
Ivi, cc. 35v-36, dove però si legge: «1562. nel tempo del governo di Mons. Frago si
diede principio alla fabbrica della nostra Chiesa Cattedrale./Carlo V nel 1541. visitando
questa Città, orò nell’antica Cattedrale. N.B. Si legge però nei pubblici Stromenti del Not.°
Valenti, che d.a fabbrica era fralle mani fin dagli anni 1554:1555. probabilmente
disegnandosi».
30
Aldo SARI, La riforma delle diocesi e le nuove cattedrali, in Francesca SEGNI
PULVIRENTI – Aldo SARI, [Storia dell’arte in Sardegna] Architettura tardogotica e
d’influssi rinascimentale, Nuoro 1994, p. 119.
31
Antonio Michele URGIAS, Manoscritti e Memorie cit., c. 36.
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Aldo Sari
sede, che si apprestassero calce, pietre e tutto il necessario, affinché si
potesse voltarla, grazie alle rendite dell’anno trascorso e all’aiuto dei
consiglieri della città.32
E proprio l’impossibilità di venire a capo di un’impresa così grande
spingeva negli stessi anni a chiedere un aiuto risolutivo al sovrano. Era
previsto, infatti, che una parte di bilanci approvati dai parlamenti sardi a
favore della Corona fosse riservata alle costruzioni religiose dell’isola.33 Ma
Filippo II, invece del denaro sperato, inviava il 6 dicembre 1579 una lettera
in cui con distaccata indifferenza esortava alla rapida conclusione
dell’opera.34 Al sovrano, che aveva ereditato dal padre con il regno la
difficile soluzione dei problemi mediterranei –primo e più grave quello
relativo alle inveterate incursioni barbaresche accentuatesi dopo la vittoria
cristiana di Lepanto del 7 ottobre 1571, che segnando l’inizio della
decadenza navale turca aveva appunto lasciato libero campo alle azioni
piratesche dei musulmani del Nordafrica, contro cui apparivano vani i
tentativi di difesa– doveva certamente sembrare inopportuna la richiesta di
contributi per la nuova cattedrale da parte dell’Università algherese. Nel
1578, inoltre, aggravandosi la situazione del Mediterraneo occidentale per i
continui attacchi corsari contro le località sarde, era stato nominato un
Visitatore generale per lo studio delle opere difensive la cui realizzazione
avrebbe comportato nuove e pesanti imposizioni fiscali.35
Grazie ad un nuovo concorso straordinario della città e dei privati, i
lavori proseguivano, seppure stentatamente –al disagio finanziario, nel
1582-83, si era aggiunta una grave epidemia che aveva devastato il territorio
e certo influito negativamente sull’attività della fabbrica–, e nei primi mesi
del 1585 il Capitolo decideva che dalla Pasqua di quell’anno le normali
funzioni di culto si svolgessero nella nuova sede, adattando, in attesa della
32
ACapA, Noticias antiguas, ms, I, d. 24
Eduard TODA, Un poble català d’Italia. L’Alguer, Barcellona 1888, p. 47.
34
La Carta reale, già nell’Archivio Storico Comunale di Alghero, fu pubblicata con
lievi varianti da Eduard TODA, Un poble català cit., p. 48, e riportata in Aldo SARI, Genesi
e struttura della Santa Maria di Alghero, in «Nuova Comunità», V, n. 12, 1985, p. 27. La
lezione corretta, desunta da una fotocopia dell’originale fornita dalla professoressa Luisa
D’Arienzo dell’Università di Cagliari, si legge in Aldo SARI, La riforma delle diocesi cit.,
pp. 122-123.
35
Giancarlo SORGIA, La Sardegna spagnola, Sassari 1982, p. 48.
33
129
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Aldo Sari
conclusione dell’opera, una delle cappelle maggiori.36 Ciò in vista della
cessione della chiesa di S. Michele alla Compagnia di Gesù, della quale
erano presenti in città dall’anno precedente tre padri e un fratello laico.
Proprio l’8 febbraio 1585 il Consiglio civico aveva stabilito, su
esortazione del vescovo, di chiedere ufficialmente a Roma l’apertura di un
collegio gesuitico.37 La conferma della ripresa dei lavori è in una lettera che
il padre gesuita Melchiorre di San Giovanni inviava il 20 marzo 1585 ai suoi
superiori di Roma per informarli che la Compagnia sarebbe entrata in
possesso della chiesa di S. Michele quando il Capitolo si fosse trasferito
nella nuova sede, i cui lavori «de nuevo prosiguen».38 Il Registro di
fabbrica, compilato dal 21 aprile 1586 al 16 febbraio 1591, ribadisce la
continuità del cantiere allo scorcio dell’ultimo ventennio del secolo.39
Il 1 febbraio 1590 la Giunta capitolare riunitasi nella sagrestia di S.
Michele deliberava, «per a passar avant en la fabrica», di chiedere ai
Consiglieri della città di accendere un censo di diecimila lire ‘sopra le
refezioni’, estinguibile in dieci anni.40 Qualche giorno dopo, il 6 febbraio, i
Consiglieri municipali risolvevano di ricorrere a un censo di diecimila lire in
moneta corrente ad Alghero da ripartire sulla città e in particolare sopra il
diritto delle mercanzie con una nuova imposta sulle merci di tre denari per
lira per la durata di dieci anni.41 Il vescovo, il Capitolo e alcuni cittadini si
impegnavano a contribuire all’estinzione del censo, sperando così di
concludere l’opera della cattedrale o almeno «posarla de manera que se
puga apportar en ella lo santissim sacrament y celebrar en ella los divinals
officis y servir nos de parrochia dins breu temps y així per la incomoditat
36
Archivum Romanum Societatis Iesu, Sardinia 15, c. 277v; Antonio NUGHES,
Alghero. Chiesa e società nel XVI secolo, Alghero 1990, pp. 83-84, n. 230.
37
Archivum Romanum Societatis Iesu, Fondo Gesuitico 1356, Collegia, busta 2,
cartella 6, doc. 13. Damiano FILIA, La Sardegna Cristiana. Storia della Chiesa, I, Sassari
1909, p. 241, anticipa la delibera al 26 gennaio 1585.
38
Archivum Romanum Societatis Iesu, Sardinia 15, c. 277r.
39
Biblioteca Comunale di Alghero, Registro di fabbrica della cattedrale dal 1586 al
1591, ms.
40
Antonio Michele URGIAS, Manoscritti e Memorie cit., f. 78r.
41
ACapA, Racional, doc. 17; A. SARI, Genesi cit., p. 27; A. SARI, La cattedrale di
Alghero. Cronologia ragionata, in «Nuova Comunità», XI, n. 6-7, 1991, p. 65.
130
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Aldo Sari
que tenim en la iglesia de sant miquel com també per haverla de dexar als
Reverents pares de la Companya de Jesus als quals ses dada dita iglesia».42
Una testimonianza sulla fabbrica algherese, che doveva colpire per
l’imponenza delle strutture già realizzate, era offerta, in quello stesso 1590,
dal Fara, il quale scriveva nel suo In Sardiniae Chorographiam: «Templum
maximum quod, vetere destructo, magnifica construitur fabrica».43
Il 3 settembre 1593 rendendo esecutiva una deliberazione del
Consiglio generale, i Consiglieri accendevano anche un’ipoteca sui proventi
del corallo.44 Per merito di queste ulteriori sovvenzioni la costruzione
dovette procedere abbastanza celermente, se il 18 settembre monsignor
Baccallar poteva impartire nella nuova sede gli ordini sacri,45 che sino a
pochi mesi prima si erano celebrati nelle chiese di S. Michele e di S. Croce,
e in ottobre amministrare le cresime.46
Ciò non significa che la cattedrale, sebbene da allora funzionasse
regolarmente anche come parrocchia, fosse ultimata. Infatti il 9 maggio
1594 il Consiglio generale della città convocato per constatare lo stato dei
lavori decideva di prendere a censo la somma necessaria alla conclusione
della fabbrica, la quale ormai «està que se pot dir ja acabada».47
La chiesa, che manteneva della precedente oltre al sito anche la
dedicazione, aveva pianta basilicale a tre navate con transetto tanto esteso da
trasformare quasi in centrale lo schema longitudinale. Nelle navate minori si
aprivano due cappelle per lato sovrastate da matronei e precedute da un
corpo trasversale, quasi una sorta di secondo transetto. Le forme del
Rinascimento italiano nella sua particolare declinazione manieristica erano
42
ACapA, Racional, Censos y Varias Dependencias con la Ciudad, doc.17; Antonio
Michele URGIAS, Manoscritti e Memorie cit., c. 32: «Nel 1590 il Capitolo d’Alghero, il
Vescovo, ed il Clero hanno dato alla città £3850 pella fabbrica della nuova Cattedrale; e c.
33v: Nel 1590 fu fatta una Giunta dal Capitolo d’Alghero nella Sagristia di S. Michele,
essendo Presidente il Sig. Decano Pietro Paolo Sanna, e furono offerte dieci mila lire, cioè
3850. dal Clero ed il restante dai Particolari di questa Città pello spazio d’anni 10,
provenienti queste lire 10. mila dalle rifazioni, e Regi Donativi &; a favore della nuova
fabbrica della Cattedrale».
43
Giovanni Francesco FARA, In Sardiniae Chorographiam cit., p.178.
44
Aldo SARI, La cattedrale di Alghero cit., p. 65.
45
Archivio Curia Vescovile di Alghero, Liber quartus Registri Ordinationum, cc. 117v.
46
Antonio NUGHES, Alghero. Chiesa cit., p. 86, n. 238.
47
ACapA, Racional Censos cit., d. 7v.
131
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Aldo Sari
sottolineate dalle colonne tuscaniche con entasi pronunciatissima che
diaframmavano con i pilastri cruciformi le navate.
Probabilmente si costruiva allora anche il prospetto,
manieristicamente esemplato su quello ideato nel 1570 dal Vignola per la
chiesa del Gesù a Roma, ma con una curiosa commistione di classicistico e
di goticheggiante, come denunciava il grande rosone sul portale timpanato
fiancheggiato da colonne. Alcuni secoli dopo, nella seconda metà
dell’Ottocento, ad esso, ancora integro e visibile negli anni del vescovado di
mons. Pietro Raffaele Arduino (1843-1863), come attestava un affresco
eseguito in quel periodo per il salone vescovile e andato distrutto nell’ultimo
conflitto mondiale, sarebbe stato addossato, nell’ambito della politica di
abbellimento e ristrutturazione della città, un pronao neoclassico tetrastilo di
rigoroso ordine dorico, disegnato nel 1862 dall’architetto civico Michele
Dessì Magnetti.48
Il cantiere continuò ancora per diversi lustri, come sembra di poter
dedurre dai documenti d’archivio. Nel 1605 il vescovo Nicola Cannavera
(1604-1611) faceva pavimentare le navate laterali e, forse, il transetto. Nel
1616 gli obrieri della cattedrale ricevevano 5000 reali per ordine del
Sovrano dalle rendite maturate durante la vacanza di mons. Lorenzo Nieto
(1613-1621).49
Il 13 settembre 1642 il Consiglio cittadino stabiliva di prendere a
censo sopra il diritto delle mercanzie 10.000 lire sarde, come da una
precedente delibera del 19 dicembre 1638, per «cuoprire la Chiesa
Cattedrale», cioè, assai probabilmente, il transetto e la crociera, che furono
voltati rispettivamente a padiglione e a cupola ottagona su alto tamburo
finestrato. Le navate, come appare anche dall’esame stilistico, erano state
invece voltate allo scorcio del secolo precedente, la maggiore con botte
leggermente ribassata impostata su un cornicione sorretto da grandi mensole
classicistiche e segnata da sottarchi che dividono lo spazio sottostante in
campate, le minori a crociera.
Ancora il 18 maggio del 1693, nel decreto pontificio di nomina
episcopale di Giuseppe di Gesù Maria, un madrileno agostiniano scalzo
48
49
Aldo SARI, La cattedrale di Alghero cit., p. 66.
Antonio Michele URGIAS, Manoscritti e Memorie cit., ff. 33v-34r.
132
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morto prima di raggiungere la sede algherese, si ordinava che una parte dei
frutti della mensa vescovile fosse utilizzata per la riparazione della
cattedrale («quod ecclesiae cathedralis reparationi pro viribus incumbat»).50
Il suo successore, mons. Carnicer, nel cui atto di nomina era ancora
ribadito l’impegno di accomodare la nuova sede, ne abbelliva l’altare
maggiore con il paliotto argenteo di cui si detto.
Ma era con i vescovi Giovanni Battista Lomellini (1726-1729) e
Dionigi Gioacchino Belmont (1729-1732) che l’area presbiteriale assumeva
il volto attuale, anche se l’opera era stata commissionata durante la lunga
vacanza della sede episcopale, che dalla morte del Carnicer si protrasse fino
al 1726. Già nel primo anno di vacanza, nel 1720, probabilmente con le
risorse che da essa provenivano, era affidato al cap mestre Francesco
Delasco l’incarico di sopraelevare il coro e il presbiterio,51 che, spingendosi
in avanti, avrebbe occupato gran parte dello spazio sottostante la cupola.
Il documento più antico relativo al presbiterio è uno strumento del 1
giugno 1581, in cui il picapedrer Joan Calvo, «mestre major de la seu», si
impegnava con i rappresentanti della nazione catalana ad Alghero, i
mercanti Francesco Cathalà e Antioco Fillol, ad eseguire entro due mesi,
con la collaborazione del fratello Giacomo, l’opera in pietra «de la pietat»
per l’altare maggiore della cattedrale.52
Oltre un ventennio dopo mons. Cannavera vi collocava un
Crocifisso ligneo e, il sabato, per il canto dell’Ave Maris Stella, una effigie
della Vergine, la quale finiva poi per trovarvi una sistemazione stabile,
come è attestato in una relazione ad limina del vescovo Vincenzo Agostino
Claveria (1644-1652).53 Il successore di questi, Francesco Boyl (16531655), dotava il presbiterio di un nuovo altare ligneo policromato e dorato,
50
Dionigi SCANO, Codice diplomatico cit., doc. DCLXXXVI.
Antonio Michele URGIAS, Manoscritti e Memorie cit., f. 68r; Antonio SERRA, Le
cappelle della cattedrale di Alghero nelle fonti archivistiche, in «Revista de l’Alguer», VI,
n. 6 (1995), p. 83.
52
Marisa PORCU GAIAS, «Scheda 32», in Aldo SARI, La riforma delle diocesi cit., p.
119.
53
Vedi Antonio SERRA, Le cappelle cit., pp. 82-83, il quale però non mette in relazione
fra loro l’effigie del Cannavera con quella presente sull’altare durante il governo di mons.
Claveria.
51
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Aldo Sari
in cui continuava a trovar posto l’intaglio ligneo della Immacolata
Concezione.
Il retablo, «magnificentissime extructum, ac omni parte
deauratum»,54 nel terzo decennio del secolo seguente, durante la definitiva
ristrutturazione del presbiterio, era trasferito nella cappella del SS.
Sacramento, la prima a destra dell’ingresso principale, di jus patronatus di
don Giovanni de l’Arca. Questi l’aveva acquistato nel 1729 dal capitolo, che
si era riservato, però, le statue dell’Ecce Homo e dell’Immacolata, la quale
ultima, infine, sarebbe stata adattata a fungere forse da Annunciata
nell’omonima cappella del gremio dei sarti e calzolai, dove occupava sino a
qualche anno fa la nicchia centrale del bell’altare marmoreo, realizzato dal
genovese Giacomo Costo fra il 1749 e il 1755.55
L’imponente presbiterio del Delasco era rivestito di marmi
policromi nel 1725 da Giuseppe Massetti, mestre marmoler ligure, cui il
capitolo aveva affidato l’incarico il 7 marzo 1723, per la somma di 4450
scudi.56 Entro il 1727, lo scultore genovese, che aveva bottega a Cagliari,
completava l’arredo presbiteriale con l’esecuzione dell’altare e della
54
Antonio SERRA, Le cappelle cit., p.83.
Antonio Michele URGIAS, Manoscritti e Memorie cit., f. 83r: «La cappella di Marmo
dell’Annunziata in questa chiesa cattedrale fu fatta nel 1749»; Id., Notizie antiche cit., p.
126: «Nel 1749. Mandato per pagare dalla cassa di corallo lire mille a M.° Giacomo Costo
per le due scale di marmo, per cui si ascende al Coro sì per la Cappella delle Nevi, che per
quella di S. Andrea Apostolo nella Cattedrale d’Alghero. Il pred.° Costo nel 1755 travagliò
l’Altare di marmo della cappella della SS. Annunziata in detta Chiesa Cattedrale per un
valore di lire sarde mille».
56
Cfr. Antonio Michele URGIAS, Manoscritti e Memorie cit., f. 68r, dove il prezzo del
presbiterio risulta lievemente inferiore rispetto a quello indicato dal Massetti: «Il solo
Presbiterio di marmi[fu fatto] nel 1725 al prezzo di scudi sardi 4400»; Antonio SERRA, Le
cappelle cit., p. 83-84, dove è riportato, però senza indicare la fonte, l’impegno sottoscritto
dal Massetti di rivestire con marmo e diaspro il presbiterio costruito tre anni prima dal
Delasco: «Confeso io baso firmato di aver ajustato con l’ilustre chapitolo di Santa Maria di
Alghero di fare la sutu nominata opera di marmo e diaspe nela conformità dil disegno
firmato dal sig. vichario. Cioè primo la facata tuto aliturno del prisbiterio diaspiato tuto
lintorno nela conformitàdel disejo con la sua hurniceta di baso e di dalto, più tre scale per
alsare al prisbiterio diaspiate come il disejo, più due lioni che vano suto la scala dinanti, più
dudeci pilastri che sarano diaspiati pe la conformità del desejo, più il rajolamento del
prisbiterio diaspiato che principia dala scalinata del altar majore cua alintorno di dentro di
deta balaustrata come si vede nel disejo, più due piane una dove si pone la sedia del
vescovo laltra dove si siede li chanonici con dozi pesi di pavimento che va in meso de le
piane e laltar majore diaspiate nela conformità del disejo. Di tutta questa opera si obliga il
chapitolo di darmi quatromila quatro cento cinquanta scuti. Et in fede Giusepe Masetti».
55
134
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credenza. Tre anni dopo erano conclusi anche il pulpito, il fonte battesimale
e le due acquasantiere, addossate ai primi pilastri della navata centrale.57 Il
Massetti, inoltre, donava alla cattedrale il rivestimento pavimentale in
ardesia e marmo non compreso nel contratto.58
L’altare, a tarsie marmoree policrome con mensa a cofano
sovrastata da gradini svasati secondo il gusto rococò affermatosi in
Piemonte e a Genova, era strutturalmente e iconograficamente nuovo
nell’isola,59 dove sarebbe divenuto ben presto il modello più diffuso,
malgrado la persistenza, almeno fino alla seconda metà del secolo, dei
monumentali retabli lignei barocchi di tradizione ispanica.
La leggerezza delle sue forme, l’eleganza e l’equilibrio decorativo,
però, apparivano inscindibili dalle belle sculture che lo sovrastavano:
l’Immacolata, due angeli inginocchiati sulle volute laterali e altri due che
fungevano da atlanti al capoaltare. I due angeli telamoni riprendevano, nella
raffinata messa in scena e negli atteggiamenti, le erme sbalzate all’estremità
del paliotto d’argento, eseguito, come si è detto, a Genova nel 1715 per
ordine di mons. Carnicer. Il Massetti dovette tener conto delle caratteristiche
stilistiche dell’arredo argenteo dell’altare, che oltre al paliotto, comprendeva
dossale e gradini, che verosimilmente occupavano l’intera larghezza della
mensa precedente.60 Tuttavia erme angeliche ai capoaltari erano assai
diffuse nelle realizzazioni tardobarocche liguri e piemontesi, come
testimoniano le opere e i progetti giunti fino a noi, dei quali ricordiamo
quello del genovese Domenico Piola (1627-1703) custodito nel
Kunstmuseum di Düsseldorf,61 che rivela anche altre affinità con l’altare
algherese.
57
Antonio Michele URGIAS, Manoscritti e Memorie cit., f. 14v: «Valore de’ marmi
della nostra Cattedrale. 1725. 1727., e 1730. Presbiterio Scudi Sardi 4400. Altar maggiore
& Scudi Sardi 1430. Credenza Scudi Sardi 200. Pulpito Scudi Sardi 800. Fonte Battesimale
Scudi Sardi 250. Le due Pila Scudi Sardi 80. Gradini Laterali & 400; e f. 67v: Marmores de
la Cathedral de Arguer, y su valor &. Presbiterio £ 11125. Cabo de Altar £ 3500. Pulpito £
2000. Fuente Bautismal £ 625. Parador £ 500. Pilas £ 200».
58
Ivi, f. 68r: «Scudi 50 furon dati al Massetti, il quale rigalò li mattoni di pietra lavagna,
e di marmo pel pavimento, il che non era compreso nel contratto».
59
Maria Grazia SCANO, Storia dell’arte cit., p. 283 e ss.
60
ACapA, Giunta Capitolare, IV, 1695-1719, d. 190.
61
Suppellettile ecclesiastica, ed. B. Montevecchi e S. Vasco Rocca, Firenze 1988, p. 36,
fig. 6.
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Non sappiamo se le figure scolpite –cioè la splendida Immacolata
Concezione, gli angeli che la fiancheggiano e gli altorilievi– , siano state
eseguite dallo stesso Giuseppe Massetti, il cui nome nei documenti
d’archivio appare spesso associato a collaboratori, quali Alessandro Frediani
e Pietro Pozzo, un marmoraro genovese domiciliato a Cagliari.62 Maria
Grazia Scano ha avanzato l’ipotesi che l’autore delle sculture possa essere
quel Giacomo Antonio Ponzanelli che nel 1713 firmava e datava due delle
cinque statue collocate nella cripta della basilica di S. Gavino a Porto
Torres.63 Diventa difficile attribuire le opere algheresi all’uno o all’altro
degli scultori liguri attivi in Sardegna nel primo trentennio del XVI secolo o
che, come nel caso del Ponzanelli, vi inviarono la loro produzione. Infatti
sia Giacomo Antonio Ponzanelli, che ne divenne il genero, sia, quasi
certamente, Giuseppe Massetti e Pietro Pozzo si formarono nella bottega di
Filippo Parodi (1630-1702), il maggiore scultore del barocco genovese, dal
quale acquisirono la padronanza tecnica, il modellato vibrante, gli effetti
luministici, le suggestioni della scultura del barocco romano, i nessi con la
pittura –lo schema iconografico dell’Immacolata algherese, affiancata da
due angeli in preghiera, è quello della tela dipinta da Guido Reni intorno al
1627, attualmente conservata al Metropolitan Museum of Art di New York;
la dolcezza dei volti angelici dipende, attraverso il Bernini, dal Correggio.
Ma, se nel Ponzanelli e nel Pozzo l’emulazione degli stilismi del Parodi e la
loro divulgazione conducono ad un’uniformità del linguaggio figurativo,
privo di significativi sviluppi, nell’autore dell’Immacolata della cattedrale di
Alghero, che ci piace credere sia lo stesso Massetti, il magistero del
maestro, preponderante anche dal punto di vista iconografico –pensiamo al
Parodi dell’Immacolata (dopo il 1699), sull’altare maggiore della chiesa di
S. Luca a Genova, e della Vergine col Bambino, nel S. Carlo della stessa
città (1675-1678), dalla quale è ricalcata pure la serena, ideale fisionomia–,
appare assimilato in un linguaggio più personale.
Elegantissimo e sapientemente composto è il pulpito addossato
all’ultimo pilastro di destra della navata centrale, che il Massetti eseguì
subito dopo l’altare. Come quello anch’esso è decorato di marmi policromi
62
63
Maria Grazia SCANO, Storia dell’arte cit., pp. 286-290.
Ivi, pp. 280-281 e scheda 244.
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e presenta agli spigoli del cassone, sulla cui fronte è il pittoricistico
bassorilievo con la predica del Battista, i simboli alati degli evangelisti
atteggiati come gli angeli del paliotto, che erano stati modello anche a quelli
del capoaltare.
La nuova sede, arredata secondo il gusto appena introdotto nell’isola
dove avrebbe avuto grande diffusione, era consacrata solennemente il 26
novembre 1730, ventiseiesima domenica dopo Pentecoste.
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Fig. 1: Alghero, Cattedrale, pianta.
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Fig. 2: Alghero, Cattedrale, Campanile e portale gotico, prima metà del XVI secolo.
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Fig. 3: Alghero, Cattedrale, interno.
Fig. 4: Alghero, Cattedrale, paliotto, 1715.
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Fig. 5: Alghero, Cattedrale, altare maggiore, 1727.
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Durdica Bacciu
GLI SPAZI DEI MORTI NELLA GALLURA POST-MEDIEVALE
L’HABITAT DISPERSO
Durdica Bacciu
(Associazione ArcheOlbia)
La maggior parte degli esploratori arrivati in Sardegna, che sia per interessi
culturali o di lavoro, non curano una descrizione della Gallura profonda e
caratterizzante a meno che renderne un sommario inquadramento. A
tutt’oggi risulta poco o quasi mai approcciata la Gallura rurale con i suoi
ambienti marini, desolati dalla malaria, e quella delle contrade
dell’entroterra create dai contadini/pastori per sfuggire a attacchi saraceni.
Sin dai tempi remoti il territorio gallurese ha avuto popolazione scarsa e
rada probabilmente in primo luogo per le condizioni geografiche e
produttive difficili (Bacciu 2016).1 A parte l’effettiva difficoltà a
comunicare via terra, non è da trascurare la concezione propria posseduta
dalle popolazioni galluresi che porta tuttora a considerare se stessi come
genti non sarde, di diversa etnia, forse cultura ma senz’altro diversa lingua
(Brandanu, 2008). Ma allora ci si chiede cosa ha spinto queste popolazioni
ad andare a dimorare stabilmente in territori soggetti a problematiche
evidenti, lontano dalla comodità e dai centri abitati? Ad onore del vero si
deve ricordare che il processo antropico in Gallura, come si crede in altre
subregioni, alterna due fasi: la prima di contrazione negli insediamenti
dell’entroterra dovuta all’abbandono degli antichi villaggi medievali (Day
1973; Panedda 1978), alle guerre e alle carestie, alle epidemie e alle
scorrerie barbaresche nelle zone costiere (Le Lannou 1979: 183), la seconda
di espansione ed appropriamento del territorio a seguito del passato
pericolo. Anche il Fara, tra il XV e il XVI secolo, classifica le regioni
periferiche della Sardegna, tra cui la Gallura, tra le più desolate dove la
1
Il presente contributo è inteso a illustrare una parte dei risultati e dei dati acquisiti
durante la compilazione della tesi di laurea magistrale; pertanto questa raccolta dati
costituisce un ulteriore passo nella ricerca, ancora in itinere, relativa all’abbandono dei
villaggi medievali e lo sviluppo dell’habitat disperso caratterizzante l’antico Giudicato di
Gallura.
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Durdica Bacciu
popolazione è concentrata tra Aggius, Calangianus, Nuchis, Luras e
Bortigiadas. Questi contesti risultano organizzati alla meglio per
sopravvivere in situazioni di isolamento (Angius/Casalis 2004)2 e povertà
tranne in alcuni casi di eccessiva miseria dove appunto diversi individui si
spingono a cercare fortuna e stabilità nello sfruttamento dell’ambiente
gallurese. Nessun progetto collettivo ma tante azioni individuali e
spontanee3 forse per committenza di gruppi familiari portano
all’edificazione di nuclei monocellulari nelle campagne galluresi o forse alla
riedificazione di antichi edifici abbandonati (Le Lannou 1979: 183). Forse
un uso di una lingua corsa, come testimonia il padre gesuita Francesco
Antonio nel 1561, in alcuni villaggi, ci testimonia una presenza esogena che
crea insediamenti dispersi (Mossa 2011). Possiamo cercare di individuare
un’altra concausa del popolamento rurale negli spostamenti dei gruppi
umani di origine senese e lucchese installatesi per qualche generazione in
Corsica, che attorno al 1650 emigrarono dall’Alta Gallura verso le lande
marittime tra Olbia (Angius/Casalis 2004: 313) e Posada (Brandano 2001).
L’Angius riporta infatti un resoconto delle cussorgie e degli stazzi
terranovesi:
-
La Conraiedda
Rutargia
Càttali
Unchili
Montilìttu
Casteddu
Maladromire
Su Lizu
Lòiri
stazzi 6
stazzi 26
stazzi 9
stazzi 4
stazzi 9
stazzi 10
stazzi 9
stazzi 2
stazzi 124
Il primo flusso migratorio pare a carattere stagionale e legato
prevalentemente alla transumanza, con la creazione di nuclei abitativi
2
«Nelle più cussorgie gli stazzi sono isolati, nelle altre riuniti in vario numero. Gli
angiesi amano star vicini, e qua sono tre famiglie, là cinque, e più in altri luoghi, come in
Badesi, in Villalba e in Conguinas, dove sono riunite circa 20 famiglie. Con simili riunioni
sono vedute in Argustos (regione di Oviddè) Olevà, in Erguri alla falda occidentale del
Monte Nero, in Berchideddu, in Loiri ed Enas (regione di Silvas), e in qualche altro luogo».
3
Osserva Le Lannou: «Nella Nurra la cussorgia è l’atto iniziale della colonizzazione in
Gallura e soltanto un artificio posteriore ad essa».
4
Si riporta qui il resoconto degli stazzi di Terranova in virtù del fatto che il compilatore
di questa tesi risiede nel territorio di Olbia già Terranova.
144
Insula Noa, num. 2/2020
Durdica Bacciu
monocellulari in prossimità delle coste per l’occupazione nel periodo freddo
da novembre a febbraio lungo una direzione montano-costiera.
Successivamente pare che il processo si sia invertito per il maggior
trattenimento vitale nelle zone costiere a clima mite e avviare una tendenza
alla transumanza, sulla direttrice costiera-montana, esclusiva tra maggio e
ottobre (Brandano 2001: 287-288). Doveroso far notare che la storiografia ci
fornisce delle testimonianze ben precise relative al fatto che i transumanti
edificano infatti due stazzi nelle due località dove soggiornano nei diversi
periodi dell’anno (Angius/Casalis 2004: 306). Altra testimonianza che
concorre a formare il quadro del popolamento rurale in Gallura è ricostruita
sulla base degli atti di battesimo e di matrimonio relativi ai registri
parrocchiali della diocesi di Tempio per il primo ventennio del Settecento
dove compaiono diverse registrazioni relative a famiglie di origine corsa
trasferitesi in Sardegna. In un contesto dove l’ambiente è profondamente
legato e frammentato dalla società ademprivile, la Gallura costituisce un
insieme primordiale di proprietà private, individuali e di iniziativa propria,
dove nel contempo agricoltura e allevamento diventano le attività principali,
al contrario di altre realtà dove il popolamento rurale viene formalizzato
attraverso atti pubblici degli organi amministrativi territoriali, facendo
sottintendere una concessione calata dall’alto (Brandanu 1999). Così
possiamo osservare come l’assetto economico e sociale, fondamentalmente
liberale, dello stazzo e della Gallura, sia l’esatto opposto di quello quasi
‘proibizionista’ del sistema feudale. Un’osservazione del territorio gallurese
ci porta a vedere che questa tipologia di insediamento pare compresa tra il
corso del fiume Coghinas a ovest, la catena del Limbara e sud e il Rio
Posada a sud-est. È proprio qui che tra il verde omogeneo delle sugherete,
della macchia e di qualche piana compaiono le chiazze bianche dei
complessi granitici e, in questi, gli stazzi e il loro complesso di tanche e
recinti. La scelta dei contesti probabilmente è legata alla scelta di siti
soleggiati e riparati dai venti dominanti: tramontana, ponente e maestrale
(Fresi 2017)5 ma da un’osservazione del territorio si può asserire con un
buon margine di sicurezza che l’insediamento di uno stazzo è mirato inoltre
5
«I venti dominanti sono da tramontana da maestro e da levante […]. Il levante suol
portar le piogge, il ponente le tempeste» (Angius/Casalis 2004: 155).
145
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Durdica Bacciu
al controllo di una sorgente o corso d’acqua nelle immediate vicinanze
nonché la gestione dei percorsi di avvicinamento ai grossi centri urbani e
delle piane coltivabili. Osservando il contesto ambientale della Gallura
dell’entroterra si vedono i nuclei abitativi quasi affogati tra la vegetazione
dove i trasporti sono difficili e costosi e fatti a dorso di cavallo (Della
Marmora 1860),6 mentre in confronto gli ambienti costieri, con le rispettive
condizioni di scarsa vegetazione, contrappongono piccoli contesti agricoli
con le ingenti masse granitiche circostanti. Poco lontano dal nucleo
abitativo, quasi a costituire un piccolo anello, la presenza di angoli di
coltivato e di terreno lasciato a maggese atti a soddisfare la semplice
economia domestica, mentre le distanze maggiori, boschive e incolte,
all’interno della proprietà sono coperte dal bestiame al pascolo che si spinge
quasi al confine con lo stazzo vicino. Questa è la disposizione
approssimativa di un insediamento che in buona sostanza qui è occupato da
un unico nucleo abitativo. Lo stazzo si presenta come un complesso di terre
e strutture secondo alcuni ricercatori avente una superficie tra i 20 e i 40
ettari (De Filippi 1979: 19; RAS 1978; Le Lannou 1979: 270), mentre altre
definizioni più recenti li classifica come piccoli tra i 60 e 100ha, 150-200ha
quelli medi, 300-500ha quelli più vasti (Brandano 2011: 290).7 In origine
6
«Dentro la Gallura non è alcun ponte, e non se ne vedono neppure le rovine, sebbene
sia certo che quando le antiche strade erano in buono stato, vene fossero almeno sull’Olbio,
sull’Unale e sul Carana […]. La Gallura ha bisogno per lo meno di tre ponti, uno sul Termo
per la corrispondenza col Logudoro, l’altro sull’Olbio pel commercio coi dipartimenti
orientali, e il terzo sul Carana nell’Iscia per le comunicazioni delle genti d’una parte con
quelle dell’altra» (Angius/Casalis 2004: 340); «Tempio e i suoi dintorni sono ancora oggi
così tagliati fuori che una diligenza non vi è potuta ancora penetrare dal di fuori» (Le
Lannou 1979: 47).
7
«Gli stazzi costituiscono delle aziende agro-pastorali con una attività autonoma, che
impegna tutto il nucleo familiare. Essi sono di estensione variabili: pochissimi sono i
grandi, al di sopra dei 100 ettari. Più frequenti sono, invece, quelli che vanno dai 10 agli 80
ettari. Quello più comune è dai 20 ai 40 ettari. Quest’ultimo è anche il più interessante dal
punto di vista storico perché condotto direttamente dal suo proprietario. Gli stazzi più estesi
invece, sono condotti da mezzadri, e si propongono soprattutto per l’allevamento,
riservando pochissimi spazi alle coltivazioni. In generale, la mano d’opera familiare
risponde a tutte le esigenze lavorative. Il proprietario e il mezzadro non ricorrono mai a
manovalanze esterne, tranne che nel periodo dei lavori più urgenti e più grossi, come la
vendemmia, la tosatura e la mietitura; operazioni che richiedono sempre la collaborazione
di più persone e momenti di convivialità condivisa. In questo caso il pastore gallurese si
avvale dell’aiuto del vicino di stazzo e degli amici, che saranno contraccambiati quando se
ne presenterà l’occasione. Cosi, grazie a questo sistema di aiuti, la mano d’opera del
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Durdica Bacciu
l’habitat disperso era frammentato in pochi possedimenti dai confini incerti;
a seguito dell’arrivo di nuovi coloni, che siano corsi o di varie provenienze,
le superfici di pertinenza sono fissate da confini ben precisi e riconosciuti
dove le superfici più frequenti si attestano tra i 20 e i 40ha. Tale
frazionamento operato dalle sentenze dell’amministrazione statale e dalla
famosa legge delle chiudende8 generava una contrazione delle terre
rivendicate dagli antichi proprietari (Le Lannou 1979: 270). Osservando
l’agro attorno agli stazzi possiamo ancora cogliere questi accadimenti in
quanto ancora si conservano suddivisioni e tancati e muricci realizzati in
antico. All’interno dell’habitat disperso non può mancare la chiesa
campestre: in cima ad un monte, in riva ad un fiume oppure in prossimità
del mare, isolata in un fondo valle oppure sul bordo di un precipizio, oppure
isolata e apparentemente solitaria se collocata in un pianoro (Columbano
Rum 1988). In un primo tempo la chiesa può sembrare campestre ed isolata,
ma un’osservazione attenta del terreno ci mostra che fa parte di un sistema
ben preciso ed è attorniata, seppur ad una certa distanza, da nuclei abitativi.
Quando questa si presenta lontano dai centri abitati (Nostra Signora di Cabu
Abbas – Olbia) e isolata da elementi geografici quali monti oppure fiumi di
una certa portata, vige la necessità di costituire un cimitero al fine di servire
le strutture abitative del circondario. Ci si trova quindi al centro di una
cussorgia o cussogghja. La solitudine dello stazzo, l’isolamento dato dalla
dispersione trovano il giusto equilibrio attraverso l’aggregazione e la
socializzazione nelle chiese campestri durante le celebrazioni liturgiche
legate all’ambiente agropastorale o in occasioni meno gioiose quali i riti
funebri relativi alla popolazione degli stazzi.
La cussogghja consiste in un raggruppamento-circoscrizione di
stazzi all’interno di un determinato territorio, dove lo Stato cerca di imporre
le sue leggi, ma con scarso successo, attraverso un capu cussugghjàli, figura
di rappresentanza tra i pastori e lo Stato. Questo incarico è soppresso con la
contadino e della propria moglie, integrata da quella di altri membri della famiglia è
sufficiente per tutte le operazioni che concernano la coltivazione dello stazzo medio» (RAS
1978: 43-44).
8
Regio editto sopra le chiudende, sopra i terreni comuni e della Corona, e sopra i
tabacchi, nel Regno di Sardegna. Fu un provvedimento del 6 ottobre 1820 fatto dal Re di
Sardegna Vittorio Emanuele I e reso pubblico nel 1823.
147
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nascita dello Stato Italiano, ma per usi e consuetudini si continua ad
eleggere una figura super partes all’interno del sistema che rappresenti le
problematiche o le richieste alle autorità preposte. La giustizia, all’interno
del sistema degli stazzi, viene gestita da un tribunale peculiare denominato
rasgioni pasturina composto da persone scelte per riconosciuta saggezza ed
onestà. Li rasgiunanti è la figura che sentenzia nelle controversie che
accorrono tra i componenti della cussorgia (Chessa 2008).
Un elemento chiaramente slegato dal contesto dello stazzo in sé ma
chiaramente legato al sistema antropico degli stazzi e delle cussorgie è
costituito dalla chiesa rurale gallurese, che assolve a diverse funzioni: da
quella religiosa in senso stretto a quella amministrativa attraverso i registri
delle nascite e delle morti, degli abitanti la cussorgia; ed infine vi
convengono pastori e i contadini della cussorgia per assumere decisioni
importanti per la comunità, per risolvere controversie, celebrare le paci e
porre fine alle faide (Brandanu 1999: 87). La situazione polifunzionale delle
chiese campestri galluresi delle cussorgie trova stringenti confronti con il
sistema delle pievi, in quanto anche queste si presentano costituite da chiese,
sono il nucleo dell’organizzazione ecclesiastica rurale e oltre al governo
delle anime assolvevano funzioni civili e amministrative.9 Si suppone che il
sistema delle pievi non fosse estraneo alla Sardegna in quanto diversi
riferimenti (Casula 1981; Loi 1981) in merito sono stati casi di studi e
conferenze e oltre tutto qualche flebile traccia permane nella toponomastica.
Il campione portato ad esempio è denominato Monte Plebi ed è sito nel
comune di Olbia; potrebbe essere solo una coincidenza linguistica, ma
l’osservazione del territorio mostra un quadro costruttivo composto di una
chiesa riconducibile al XIV secolo intitolata a San Vittore, collocata in una
tanca dichiarata da Taramelli (1993: 584, n. 76-78) e risultante nelle Carte
9
https://www.storiadellachiesa.it/glossary/pieve-e-la-chiesa-in-italia/?print=pdf: «Questa
organizzazione fu tipica nell’alto medioevo sino all’undicesimo secolo, quando erano in
essere i sistemi abitativi e gestionali delle curtes e dei fundi, nei quali le grandi proprietà
fondiarie erano spesso non compatte e in cui la principale forma di insediamento nelle
campagne era ancora l’habitat disperso così, la pieve funzionava come centro di raccordo e
di raccolta di una popolazione che sparpagliata in villaggi e case isolate vi confluiva per i
ricevere il battesimo. Per questa ragione l’edificio si trova principalmente sulle più
importanti vie di comunicazione, vicino ai fiumi e nel fondovalle»; Pierpaolo BONACINI,
s.v. «Pieve», in Grande Dizionario Enciclopedico, XV, UTET, Torino 1994 p. 955.
148
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Durdica Bacciu
Terranova Pausania edizione archeologica della Carta d’Italia al 100000,
con due tratti stradali romani, un ponte e varie rovine, circondata da una
cussorgia di stazzi.
La tipologia edilizia delle chiese campestri galluresi è la medesima
impiegata per il costrutto abitativo: forma rettangolare, mono-navata,
murature in cantonetti di granito o pietrame di scisto, legato con malta e
fango, la cui antichità è ancora oggetto di valutazione dato che per alcune
sussistono numerosi elementi di natura medievale e se ne attestano
ricostruzioni nel XVII secolo (Santo Stefano, San Pietro, San Salvatore in
Luogosanto) in prossimità di siti già citati in documenti di età medievale
(Pinna 2016). Il tetto è costituito a doppio spiovente con lunghe travi di
ginepro sotto l’intreccio di canne poste perpendicolari, il tutto sovrastato da
coppi sardi. L’ambiente interno si presenta senza ornamenti particolari,
senza arredi ad esclusione dell’altare, della nicchia del santo e delle
acquasantiere a parete realizzate in ceramiche smaltata, i primi contrapposti
all’ingresso principale aperto nel lato corto, le ultime generalmente poste sui
lati lunghi dove si aprono due ingressi minori. La pavimentazione, in origine
in terra battuta ad eccezione del presbiterio, si presenta in lastre di pietra e
mattonelle. Ciò che differenzia la chiesa campestre da una struttura abitativa
rurale è la presenza di un campanile a vela che sovrasta l’ingresso posto sul
lato corto o fianco e soprattutto la presenza della croce sul campanile o al
centro dello spiovente. Completa il quadro rurale la presenza del cimitero,
per quei contesti in cui non si poteva raggiungere facilmente il centro
abitato, sia attiguo alla chiesa che sotto forma di cripta funeraria o fossa
comune (lòsa)10 dentro l’aula stessa. In tali casi possiamo osservare la
presenza di un cimitero esterno e individuare, all’interno dell’aula
ecclesiastica, le botole per accedere alla cripta funeraria. La deposizione
nella cripta avviene tramite calata del corpo avvolto in un sudario, alcune
volte anche utilizzata per far scomparire qualche personaggio scomodo
ucciso (Brandanu 1999: 88). La posizione della losa per l’accesso alla cripta
funeraria è tendenzialmente a sinistra di chi entra, all’altezza della porta
10
«Non si sono finora formati, in Tempio, in Aggius e in Calangianus si fabbricò più
volte la cinta delle sepolture pubbliche, e altrettanto fu rovesciata. A tempiesi non piaceva il
sito, agli altri lo starsene morti fuori della chiesa» (Angius/Casalis 2004: V, 278).
149
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laterale. A tale regola fanno eccezione Santu Jaccu di Sant’Antonio di
Gallura, dove si trova invece alla destra di chi entra, sempre in prossimità
della porta laterale, e di San Bachisio di Telti che ne testimonia due: una
centrale e ampia, l’altra più piccola a sinistra in prossimità dell’ingresso
laterale per i bimbi non battezzati (Columbano-Pirina 2000). A sottolineare
questa tendenza tipica gallurese di tumulare sin dai tempi antichi sotto il
pavimento delle chiese, si può citare il rinvenimento, a seguito di opere di
restauro, di cinque sepolture di individui adulti sotto la chiesa di
Sant’Andrea di Sant’Antonio di Gallura.11 Tale rinvenimento, operato nel
1995, ci indica, attraverso la letteratura, che questa pratica funeraria forse
trova radici nel Tardo Medioevo, dato che tra il 1360 e il 1380 avviene
l’estinzione del villaggio di Villa di Castro a cui la chiesa asserviva. Il
resoconto di scavo riporta: «Individui adulti, orientati con il capo rivolto a
sud ovest, disposti supini, le gambe stese parallele e le braccia incrociate
sulla vita. Un unico individuo presentava il braccio destro steso parallelo al
corpo e quello sinistro piegato sulla vita. Lo stesso individuo recava un
anello forse di rame al dito anulare della mano destra e, in bocca, una
moneta illeggibile»; «Una sepoltura ha restituito due minuscoli cerchielli in
metallo, probabilmente asole, e un’altra due bottoncini sferici con
appiccagnolo, presumibilmente in argento» (Sanciu 1996). Un’altra
importante testimonianza ci viene fornita da Francesco De Rosa (2003):
«Fino al 1835 i morti si seppellivano nella parrocchia di San Paolo
(Terranova oggi Olbia); i sacerdoti nelle cripte del presbiterio, i Putzu in
quella della cappella della Vergine delle Grazie; gli Usai e i De-Sara o
Azara in quella di San Giovanni Battista, i De-Rosa in quella di
Sant’Agostino; i Lupacciolu e gli Spano in quella del Purgatorio; i
Bardanzellu e i Brandanu in quella del Cristo resuscitato; i De-Jana e i DeCortes in quella del Rosario; i De-Thori i Giua o Jua, gli Spensatellu i DeSerra, gli Asteghene, i Careddu, i Tamponi e i Farina nella cripta esistente in
mezzo alla chiesa». Passano i tempi e qualche usanza viene a cambiare: «La
regola di non seppellire mai il cadavere con indosso o nella bara, oggetti di
metallo oro e argento compresi» (Mulas 1990) La losa viene così descritta:
11
https://www.comune.santantoniodigallura.ot.it/it/contenuti/articoli/dettagli/279/ .
150
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Durdica Bacciu
«Piccolo vano, specie di cripta al centro e sotto il pavimento di tutte le
chiese, che esisteva prima di mettere in funzione lu chjappittu; il suo
accesso avveniva tramite una scala a pioli, messa verticalmente, e un
coperchio di legno di ginepro ne chiudeva al meglio l’apertura. Mi
raccontava un vecchio, per averlo appreso dal padre che aveva conosciuto la
losa nell’antica chiesetta di San Pantaleo, che i cadaveri vi erano accatastati
l’uno sull’altro, alla meglio, senza cassa. Sotto il coperchio che chiudeva
l’accesso al vano, nel tentativo di attenuare il fetore che saliva dalla losa
come guarnizione si applicava una specie di anello fatto di rami di cisto ben
pressati» (Cucciari 1985). Ai giorni nostri, passata in disuso da quasi mezzo
secolo l’abitudine di tumulare nella cripta, questa appare murata, ma
comunque intuibile tramite un avvallamento o dei simboli impressi nel
pavimento, o ancora tramite il rimbombo generato dal vuoto nel piano di
calpestio, tutti elementi che ne indicano con precisione la posizione nel
sottosuolo. Queste due varianti per la tumulazione, ossia l’uso del cimitero o
ancora della cripta, sinora trovano stringente testimonianza nella Chiesa di
Nostra Signora di Cabu Abbas ad Olbia, nella Chiesa di Santu Ghjuanni
d’Alzachena, ancora nella chiesa di Santu Bachis di Telti e in Santu Jaccu di
Sant’Antonio di Gallura. La decomposizione dei defunti genera dei
problemi sanitari e di igiene, così si preferisce edificare una struttura attigua
alla chiesa denominata lu chjappittu.12 Probabilmente un cambio ideologico
nel trattamento dei defunti spinge la popolazione all’abbandono di
quest’ultimo ambiente o impiego dello stesso per altre funzioni non inerenti
la sepoltura. Nel caso di lu chjappittu di Santu Micali d’Alzachena, se ne
testimonia la distruzione nel 1958 dopo la costruzione dell’attuale cimitero
attiguo alla chiesa, mentre per quello relativo alla chiesa di Santu Jaccu di
Sant’Antonio di Gallura (addossato alla cinta muraria cimiteriale) e Santu
Bachis di Telti (poco lontano dall’ingresso della chiesa) se ne attesta
l’attuale esistenza ma l’impiego originario non è più svolto. Lu chjappittu
viene descritto come: «Presso le chiesette di campagna era così chiamata
12
«Lu chjappittu, uno scantinato in cui due pareti opposte erano collegate da grosse
travi di ginepro su cui venivano appoggiate le bare. Vi si accedeva da una scala anch’essa
di legno. Era stato chiuso nel 1895. Gli ultimi ad esservi sepolti, a distanza di 24 ore l’uno
dall’altro, erano stati Giovanni Maria Pinducciu e il suo figlioletto, nato lo stesso giorno in
cui il padre era deceduto» (Columbano-Pirina 2000: 147).
151
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una casetta piccola e bassa, specie di capanna, costruita con pietra raccolta e
malta di fango, priva di finestre. In questi chjappitti, prima che esistessero i
cimiteri, erano accatastati i cadaveri naturalmente senza cassa; la porta era
chiusa con un chiavistello esterno. Questo piccolo vano era adiacente alla
stessa chiesetta oppure a qualche metro di distanza» (Cossu 1974; Cucciari
1985: 66). Un esempio stringente di questa tipologia lo si ritrova nel
complesso campestre denominato Scupetu di Santu Santinu, costituito tra
l’altro da una chiesa rupestre riconducibile ad un eremo di epoca medievale
(Masia 1996). La fonte riporta la presenza del chjappittu nella parte postica
realizzato con una strettoia tra la roccia sovrastante la chiesa rupestre e
l’interno della chiesa stessa. Tale ambiente viene ricordato dal parroco di
Sant’Antonio di Gallura come lu ciappittu e le indagini hanno rivelato
inoltre la presenza di quattro tombe ricavate nella roccia, i muri perimetrali
presentano tracce di intonaco.
Una testimonianza significante nella ricerca ci viene dal complesso
campestre di Santu Jaccu di Sant’Antonio di Gallura, dove sino agli anni
cinquanta del millenovecento, un edificio attiguo alle mura cimiteriali, era
utilizzato come ossario. Trattasi chiaramente di un chjappittu dove le
testimonianze riportano che nel momento di compilazione del testo
(Campus 1996) l’edificio residua ancora con una parte del tetto. L’assenza
di copertura permette di notare la presenza di ossa, fuoriuscite dalle bare
ormai marcite, di cadaveri abbigliati con gli indumenti con cui sono stati
sepolti. Un chjappittu di dimensioni considerevoli se non eccezionali è
quello edificato in Olbia a pochissime centinaia di metri dalla Basilica
minore di San Simplicio, conosciuto con l’appellativo di cimitero vecchio o
antico. Non si conosce il momento in cui venne edificato, probabilmente a
seguito del Decreto di Saint Cloud, venne utilizzato, secondo i registri dei
defunti, a partire dal 1835 e si colloca nella collinetta denominata di via
Fera composto da tre navate delimitate da archi e probabilmente con il tetto
in travatura di legno. In merito all’uso di questa struttura troviamo
testimonianza, successivamente al 1848, nel Dizionario Angius/Casalis, che
afferma: «Non essendosi ancora formato il camposanto, i cadaveri sono
152
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sepolti nel cimitero antico con frequente contaminazione dell’aria».13 Si è
sottolineato il dubbio sul momento costruttivo in quanto l’edificio era già
considerato antico per il primo decennio di effettivo impiego. Questo fa
supporre che la sua costruzione fosse di gran lunga antecedente all’impiego,
avvenuto già tardi e per necessità di forza maggiore, a causa della nota
avversità dei galluresi a farsi tumulare in ambienti estranei alle chiese,
avversità che scatenò non pochi episodi violenti sfociati nella distruzione
degli edifici non graditi.
La particolarità della struttura, interamente in granito e avente forma
di chiesa pur non essendolo affatto, consta nella presenza di due cripte, con
volte a botte, collocate sotto le navate laterali.14
Fig. 1. Santu Bachis – Lu chjappittu – Telti
13
Angius/Casalis 2004: XII, 22, s.v. «Terranova».
https://www.lanuovasardegna.it/olbia/cronaca/2015/06/14/news/il-vecchio-cimiterodi-san-simplicio-verso-il-recupero-1.11617184 .
14
153
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Fig. 2. Santu Bachis – Telti
154
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MOSSA Q., Sulla lingua gallurese, in Notiziario di Aggius, IX (luglio-agosto 2011).
155
Insula Noa, num. 2/2020
Durdica Bacciu
MULAS A., Quando viene la memoria… Credenze e rituali funebri della cultura popolare
della Gallura (Sardegna), Arnaldo Forni Editore, Bologna 1990.
PANEDDA Dionigi, Il Giudicato di Gallura. Curatorie e centri abitati, Sassari 1978.
PINNA F., Le indagini archeologiche nel sito del Palazzo di Baldu (Luogosanto) e il loro
contributo alla conoscenza della Gallura medievale, in Temporis Signa Archeologia della
Tarda Antichità e del Medioevo, X (2015), Fondazione Centro Italiano di Studi sull’Alto
Medioevo, Spoleto 2016.
R.A.S., La programmazione in Sardegna, 43-44, Studi Ricerche e Notizie di pianificazione
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SANCIU A., Sant’Antonio di Gallura, in Archeologia medievale, XXIII (1996), All’Insegna
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TARAMELLI A., Carte Archeologiche della Sardegna, Carlo Delfino Editore, Sassari 1993.
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Insula Noa, num. 2/2020
Salvatore Pinna
P. JERÓNIMO MINUTILI DI BENETUTTI
MISSIONARIO GESUITA ESPONENTE DI UNA FAMIGLIA NAPOLETANA
TRAPIANTATA IN SARDEGNA NEL XV SECOLO
Salvatore Pinna Soru
(Arxiu de Tradicions)
Introduzione
Da tempo ho sviluppato la convinzione che la storiografia sarda abbia
spesso difficoltà a uscire dai limiti regionali per approfondire e descrivere
avvenimenti che coinvolgono uomini e donne sardi in luoghi lontani dalla
loro isola, specialmente in epoche non recenti. Può darsi che questa
limitazione sia impulsata, in certi casi, da una sorta di complesso di
inferiorità tipico di noi sardi, nel considerarci privi delle possibilità, o
persino delle potenzialità, concesse invece ad altri luoghi del mondo,
considerati più fortunati o ‘meno isolati’. D’altra parte, invece, si deve
considerare che fino a poco tempo fa, quando internet non era ancora uno
strumento universalmente accessibile, e limitato nelle sue potenzialità più
interessanti per il lavoro dello storico (ossia, la digitalizzazione di testi
antichi e/o rari, e documenti di archivio), la ricostruzione delle vicende dei
sardi partiti lontano, specialmente in epoca passata, era assai difficoltosa e
costosa, se non addirittura impossibilitata in partenza a causa del non poter
neppure essere al corrente di certi avvenimenti, magari pubblicati solo
all’estero e in edizioni rare e poco diffuse.
Questa limitazione ‘fisica’ oggi si è allentata, offrendo tanto allo
storico di professione quanto al ricercatore appassionato la possibilità di
aprirsi verso un mondo ancora poco o nulla esplorato, potendo così spaziare
in direzioni e filoni di ricerca totalmente nuovi e stimolanti.
Nel mio caso, ho inaugurato questo filone con l’obiettivo di
ricostruire la vita di miei concittadini illustri o resisi famosi in negativo: nel
primo caso ricade fra Bonaventura di Sardegna, al secolo Antonio Angelo
Pirella Chessa (Nuoro, 1608 – M’banza Kongo, 1649), missionario
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Salvatore Pinna
cappuccino co-autore del primo dizionario kikongo della storia,1 e nel
secondo Gavino Penducho Carta (Nuoro, 1588 – Madrid, 1652), alto
funzionario alla corte di Felipe IV che si macchiò del crimine di mandante
di omicidio verso un suo rivale in amore.2
La scoperta delle vicende del gesuita Jerónimo Minutili, missionario
nella California messicana a inizio XVIII secolo, invece, nasce per puro caso,
essendomi imbattuto nel suo nome mentre conducevo alcune ricerche
relativamente alla sua famiglia, legata comunque a Nuoro. La casualità di
questo incontro, è per me motivo in più per voler ridare voce a un sardo
illustre sconosciuto nella sua isola natale.
La famiglia Minutili: le origini napoletane e il ramo sardo
In occasione della mia ricerca sulla famiglia Pirella (oggi Piredda) di
Nuoro3, scoprii che essa si era ramificata così tanto da inglobare, in un
unico, grande casato, praticamente tutte le casate di prinzipales del paese,
includendo –con mia grande sorpresa dell’epoca– anche quella dei Minutili,
di cui avevo sempre sentito parlare ma che sembrava non aver lasciato
tracce documentali.
Le origini di questo lignaggio napoletano trapiantato nell’Isola,
secondo la tradizione, all’inizio del XV secolo, sarebbero da ricercare nei
Capece di Napoli, un’antichissima stirpe nobiliare titolare del ducato di San
Valentino, del marchesato di Bugnano e del ducato di Sasso.
I Capece furono fondatori del duomo di Napoli, dove ancora esiste la
cappella di famiglia, intitolata a San Gennaro (Fig. 1).
1
Salvatore PINNA, I Pirella. Origine e ascesa di una famiglia della Nuoro feudale.
Poggibonsi: 13Lab Editions, 2018.
2
Salvatore PINNA, Gavino Penducho Carta: ministro di Felipe IV, Indipendently
publisher, 2019.
3
Salvatore PINNA, I Pirella, cit.
158
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Salvatore Pinna
Fig. 1: Cappella dei Minutili nel duomo di Napoli.
Fonte: Wikimedia Commons
Al cognome Capece, nel corso dei secoli, i vari esponenti del casato
ne affiancarono altri, fra cui «Minutolo», che la leggenda vuole derivato
dalla bassa statura.4 Questa associazione è attestata già nel XIII secolo, come
4
Vittorio PRUNAS-TOLA, I Privilegi di Stamento Militare nelle famiglie Sarde. Torino:
Ghirardi, 1933, p. 302.
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Salvatore Pinna
si evince dall’iscrizione incisa nel paliotto dell’altare della suddetta
cappella, fatta realizzare dal Cardinale Filippo Minutolo (? – 1301):
+ PHILIPPUS ARCHIEPISCOPUS
FILIUS DOMINI LANDOLFI CAPICE DICTI MINUTULI
ME POSUIT.
Lo stemma delle due famiglie è un leone: quello dei Minutili, nello
specifico, è descritto come “Di rosso al leone rampante di vaio” (Fig. 2).
Fig. 2: Stemma delle famiglie Minutolo e Capece. Fonte: Angelo Maria da Bologna, Ms. Araldo nel quale si
vedono delineate e colorite le armi de' potentati e sovrani d'Europa…, Biblioteca Estense Universitaria,
gamma.i.2.23 = cam.766, f.60.
Il cognome è attestato documentalmente in Sardegna a partire dal
XVI secolo, quando l’imperatore Carlo V concesse a Francesco Minutulo il
cavalierato e la nobiltà ereditari. Una copia della concessione, firmata a
Bruxelles il 16 dicembre 1555, è inclusa nel volume degli atti parlamentari
delle corti del viceré Camarassa.5 In essa si legge:
dilecti Francisci Minutuli […] ab antiqua et nobili Minutulorum prosapia
sedilis capuane, fidelissime civitatis Neapolis originem trahan […]. Nos vero
huiusmodi probatione in nostro Sacro Supremo Conçilio penes nos adsistenti
recognita et examinata plene que nobis constito ipsum Franciscum
Minutulum, a nobilis Minutulorum prosapia in dicto anterioris Siciliis regno
vitam degentium originem trahere […].
5
ASC, AAR, Parlamento Camarassa, c. 1090r.
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Salvatore Pinna
Francesco fu ammesso alle corti parlamentari del 1558, dai cui atti
risulta residente a Bolotana.6 In diversi parlamenti successivi, molti membri
della famiglia richiesero l’ammissione ai lavori delle corti cercando di
dimostrare la diretta discendenza dal cavaliere, che si convertì così in un
personaggio dall’alone quasi leggendario. Come spesso accadeva, queste
genealogie (basate più su ricordi che su documenti, e corroborate da
testimonianze di anziani che, sotto giuramento, dichiaravano di sapere
direttamente le questioni su cui si indagava, o di aver conosciuto alcuni
personaggi che, a loro volta, avevano ascoltato racconti dai loro padri o
nonni. Non sempre queste testimonianze erano genuine, spesso per via di
omonimie fra gli antenati, usate non di rado in modo malizioso per ‘far
tornare i conti’. L’incrocio dei dati fra diverse corti permette di emendare a
questi errori.
Il ramo di Nuoro
Una genealogia parziale, relativa al ramo nuorese della famiglia, si trova nei
verbali delle Corti Camarassa. Si tratta di un piccolo albero genealogico,
seguito da testimonianze e documenti a supporto (atti di battesimo,
testamenti, procure, etc.) presentato dai fratelli Giovanni Antonio, Gavino e
Pietro Paolo Nieddu De Minutili, i quali negli anni successivi verranno
rifiutati e poi nuovamente ammessi ai parlamenti, per via della
contestazione di nobiltà, non trasmissibile da parte di madre. Alla c. 1050r,
si legge:
Exc[elentisi]mo Señor V[irre]y y C[apitá]n G[enera]l y P[residen]te en el
G[enera]l Parlam[en]to.
Don Juan Ant[oni]o, Don Gavino, y don Pedro Pablo de Minutuli, y Nieddu
vezinos de la v[ill]a de Nuoro, diçen q[ue] para q[ue] con mayor cauthela, y
salvedad se pueda reçibir la información por V[uestra] Ex[celenci]a mandada
proveher en memorial de los diez, y nueve del corriente pone lo sig[uien]tes
6
ASC, AAR, Parlamento Madrigal, c. 121r. Durante la sua vita, il nobile visse in
diverse parti dell’Isola. Nel 1569 risiedeva a Mores, dove fu arrestato dall’Inquisitore
Alfonso de Lorca per bigamia: egli aveva infatti contratto matrimonio sia in quel villaggio,
sia a Bosa. Cfr. Salvatore LOI, Inquisizione, sessualità e matrimonio. Sardegna secoli XVI–
XVII, AM&D, Cagliari 2006, p. 282.
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articulos con las acostumbradas salvedades, non se abstuingens salvo jure
adendi
P[rimer]o ponit q[ue] don Juan Ant[oni]o, don Gavino, y don Pedro Pablo de
Minutuli, y Nieddu de la v[ill]a de Nuoro son hijos legitimos, y nat[ura]les de
doña Maria Josepa de Minutuli, y de Pedro Pablo Nieddu.
2 ponit q[ue] la dicha doá Maria Josepa de Minutuli es hija legitima y
nat[ura]l del q[uonda]m don Gavino de Minutuli, y de la q[uonda]m doña
Mariangela Marque, y Pirella7, assi bien de la v[ill]a de Nuoro.
3 ponit q[ue] el dicho don Gavino de Minutuli es hijo legitimo y nat[ura]l del
q[uonda]m don Antonio de Minutuli y de donna Theodora Pirella de la dicha
v[ill]a de Nuoro.
4 ponit q[ue] el dicho don Antonio de Minutili es hijo legitimo y nat[ura]l del
q[uondam] don Fran[cisc]o de Minutili de la v[ill]a de Ossieri, y Moras
descendiente q[ue] es el que obtubo la m[e]r[ce]d.
Ultimo pro nunc ponit q[ue] toda las referidas cosas son publicas, y notoria, y
de cada qual de aquellas es publica vos y fama.
Successivamente, sono riportate le testimonianze di cinque nuoresi.8
A seguire, nell’ordine, compaiono: l’ammissione alle Corti del 1624 di don
Antonio di Minutili e di suo figlio don Gavino de Minutili Pirella, e le
trascrizioni giurate degli atti (in sardo) di battesimo e di cresima dei tre
pretendenti.
La genealogia potrebbe apparire genuina, se non fosse che nel
parlamento 1583 si trovano ammessi «lo noble don Angel Minutulo, lo
noble don Andreu Minutulo, lo noble don Anton Minutulo, fills del dit don
Angel».9 Che l’Antonio qui citato sia il capostipite del ramo nuorese, lo si
evince dai parlamenti successivi: nelle corti del viceré D’Aytona venne
ammesso con diritto di voto, tuttavia dichiarò di essere impossibilitato a
partecipare ai lavori in quanto in procinto di partire per Nuoro, dove
certamente sarebbe rimasto bloccato dalle intemperie della stagione estiva,
nominando così un procuratore.10 Allo stesso parlamento, risulta convocato
anche don Andrea.11 Nel parlamento d’Elda (1603), don Antonio risulta
7
Sorella di Juan María Marqui Pirella, auditor de guerra nel Ducato di Milano, pretore
di Tortona, giudice della Reale Udienza di Sardegna e alternos nella Grande Peste del
1652-1656.
8
Si tratta di don Diego Contena Pirella, cugino primo di Mariangela Marchi Pirella e
don Gavino de Minutili Pirella, di anni 66; Julian Pinna, di anni 58; Valerio Guiso, di anni
59; Salvador Quessa, di anni 46; Baquis Ticha di Bolotana, di anni 62.
9
ASC, AAR, Parlamento De Montcada, vol. 1., c. 127v.
10
Acta Curiarum Regni Sardinie, vol. 12, p. 184.
11
Ivi, p. 429.
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ancora residente a Nuoro, mentre in quello Gandia (1614) risulta a Sassari.12
Nei successivi (Vivas, 1624, straordinario Bayona, 1626, e ordinario
Bayona, 1631), la sua dimora risulta stabilmente a Nuoro, e viene convocato
con suo figlio don Gavino.
Dunque, come accennato poc’anzi, ci si trova di fronte a una non
rara falsificazione genealogica, non è dato sapere quanto voluta, in quanto il
ramo nuorese si appropriò della nobiltà di Francesco pur non essendone
diretto discendente. Ma di chi era figlio don Angelo?
Il ramo di Sassari
Una genealogia abbastanza completa, che permette di collegare tutti i rami
conosciuti, è presente nel parlamento Avellano: il dottor Nicola Minutili
Pilo, decano della cattedrale turritana, e suo fratello don Salvatore, della
città di Castelgenovese, chiesero l’ammissione ai lavori portando, come di
consueto, una genealogia e numerose testimonianze:
Et primo ponit que Manilio Minutili, gentil home de la ciutat de Napols y del
seggio vulgarment dit de Capuana, vingue de dita ciutat a la de Sasser y
procrea, de legitim y carnal matrimoni, a Joan Aniello Minutili y axi es ver.
Secundo ponit que Juan Aniello Minutili procrea, de legitim y carnal
matrimoni, a Angel Minutili y axi es ver. Tersio ponit que lo dit Angel
Minutili procrea axibe, de legitim carnal matrimoni, à Angel Francisco
Miquel y Madalena Minutil, los quals comunament eran tinguts y reputats per
fills legitims y naturals del dit Angel Minutili v axi es ver. Quarto ponit que
los dits Jermans Angel Madalena y Miquel Minutili procrearen alguns fills,
de legitim y carnal matrimoni, y del altre jerma Francisco Minutili y Pinna
Pilo nasque, de legitim carnal matrimoni, Juan Elias Minutili Pilo, de la ciutat
de Sasser y axi es ver. Quinto ponit que dit Juan Elias Minutili Pilo
nasqueren, de llegitim carnal matrimoni, Francisco Minutili Pilo, Juan
Minutili Pilo y Françina Minutili Pilo y axi es ver. Sesto ponit que del dit
FranOsco Minutili Pilo nasqueren Salvador Minutili Pilo y Juan Minutili Pilo
de la ciutat y axi es ver. Septimo ponit que del dit Salvador Minutili Pilo son
nats los dits dos jermans doctor Nicolas Minutili y Salvador Minutili Pilo, de
la ciutat de Castell Aragones y axi es ver.
12
Acta Curiarum Regni Sardinie, vol. 14, pp. 145–146.
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A riguardo vennero interrogati sette testimoni,13 che confermarono
quanto sostenuto dai due pretendenti, che vennero ammessi.
Stando ai ricordi di costoro Manilio Minutulo, il capostipite della
famiglia, si trasferì a Sassari (presumibilmente intorno al XV secolo)14 e fu
padre di Juan Aniello. Questi fu padre di Angelo, che a sua volta ebbe
quattro figli: Angelo, Michele, Maddalena, e Francesco che ottenne la
nobiltà.
Dunque, Angelo Minutili ammesso al parlamento 1583 con i figli
Andrea e Antonio è fratello di Francesco il cavaliere. Di conseguenza, il
ramo di Nuoro è collaterale e non diretto, confermando l’inganno (o
l’ignoranza) da parte dei tre nuoresi Nieddu Minutili nell’ammissione del
1666, probabilmente approfittando dell’inesistenza di documenti antichi che
potessero smentire le testimonianze prodotte.
Da altre fonti, si scopre che Angelo sposò Anna de Larca,15 dando
origine al ramo di Mores dal quale si originò, probabilmente, quello di
Ozieri. Dal ramo nuorese di don Antonio, invece, discende quello di
Benetutti, da cui discende il personaggio oggetto di questo studio.
Il ramo di Benetutti
Sono sempre gli atti del Parlamento Camarassa a fornire indicazioni utili su
questo ramo: nelle pagine seguenti alla petizione dei nuoresi Nieddu
Minutili, troviamo infatti la corposa documentazione relativa a un’analoga
richiesta da parte dei fratelli don Geronimo, don Salvatore e don Antonio
Minutili, figli di don Salvatore di Nuoro. In base ai vari documenti
presentati, risulta che questi era figlio di don Antonio e donna Theodora
13
Si tratta del dottor Giovanni Francesco Paliacho, di anni 58; il reverendo beneficiato
Antonio Quessa, di anni 50; il reverendo Salvatore Riguerì, di anni 70; Giovanni de Acoti,
di anni 50; il canonico dottor Quirico Casagia, di anni 50; il reverendo beneficiato Giovanni
Lopino, di anni 70, e Girolamo Coasina, di 57 anni circa.
14
In base a calcoli genealogici.
15
Francesco AMADU, Ozieri 1550-1702: cento documenti in sardo dell'Archivio
Diocesano. Muros: Stampacolor, 2004, pp. 126ss.: testamento e inventario di donna Angela
de Minutili, naturale di Mores.
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Salvatore Pinna
Pirella. Don Salvatore sposò in prime nozze Juana Angela Usay di Benetutti
e, rimasto vedovo, con Maria Carale di Pattada.16
Dal primo matrimonio nacquero: Antonia, Geronimo e Theodora; dal
secondo nacquero due figli legittimi (don Gavino e don Salvatore). È citato,
però, un altro figlio, don Antonio, detto «naturale» (ossia, nato fuori dal
matrimonio). Probabilmente si tratta del primogenito, poiché nelle Corti del
1677 è indicato come naturale di Nuoro.17 Anche i benetuttesi sfruttarono la
falsa discendenza diretta da Francesco per chiedere l’ammissione alle corti.
Fra i documenti, viene riportata la trascrizione dei battesimi di don
Geronimo e don Salvatore, ricevuti nella parrocchia di Sant’Elena
rispettivamente l’8 giugno 163018 e il 2 novembre 1642.19
Il gesuita Jerónimo Minutili: congetture per un’identificazione
Di questo personaggio, è il compianto Raimondo Turtas a fornire i dati sulla
nascita, avvenuta a Benetutti il 20 dicembre 1668.20 Certo è che, dato il
nome Geronimo, egli dovette appartenere al ramo benetuttese, in cui si è
visto ebbe i natali don Geronimo Minutili battezzato nel 1630. Forti indizi
sulla sua identità si possono, ancora una volta, ricavare dagli atti
parlamentari21.
In primis, è utile fissare un terminus ante quem per la data di morte
del capostipite don Salvatore Minutili Pirella, che risulta quondam nei
parlamenti del 1666, avendo testato a Benetutti il 26 gennaio 1658.22
Nelle corti del 1677 fu ammesso don Salvador Minutili residente a
23
Oliena: non può che trattarsi di Salvatore Minutili Carale, figlio di
16
ASC, AAR, Parlamento Camarassa, c. 1070r.
Acta Curiarum Regni Sardinia, vol. 21-3, p. 1199.
18
Ivi, c. 1071r.
19
Ivi, c. 1072r.
20
Raimondo TURTAS, I gesuiti in Sardegna. 450 anni di storia (1559–2009). Cagliari,
CUEC, 2010, pp. 176-177.
21
L’attuale situazione sanitaria e l’impossibilità di rientrare dalla Spagna mi hanno
impedito di effettuare una ricerca nei Quinque Libri della parrocchiale di Sant’Elena, per
cui, allo stato attuale, non è possibile avere certezza sull’identità dei genitori.
22
ASC, AAR, Parlamento Camarassa, c. 1070r.
23
Acta Curiarum Regni Sardinia, vol. 21-1, p. 119.
17
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Salvatore Pinna
secondo letto del precedente, e difatti in altri documenti è detto «oppidi
Benectuti».24 Allo stesso parlamento partecipa il fratello illegittimo don
Antonio, residente a Nuoro.25 Nessuna traccia, invece, del terzo fratello don
Geronimo, che pure aveva partecipato al parlamento precedente:26
evidentemente era morto. Don Salvatore Minutili Carale morì violentemente
a Oliena, ucciso nel 1687, da Juan Baptista de Ales, Sebastian Ignacio Furru
e Francisco de Fenu.27
Nelle Corti di undici anni dopo, si trovano i seguenti personaggi:
– Don Antonio Francesco Minutili Satta, figlio del quondam Antonio
de Minutili ed Elene Satta Sequi, battezzato a Nule il 6 agosto
1665,28 e residente a Nuoro29;
– Don Giuseppe Minutili Satta di Galtellì;
– Don Geronimo e don Salvador, fratelli del precedente, della villa di
Benetutti.30
Nell’ultimo parlamento sardo (1698-99) troviamo:
– Don Giuseppe Minutili di Benetutti (ammesso –si scrive– alle
precedenti corti, dove era indicato come abitante a Galtellì);
– Don Antonio Minutili di Nuoro (quindi Antonio Francesco
Minutili Satta) risulta defunto.
Considerato che don Salvatore Minutili Carale venne assassinato nel
1687, l’ammissione alle corti non può essere relativa a lui, anche per via del
secondo cognome – Satta. Ne deriva che Don Antonio e donna Elena Sequi
Satta ebbero i seguenti figli:
– Antonio Francesco, b. a Benetutti il 6 agosto 1665;
24
Ivi, p. 956.
Ivi, vol. 21-3, p. 1190.
26
ASC, AAR, Parlamento Camarassa, c. 1521v.
27
ACA, Consejo de Aragón, Legajos, 1362, n. 031, f. 1v.
28
Acta Curiarum Regni Sardinia, vol. 22-3, pp. 1616 (si cita il quondam Don Antonio
de Minutili di Benetutti) e 1622 (trascrizione del battesimo di don Antonio Francesco
Minutili Satta).
29
Ivi, p. 1623.
30
Ivi, p. 1520.
25
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– Geronimo, b. a Benetutti il 20 dicembre 1668, da identificare con il
Nostro;
– Salvatore;
– Giuseppe, residente a Galtellì.
L’ammissione al Parlamento del 1688 del gesuita non deve stupire, poiché
la sua entrata nella Compagnia risale all’8 giugno 1686, solo un anno e
mezzo prima della convocazione (31 gennaio 1688). Si deve considerare
infatti la lentezza della burocrazia dell’epoca: spesso nei verbali delle corti
ci si imbatte nel caso in cui il messo regio, giunto nel luogo di residenza del
nobile per consegnargli la lettera di convocazione, viene informato della sua
morte. Fra l’altro, la redazione delle lettere convocatorie avveniva con largo
anticipo rispetto all’inizio dell’assemblea: basti pensare alla trascrizione,
negli atti Camarassa, dell’ammissione alle Corti Vivas (iniziate il 5 febbraio
1624) di don Antonio Minutolo e suo figlio don Gavino, di Nuoro, datate 3
agosto 1623.31 È dunque probabile che la richiesta o, meglio, l’attestazione
di nobiltà che dava l’accesso agli stamenti dei tre fratelli Giuseppe,
Salvatore e Geronimo risalga a ben prima dell’entrata nei gesuiti di
quest’ultimo, e dato che era alquanto dispendioso (e inutile) richiederne
un’altra con l’esclusione del neo-religioso, don Giuseppe si presentò a
Cagliari con quella vecchia. Non è dato sapere che sorte ebbe don Salvatore,
poiché neppure lui risulta presente ai lavori.
Nella Fig. 3 si presenta la genealogia completa della famiglia, così
come ricostruita attraverso i parlamenti e gli altri documenti da me
consultati anche in occasione delle ricerche sulle famiglie nuoresi.
31
ASC, AAR, Parlamento Camarassa, cc. 1059r e 1060r.
167
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Fig. 3: Genealogia della famiglia Minutulo
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Salvatore Pinna
La prima missione
Nulla è dato sapere, allo stato attuale, della carriera ecclesiastica in
Sardegna del padre Jerónimo. I dati puntuali rinvenuti da Raimondo Turtas
mostrano che nel 1704 era professo dei quattro voti (castità, povertà,
obbedienza e obbedienza al papa)32 e che il suo arrivo in Messico è datato
1693.33 A partire da questo punto, ci si deve affidare ai testi in spagnolo o in
inglese per ricostruirne, anche se laconicamente, le vicende.
Il p. Minutili, insieme con il p. Juan Manuel de Baldasúa, originario
di Michocacán, fu destinato alla missione Nuestra Señora de Loreto Conchó
(Fig. 4), nella Bassa California, in Messico, fondata il 19 novembre 1697
dal p. Juan María de Salvatierra y Visconti, discendente per parte di madre
dai duchi di Milano. Giunse in Messico a bordo della nave Santo Cristo de
Maracaibo capitanata da Vicente Álvarez. Nella relazione del p. Juan de
Estrada, Procuratore Generale della Compagnia per la Provincia del
Messico, il 5 luglio 1692, il sardo è descritto così:
Teologo, naturale di Senis e della sua diocesi in Sardegna, di età di ventidue
anni, di corporatura buona, di carnagione scura e capelli neri.34
32
Questo quarto voto è una peculiarità dei membri della Societati Iesu, secondo cui si
rendono «disponibili a essere inviati ovunque o comunque a ricevere una qualsiasi missione
che il Papa ritenga utile al bene della Chiesa».
33
Raimondo TURTAS, I gesuiti in Sardegna, cit.
34
https://www.nps.gov/applications/tuma/detail2.cfm?Event_ID=9410
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Salvatore Pinna
Fig. 4: Missione di N. S. di Loreto in un disegno del XVIII secolo.
Fonte: Wikipedia, dominio pubblico.
L’indicazione di provenienza da Senis deve essere considerata un
errore, in quanto –come si è visto– questa famiglia era radicata solamente a
Sassari e nel nuorese. D’altra parte, fra i gesuiti sardi riportati da Turtas vi è
un solo Minutili.
Giunti ad Acapulco, padre Geronimo e padre Manuel acquistarono la
nave Nostra Signora del Rosario, che il gesuita sardo condusse fino a
Matanchén (Fig. 5), nella provincia della Nuova Galizia (attuale Stato
messicano di Nayarit). Da qui, insieme con altri confratelli, si imbarcarono
verso Loreto. Colti da tempesta, per alleggerire la barca furono costretti a
gettare in acqua parte delle vettovaglie che trasportavano. Giunsero nella
baia di Loreto il 28 ottobre 1702.35 All’arrivo, venne deciso che il sardo
sarebbe rimasto in quella missione, mentre il suo compagno si sarebbe
recato, insieme con il p. Francisco Maria Piccolo,36 alla missione di San
35
Miguel VENEGAS, Noticia de la California y de su conquista temporal, y espiritual
hasta el tiempo presente. Sacada de la historia manvscrita, formada en Mexico año de
1739. Madrid: Durand, 1757, p. 127.
36
Palermo, 25 marzo 1654 – Loreto, 22 febbraio 1729.
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Salvatore Pinna
Francisco Javier de Viggé-Biaundó (fondata dal p. Piccolo nel 1699), per
imparare la lingua e abituarsi alla vita missionaria, in supporto al p. Piccolo.
L’aria umida e calda della California, tuttavia, non giovavano alla
salute del missionario sardo, che alla fine del 1703 fu destinato alla missione
di Tubutama, nella regione di Pimería Alta (oggi stato di Sonora), dove
giunse nel mese di dicembre. Tubutama, uno dei paesi più piccoli del
Messico,37 era stato fondato nel 1691 dal gesuita italiano Eusebio Francesco
Chini, detto anche Kino,38 con il nome di Missione di San Pedro y San
Pablo del Tubutama.
Fig. 5: Il viaggio di p. Jerónimo Minutili al Messico
37
Nel 2010 possedeva 348 abitanti.
P. Chini (Segno, 10 agosto 1645 – Magdalena de Kino, 15 marzo 1711) era giunto in
California nel 1687, nello stato di Sonora. Fu il principale promotore delle missioni nella
Nuova Spagna.
38
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La seconda missione
Da questo punto, le vicende del gesuita sardo in Messico sono raccontate
per bocca dello stesso p. Chini.39 Il trasferimento fu voluto dallo stesso
sardo,
che giunse dalle nuove conversioni delle Californie, perché gli sembrava che
la missione in quel territorio non stesse crescendo come il suo fervente spirito
desiderava, mentre qui a Pimería e nei territori circostanti, altre nuove
nazioni, vi fosse un campo molto più esteso, di molte più anime attirate e
ancora da attirare alla fede, in tutte le direzioni del nord, ponente e oriente,
del nordest e del nordovest, fino a giungere per terra alla stessa missione
della California, a una latitudine di 32 gradi.
Sbarcato a Sinaloa, da lì si diresse a Sonora, dove incontrò il padre
visitatore Antonio Leal. Passato il Natale con il rettore Adamo Gilg, a Santa
Maria del Pópulo a Cotija de la Paz,40 entrò finalmente nel territorio di
Pimería, dove padre Chini fu ad accoglierlo nel villaggio di Opodepe.
Tra il 14 e il 17 gennaio 1704, insieme con il padre Chini, il padre
Rettore Adamo Gilg e il fratello laico Juan Estaineser, il p. Minutili
partecipò alla solenne consacrazione delle chiese di Nuestra Señora de los
Remedios, Nuestra Señora del Pilar e Santiago de Cocospera, situate al nord
di Sonora.
In seguito, padre Chini si occupò dell’insediamento del nuovo
confratello nella missione di San Pedro y San Pablo del Tubutama: ordinò la
ristrutturazione della casa, la semina del grano nel campo, e il trapianto nei
giardini di viti e di diversi alberi da frutto provenienti dalla Castiglia, come
peschi, melograni, fichi e peri. L’amministrazione della missione da parte
del sardo comprendeva, oltre al piccolo capoluogo, i villaggi di Santa Teresa
de Caborca41 e San Antonio Paduano del Uquitoa.
39
Eusebio Francisco KINO, Crónica de la Pimería Alta. Favores celestiales, Instituto
Sonorense de Cultura, Edición Digital, 2016. Il documento è visitabile al link
https://isc.sonora.gob.mx/bibliotecadigitalsonora/wpcontent/uploads/2016/09/Cr%C3%B3nica-de-la-pimer%C3%ADa-alta-Francisco-EusebioKino.pdf
40
Capoluogo dello stato di Michoacán de Ocampo.
41
Dovrebbe trattarsi di Santa Teresa de Átil, poiché la missione di Caborca era dedicata
a Sant’Ignazio.
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L’accoglienza da parte dei nativi fu molto calorosa, e il padre Chini
promise la costruzione della chiesa della missione a sue proprie spese. Così
gli si rivolgeva il p. Antonio Leal42 il 13 febbraio:
La ringrazio di cuore […] per essersi recato a El Tubutama con il padre
Jerónimo, e per la notizia che il padre è contento dei neofiti e loro di lui, per
il grande conforto che sua Reverenza mi ha riservato, e per la carità mostrata
al padre per l’aiuto nelle spese per la costruzione della chiesa, come ha
promesso.
Il gesuita sardo si incaricò della direzione dei lavori per la
costruzione della nuova chiesa (Fig. 6).
Fig. 6: La chiesa di San Pedro y San Pablo de Tubutama
42
Nato a Giadalajara nel 1648, fu rettore della missione di Huásabas, rettore del
collegio di Durango e missionario a Sinaloa. Nel 1697 fu nominato visitatore delle missioni
di Sonora. Cfr. p. Francisco ZAMBRANO, , S. J.; p. José GUTIÉRREZ CASILLAS, , S. J.,
Diccionario Bio-Bibliográfico de la Compañía de Jesús en México. México: Editorial
Tradición, S.A., 1977, p. 45.
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Dei lavori ne parla egli stesso in una lettera al padre Chini il 13
novembre 1705:
Sono molto grato a Vostra Reverenza per l’enorme generosità che Ella mi
mostra ogni giorno; il mio Dio La ricompensi per questo motivo, una e
migliaia di volte. […] Ho ricevuto il panno verde che il caporal ha portato
per comprare mais per il tetto della chiesa, e l’altro rivestimento per le altre
fanegas43, che sono state acquistate per il consumo di coloro che stanno
fabbricando i mattoni. Ringrazio sua Reverenza di cuore per tutto, così come
per i guazinques, o carpentieri, che in questo momento stanno tagliando il
legname. Uno di essi è incaricato del trasporto, mentre l’altro è andato a
procurarsi un attrezzo di cui abbisognano. Grazie anche per l’invio del
alcalde di sua Reverenza, che sta supervisionando la fabbricazione dei
mattoni. Prego affinché Ella possa venire qui a breve, data l’urgenza della
questione: sto aspettando molte persone dalle rancherías44 vicine per la
fabbricazione dei mattoni ecc. Le chiedo di indicarmi il numero a cui
dobbiamo provvedere, di modo che se Ella potrà presenziare – cosa che
desidero moltissimo – il lavoro procederà con zelo, dato l’amore che i ragazzi
provano per Ella.
Il padre sardo si mise subito al lavoro per i lavori delle chiese e delle
missioni nei tre centri afferenti a San Pedro y Pablo. I lavori appaiono in
stato avanzato già nel maggio del 1705.
Esplorazione del territorio
Il nuovo anno portò grosse novità: con l’arrivo di un altro missionario, il p.
Domingo Crescoli di Napoli45 destinato a Nuestra Señora de la Concepción
a Caborca, il desiderio di esplorare l’entroterra, espresso dal p. Geronimo al
p. Chini, si fece realtà. P. Chini, insieme con il p. Crescoli, visitò alcune
delle missioni fino a giungere a San Pedro y Pablo, dove prese il sardo con
sé. Diretti verso la missione assegnata a p. Crescoli, dopo aver amministrato
molti battesimi, lo lasciarono lì e si incamminarono verso
43
Antica unità di misura spagnola per il volume o la superficie. Certamente si riferisce
alla quantità corrispondente di cereali.
44
Piccolo insediamento rurale composto di capanne (ranchos).
45
Nato a Napoli nel 1644, morì il 21 gennaio 1715 a Puebla.
https://www.fondazioneintorcetta.info/pdf/bibliotecavirtuale/documento1025/diccionario15.pdf
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la parte e le terre dei gentili che ci pareva la più nuova e bisognosa, dove
ancora nessun bianco era penetrato. Dopo aver mandato in avanscoperta
alcuni cristiani [convertiti] e alcune guide, il 19 gennaio ci incamminammo
con i nostri servitori, in direzione sudest, il padre Jerónimo e io, percorrendo
più di cento leghe in terre pianeggianti e popolate da molti gentili pima46
nella vicinanza di altri gentili Seri47 giungemmo al mare della California.
In questo lungo cammino, i due si fecero protagonisti di una scoperta
geografica. Nel mare della California avvistarono
una grande isola, di tre leghe di larghezza da oriente a ponente, e sette o otto
leghe di lunghezza da nord a sud, distante dalla terraferma non più di sei o
sette leghe. Poiché questa scoperta fu fatta il 21 gennaio. La battezzammo
«Isola di Santa Inés».
L’isola, oggi, ha cambiato il suo nome in Isla del Tiburón (Isola
dello Squalo, Fig. 7), ed è una riserva naturale nazionale.
Fig. 7: Isla del Tiburón (antica Isla Santa Inés) nel Golfo della California
Il giorno successivo, incamminatisi verso nordest, da una collinetta
scorsero «un altro pezzo di terra, all’apparenza californiana, e anche se
rimanemmo con il dubbio se anch’essa fosse un’isola o terra contigua e
parte del continente con la stessa California, ci persuademmo che essa fosse
46
47
Il loro nome originale è Akimel O'odham (‘Popolo del fiume’).
Nella loro lingua, Comcaac (‘gente’).
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quella «Porta della California» che, secondo quanto riportato dal Capitano
Francisco de Ortega […], si estende parecchio verso est, fino alle coste della
Nuova Spagna». I due gesuiti avevano avvistato l’isola «Ángel de la
Guarda» (a ovest della precedente, nella cartina di Fig. 7). La grande
sorpresa dei missionari fu scoprire che le due isole erano abitate, tanto che
di giorno si avvistava del fumo, e la luce del fuoco durante la notte.48
Convinti che si trattasse di terraferma, diedero all’isola il nome di Cabo San
Vicente, santo del 22 gennaio.
Tornati alle rispettive missioni, i due proseguirono le loro mansioni
abituali. Padre Chini visitò San Pedro y Pablo del Tubutama l’8 marzo,
portando con sé alcuni guacinques per la fabbrica della chiesa. In seguito,
insieme visitarono i diversi villaggi facenti parte della missione, in ciascuno
dei quali era in costruzione la chiesa.
La relazione di p. Chini non riporta altre notizie salienti sul sardo, a
parte nuove visite nella missione e lo stato di avanzamento dei lavori,
sottolineando però sempre lo zelo e la passione con cui il p. Minutili
svolgeva i suoi compiti, tanto materiali quanto spirituali, e quanto egli fosse
amato dalla popolazione locale.
Infine, poco è dato sapere sulla morte del gesuita sardo: stando a
quanto riportato dal necrologio della Compagnia, essa avvenne il 10 maggio
1710 a Cucurpe,49 ossia nella missione di Nuestra Señora de los Dolores,
gestita dal padre Chini, che lasciò questa terra l’anno seguente, il 15 marzo.
Conclusioni
Un articolo come questo, anche se denso e dettagliato, non può costituire un
racconto esaustivo della vita e delle opere di un personaggio complesso
come il p. Minutili. Se è vero che le sue vicende sono ben narrate dal p.
Chini, del quale fu quasi il braccio destro, è altrettanto probabile che negli
archivi ARSI si nascondano ancora carte che lo menzionano, specialmente
48
Oggi l’isola è disabitata, ma in passato vi erano stanziate tre diverse tribù seri: i
Tahejöc comcaac, gli heeno comcaac e i xiica Hast ano coii.
49
https://www.sjweb.info/arsi/documents/Defuncti_1640-1740_vol_III_I_M.pdf. È
riportato Kucurpe.
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relativamente ai primi anni nella Compagnia, dei quali non conosciamo
assolutamente nulla: dove svolse il noviziato? Dove fu destinato prima di
raggiungere il Nuovo Mondo, dato che dal 1686 –anno della sua
professione– al 1692, quando si imbarcò sul Santo Cristo de Maracaibo,
intercorrono sei lunghi anni? Queste domande non possono e non devono
lasciare indifferenti gli storiografi, né possono rimanere senza risposta –
anche se questa dovesse essere un demotivante ‘non è dato sapere’, basato
sull’assenza di documentazione.
Per ora, mi accontento di aver restituito alla comunità di Benetutti un
suo figlio illustre.
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Autori dei contributi
AUTORI DEI CONTRIBUTI
Hanno contribuito alla realizzazione di questo volume
(in ordine alfabetico):
JOAN ARMANGUÉ I HERRERO (Barcellona, 1960) catalano stabilitosi in
Sardegna, è ricercatore di Filologia Romanza presso l'Università di Cagliari.
Si è specializzato nella storia della cultura catalana in Sardegna, con
particolare attenzione nei confronti della letteratura algherese.
DURDICA BACCIU, Archeologa e Guida turistica RAS, fondatrice e
presidente dell'associazione culturale ArcheOlbia dal 2009. Autrice di scritti
su storia, archeologia e antropologia della Sardegna. Docente di storia e
cultura locale presso corsi di formazione regionali. Ha ideato e curato
diversi eventi nel Comune di Olbia, tra i quali Monumenti Aperti - Città di
Olbia dal 2010 al 2017. Dal 2018 collabora con la Diocesi di TempioAmpurias come coordinatrice e responsabile delle visite guidate e
accoglienza presso la Basilica di San Simplicio in Olbia.
LUCIA MOCCI (Sanluri, 1962), insegnante di lettere nella scuola superiore.
Specialista in Studi Sardi e libera ricercatrice, ha concentrato la sua
attenzione sul patrimonio di Sanluri e del suo territorio, collaborando con la
Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per la città
metropolitana di Cagliari e le province di Oristano e Sud Sardegna
nell’attività di catalogazione dei beni culturali e affiancando lo studio dei
beni storico-artistici con la ricerca d’archivio. Ha pubblicato diversi articoli
a carattere divulgativo sulle chiese locali e le opere in esse custodite, e un
libro dedicato all’architettura sacra nella Sanluri medioevale e moderna.
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Autori dei contributi
SALVATORE PINNA (Nuoro, 1980), dottore di ricerca in Ingegneria
ambientale. Libero ricercatore di storia moderna, ha pubblicato nel 2018 il
saggio I Pirella. Origine e ascesa di una famiglia della Nuoro feudale e nel
2019 Gavino Penducho Carta: ministro di Felipe IV. Ha inoltre collaborato
con diversi articoli alla rivista Sardegna Antica.
GIUSEPPE PIRAS (1972). Studioso di epigrafia medievale e gliptografia,
discipline alle quali ha dedicato la sua vasta produzione scientifica degli
ultimi due decenni. Oltre a tre monografie (Porto Torres. Città del Parco
Nazionale dell’Asinara, I segreti delle cattedrali e Tituli picti et tituli
scariphati. Riflessioni intorno alla scoperta delle firme nei dipinti
ottocenteschi della basilica di San Gavino ed al culto dei Martiri Turritani)
ed alla curatela dell’opera Il regno di Torres 2, ha pubblicato numerosi
saggi in volumi, atti di convegno, riviste internazionali e nazionali.
SERGIO SAILIS (Cagliari, 1963), impiegato e amministratore di aziende.
Libero ricercatore di storia medievale sarda, ha ideato e cura dal 2010 il sito
web https://trexentastorica.blogspot.it. Ha inoltre collaborato alla redazione
di diversi articoli su riviste specializzate e volumi di storia e cultura sarda.
ALDO SARI (L'Alguer), già professore di Storia dell'arte moderna presso
l'Università degli Studi di Sassari, ha pubblicato numerosi studi che
spaziano dal romanico al gotico catalano e alla sua diffusione nel bacino del
Mediterraneo, dal Rinascimento in Sardegna al Neoclassico.
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Insula Noa
Temi di storia e cultura sarda