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Classici: Roma-Liverpool '84
24 apr 2018
Il racconto di una notte maledetta per i colori giallorossi.
(articolo)
23 min
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Si fa presto a dire: pensiamo al futuro, il passato non è un prigione. Eppure sono passati 34 anni e non c’è tifoso romanista che pensando al prossimo Roma-Liverpool, doppio scontro da cui uscirà una delle due finaliste di questa Champions League non pensi anche a quel Roma-Liverpool. Ci pensa anche chi quella partita non l’ha mai vista, chi non era neanche nato. Non tutti i ricordi ci appartengono in esclusiva e alcuni, nel bene o nel male, sono collettivi, si trasmettono di padre in figlio oppure, come nel mio caso, di zio in nipote. Ma forse non c’è neanche bisogno di contatto diretto, il ricordo di quella partita è nell’aria di Roma, come una brutta influenza presa sul 60 per Porta Pia.

Il 30 maggio del 1984 dovevo ancora compiere tre anni e, anche se non ho ricordi di quel periodo della mia vita, posso dire con sicurezza che non ho potuto vedere quella partita con mio padre, perché mio padre era della Lazio. Mi sono ritrovato a tifare Roma grazie a uno zio che all’epoca aveva 19 anni e che, pochissimo tempo dopo, mi avrebbe portato per le prime volte allo stadio. Mio zio quella sera l’ha vista solo con mio nonno, che aveva portato una bottiglia di spumante con sopra l’effigie di Nils Liedholm e la scritta “Campioni d’Europa”. Dice di ricordare bene la partita ma se gli chiedo qualcosa di personale il meglio che riesce a estrarre dalla propria memoria è che mia nonna, figlia di un macellaio di Trastevere con problemi di gioco, gli disse: «Non si può piangere per una partita di calcio». Ricorda anche che il giorno dopo a Roma c’era poco traffico: «Credo che poca gente sia andata a lavorare il giovedì».

Lo spumante e l’assenza di traffico (per altri è l’assenza di rumore, il silenzio altrettanto raro a Roma) servono a rendere un’idea: la finale dell’edizione ’83-’84 di Coppa Campioni, giocata all’Olimpico e vinta dal Liverpool ai rigori, è stata sia la partita che nessuno pensava di poter perdere, perché altrimenti che senso aveva arrivare in finale proprio l’anno in cui si sarebbe giocata a Roma; sia la partita che se non si è vinta quella, non si vincerà mainessuna finale. È stata la partita che ha condannato i tifosi giallorossi al pensiero magico e al paradosso, a una vita stretta tra l’entusiasmo cieco e la cupissima convinzione che la Roma sia destinata a soffrire.

La Curva Sud al suo meglio. Con lo striscione:“Non passa lo straniero” (se volete altre foto cliccate qui).

Ho chiesto ai genitori dei miei amici ma i ricordi si confondono, si fanno generici.

Qualcuno ha fatto la fila al botteghino dell’Olimpico e ricorda di essere scappato all’alba dalle cariche degli ultrà e da quelle della polizia (Oliviero Beha scriveva di aver visto risse “di coltello” e “immagini di abbrutimento, di mancanza di dignità, di declassamento animale di sé”). Qualcun altro era allo stadio, ma poi si mette a recitare l’ordine dei rigori come prova e lo confonde. Una persona era sicura di essere finita in un servizio del telegiornale mentre mostrava una teglia di pasta al forno con cui si era sfamata passando la notte prima della partita davanti all’Olimpico, era sicura che il video fosse su YouTube e di potersi riconoscere, ma non lo abbiamo trovato. Mi stupisce la mancanza di dettagli che restituiscano le emozioni di una notte così unica nella vita di chi c’era, ma forse ha ragione Stefano Menichini quando dice che: «L’ostinato silenzio di chi c’era, l’assenza a quanto ne sappiamo di racconti e memorie, sono assai significativi della percezione del dramma e del bisogno di seppellirlo».

Naturalmente su quella partita sono stati scrittilibri ed è entrata a far parte dell’immaginario pop di ogni tifoso romanista - è l’origine della mito del “mai ‘na gioia”, il peccato originale che costringe il tifoso della Roma ad illudersi solo per poi vederla perdere campionati e coppe in maniere improbabili (Manchester United -Roma 7-1) o contro squadre improbabili (Lecce, Slavia Praga), ad arrivare molto più seconda che prima (otto volte seconda nelle ultime 11 stagioni). Ma è tanto impossibile da dimenticare quanto difficile da ricordare.

La finale di Coppa Campioni tra Roma e Liverpool del 1984 era in programma per questa rubrica da tempo, ma non avevo mai trovato il coraggio di riguardarla. Ho deciso di farlo dopo che Schevckenko ha spiegato il bigliettino con il nome “Liverpool FC” perché se questa partita non vale quanto quella, e nessuna partita varrà mai quanto quella, possiamo provare ad approfittarne per fare pace con la nostra storia.

Perché in fondo, quella partita era solo una partita.

Il Liverpool di Shankly, Paisley e Fagan

A mente fredda - più o meno - va detto subito che sembra incredibile che si desse per certa la vittoria contro una squadra che nei precedenti sette anni aveva già vinto tre Coppe Campioni (era alla quarta finale in otto edizioni, cioè) e che nelle ultime 13 stagioni aveva vinto otto volte il campionato inglese. Jonathan Wilson fa cominciare la rivoluzione del Liverpool nel 1973, dopo una sconfitta con la Stella Rossa di Belgrado che fece capire al perfezionista Bill Shankly che bisognava cambiare stile di gioco se volevano vincere anche nel continente.

Nella “stanza degli scarpini” di Anfield, diventata sala riunioni informale dopo che Joe Fagan aveva cominciato a conservarci le casse della Guinness (che gli venivano regalate perché allenava la squadra del birrificio), Shankly spiegò al suo staff che «le squadre europee ci avevano fatto vedere che costruire delle azioni partendo dalla difesa era l’unico modo per giocare».

In quella stanza, dove si tenevano anche i diari degli allenamenti e dove venivano invitati gli allenatori avversari a parlare di tattica, si sono formati i tre allenatori che hanno fatto grande il Liverpool degli anni settanta e ottanta. Oltre a Shankly e Fagan, che avrebbe fatto da manager solo per due anni, quello della finale della Roma e il successivo, c’era anche Bob Paisley, che aveva preso il posto di Shankly per i nove anni successivi al suo ritiro e che si era ritirato l’anno prima della finale con la Roma, dopo aver vinto tre Coppe Campioni, una Uefa, una Supercoppa europea, sei campionati e nove coppe nazionali (nella stanza degli scarpini c’era anche Reuben Bennet, «famoso per la sua abitudine di dire ai giocatori infortunati di togliere il dolore sfregando la parte del corpo con una spazzola metallica o con un’aringa affumicata», che però non ha mai allenato il Liverpool né vinto niente).

In quegli anni il Liverpool era diventata una squadra incredibilmente moderna, il contrario del kick and run inglese e delle marcature a uomo che in quel periodo erano lo standard. Una squadra che faceva uscire la palla a terra dalla difesa, in cui i giocatori dal centrocampo in su si scambiavano le posizioni, in cui i movimenti senza palla e un buon controllo dei passaggi erano più importanti dei dribbling. «Ha un gioco molto europeo, sa tenere bene la palla è molto pericoloso, che vi debbo dire?» si limitò a dire Liedholm alla vigilia.

Era una squadra anche dura fisicamente - se non sapete chi era Graeme Souness, il capitano, vi basti sapere che durante la semifinale con la Dinamo Bucarest aveva rotto la mascella a un avversario con un pugno a palla lontana - con alcuni giocatori che rappresentavano alla perfezione il primato atletico della cultura sportiva britannica: Sammy Lee (ala destra), Alan Kennedy (terzino sinistro), Craig Johnston (centrocampista centrale), Ronnie Whelan (ala sinistra), oltre a Ian Rush che era un vero e proprio prodigio.

Nelle ultime sei stagioni avevano subito meno di un gol a partita in media (su La Repubblica il Liverpool era paragonato alla Juventus) e, se cercate nei top undici all-time dei siti di tifosi, molti giocatori in campo quella sera contro la Roma ne fanno parte. A cominciare dal centravanti, Rush (101 gol dalla stagione 1981-82, in quella della finale, a meno di 23 anni, ne aveva già segnato 49), e dal trequartista Kenny Dalglish, che insieme ad Alan Hansen (centrale di difesa) e Graeme Souness non mancano in nessuna formazione ideale del Liverpool.

Anche la Roma di Liedholm nel suo piccolo era una squadra d’avanguardia, dopo il Napoli di Vinicio (’74) una delle prime ad adottare la zona in Italia, ma quella sera avrebbe dovuto affrontare la storia del Liverpool e un pezzo intero di storia del calcio. Una squadra, quella di Fagan, che sarebbe arrivata in finale anche l'anno successivo e che, se non ci fosse stata la tragedia dell’Heysel, con la finale 1984-85 persa con la Juventus e la successiva squalifica dei club inglesi dalle coppe europee, chissà quanto altro ancora avrebbe vinto.

Ian Rush era uno di quei calciatori che sarebbe bello mettere sulla macchina del tempo e vedere nel calcio di oggi, con qualità atletiche e tecniche che sembrano particolarmente adatte ai gusti contemporanei. I suoi gol sono perfetti per YouTube e Twitter, con palloni colpiti di testa dove i portieri non arrivano con le mani e dribbling velocissimi che inceneriscono gli avversari sul posto. E lo scrivo qui perché poi, nella finale contro la Roma, ha toccato pochissimi palloni.

Finale d’avanguardia

Il Liverpool era arrivato in finale soffrendo pochissimo, pareggiando solo una volta 0-0, in casa, con l’Atlhetic Club di Bilbao, vincendo poi al ritorno al San Mames 1-0. Ai quarti aveva battuto il Benfica di Sven-Göran Eriksson, che avrebbe allenato la Roma l’anno successivo e che era stato invitato all’Olimpico quella sera (1-0 all’andata con un gol di Ian Rush di testa che a rivederlo oggi fa ancora paura, e poi 4-1 in Portogallo). In semifinale aveva eliminato la Dinamo Bucarest vincendo in casa all’andata (1-0) e al ritorno in Romania (2-1).

La Roma era al suo esordio in Coppa Campioni, veniva dal suo primo Scudetto dopo 41 anni di astinenza. Dopo aver superato il Goteborg e il CSKA Sofia, la Roma aveva battuto la Dinamo Berlino in casa (3-0) perdendo poi in Germania (1-2). In semifinale aveva affrontato il Dundee, perdendo in Scozia 0-2 e costringendosi all’impresa al ritorno.

Sulla semifinale di ritorno con il Dundee vinta 3-0 ci sarebbe da scrivere un pezzo a parte. Si giocò il pomeriggio del giorno della Liberazione e sotto la Sud c’era già lo striscione «Non passa lo straniero». Visto l’orario si temeva molto il caldo: il dottore della Roma, Alicicco, diceva che i giocatori del Dundee, dovendo affrontare uno sbalzo di temperatura di almeno otto gradi, avrebbero perso due chili e mezzo; mentre l’allenatore avversario, McLean, rispondeva : «Ma guardate che fa caldo anche da noi e poi sarà la Roma a dover correre!». Liedholm diceva che la Roma non avrebbe dovuto cambiare il proprio stile forzando il ritmo per recuperare i due gol di svantaggio: «Non lo facciamo col freddo figuriamoci col caldo».

Qualche anno dopo il figlio del presidente della Roma, Viola, confessò che per l’occasione, tramite un “intermediario” di cui non conosceva l’identità neanche lui, avevano pagato 100 milioni all’arbitro Vautrot, che comunque quella sera annullò due gol alla Roma (e a quanto si seppe dopo non ha neanche mai ricevuto i soldi... ci fu un processo ma nel 1986 cadde in prescrizione). La Roma segnò il 3-0 su rigore dopo uno splendido contropiede cominciato da Graziani e chiuso da Pruzzo, ma poi ha sofferto il Dundee nel finale di partita. Iconica è rimasta la foto di Nela che mostra il medio a McLean a fine partita.

Il commento di Nela: «Ce l’avevamo dentro fin dall’andata, dovevamo dirgli quel che pensavamo di lui. Avevamo imparato qualche parola in inglese, poi abbiamo continuato in italiano. Nessuno lo ha toccato, ve lo assicuro. Lo abbiamo accompagnato fin negli spogliatoi».

In 66 partite quell’anno, Fagan aveva utilizzato solo 15 giocatori (Grobbelaar aveva giocato tutte e 66 le partite, ad esempio, Lawrenson 65), e quella sera era sceso in campo con l’undici titolare. La Roma invece aveva recuperato a pieno Falcao (assente nella semifinale di andata) ma aveva perso per squalifica Maldera, terzino sinistro (e rigorista, nel Milan ’78-’79 aveva segnato 9 gol e la stagione prima 8, diventando capocannoniere della squadra). Al suo posto Liedholm fece giocare Sebino Nela, mancino naturale, che solitamente teneva a destra o al centro della difesa. L’estate prima Andreotti aveva dovuto intercedere per far restare Falcao a Roma e dalla stagione dello Scudetto erano andati via Vierchowod, Prohaska e Iorio, sostituiti da Oddi, Cerezo e Graziani. Come detto, si sapeva già che la stagione successiva la Roma non l'avrebbe allenata Liedholm, seguito al Milan da Di Bartolomei che sapeva già di essere poco adatto al calcio di Eriksson.

Il Liverpool aveva già vinto il suo terzo campionato consecutivo, mentre la Roma dopo un pareggio ad Avellino aveva dovuto rinunciare alla rincorsa sulla Juventus. Quella Roma però era una squadra memorabile al di là dei risultati, per un gioco offensivo rapido e verticale con una qualità tecnica a cui Little Tony aveva dedicato la canzone Roma Roma Brasileira (con un testo chiarissimo:“Colpo di tacco, olè, stile giallorosso, olè Roma d’attacco, olè, tu ci piaci un sacco”).

Quando si parla di Liedholm, ovviamente si fa subito riferimento alla sua “zona”, ma non era una zona purissima perché quando l’avversario entrava nel proprio spazio di competenza lo si prendeva in consegna. Anche quella del Liverpool era una zona mista, negli appunti preparatori di Fagan per quella partita si legge: «Non marcheremo a uomo Falcao. Ma l’uomo a lui più vicino deve prenderlo velocemente. Li rispetteremo, ma vinceremo». A un certo punto della sua telecronaca Bruno Pizzul si stupisce che il centrale difensivo Lawrenson segua Pruzzo su una sponda da fallo laterale.

Ed è interessante che se per Sacchi «la zona di Liedholm non era una vera zona. La mia zona era qualcosa di diverso», e la modernità in quegli anni sembrava andare nella direzione di un calcio completamente libero da marcature, oggi come oggi è rarissimo trovare squadre che difendono con una zona pura mentre, paradossalmente, sono sistemi come quello di Roma e Liverpool a sembrare “più moderni”.

La partita

Parliamo comunque di un calcio di un’altra epoca, giocato su ritmi totalmente diversi. Sia Roma che Liverpool costruiscono pazientemente dal basso, con Di Bartolomei, da una parte, e Souness, dall’altra, che si abbassano quasi sempre a prendere palla dalla difesa. Non ho statistiche della partita ma sono abbastanza sicuro che nessuno ha toccato tanti palloni quanto i due playmaker.

Di Bartolomei, si sa, amava molto lanciare, in orizzontale per cercare il terzino più lontano ma soprattutto in profondità, anche con il Liverpool schierato nella propria metà campo. Non ha mai trovato Pruzzo o Graziani alle spalle della difesa avversaria, ma dai suoi piedi sono nate alcune delle migliori azioni della Roma.

Dopo appena 10’ Di Bartolomei mette la palla sui piedi di Nela in sovrapposizione, che io ricordavo come un marcatore ruvido ma che in quella finale ha garantito una spinta continua e un’ottima qualità nei passaggi. Nela di prima controlla per Graziani che si infila tra terzino e centrale e crossa subito per la testa di Pruzzo, che non ci arriva per pochissimo.

Il Liverpool ha cominciato la partita mettendo pressione alla Roma fin dentro la sua metà campo, con un’attenzione particolare per Di Bartolomei e Falcao, che si abbassa nello spazio tra il centrale di difesa e il terzino sinistro e subisce il primo fallo dopo pochi minuti. Per eludere la pressione, girando palla o dribblando, la Roma abbassa anche Cerezo e, se occorre, Graziani sulla fascia destra. Il lancio lungo non è mai una soluzione di emergenza, semmai è il modo comune con cui la Roma attacca passando dai piedi del suo capitano.

Una volta spinto indietro il Liverpool - sempre molto compatto - Cerezo e Falcao si alzano entrambi con Di Bartolomei in possesso palla, per far valere la loro qualità nella trequarti offensiva. Devo dire che a un occhio contemporaneo sembra un peccato che la loro qualità non venisse cercata più spesso con un gioco posizionale più elaborato, con passaggi rasoterra tra le linee e movimenti senza palla più fluidi.

Pruzzo controlla un passaggio complicato di Bonetti, Cerezo e Falcao combinano e conquistano un fallo al limite dell’area. Qui siamo a metà del primo tempo, il punteggio era di 1-0 per il Liverpool ma la Roma stava vivendo un gran momento.

Anche la Roma prova a ostacolare la costruzione del Liverpool, con i tre attaccanti che restano alti e i tre centrocampisti a schermare il centrocampo, e nel primo quarto d’ora aveva spinto il possesso avversario almeno due volte fino a Grobbelaar, che come si faceva all’epoca ha preso la palla in mano e lanciato lungo.

Graeme Souness si abbassa e una volta in possesso gioca in verticale sui tagli di Rush o in diagonale sui terzini, mentre l’altro centrocampista, Johnston, parte da una linea più avanzata e si inserisce scambiandosi di posizione con Dalglish, oppure taglia verso l’esterno incrociandosi con Lee o Whelan. Quando Souness è schermato, il centrale di difesa di sinistra, Alan Hansen, cerca un’altra opzione di passaggio rasoterra in verticale.

Se la qualità individuale del centrocampo giallorosso forse era superiore, la flessibilità di quello del Liverpool, gli smarcamenti nei mezzi spazi, gli scambi di posizione, erano decisamente di un altro livello.

L’azione del gol del vantaggio nasce proprio da una ricezione di Dalglish alle spalle di Cerezo, salito in pressione su Hansen. Di Bartolomei scala al lato ma la Roma perde molti metri, Dalglish si gira verso Souness che può cambiare lato su Lee.

Quando Lee riceve palla, Johnston taglia esternamente e Neal, il terzino destro, si sovrappone all'interno arrivando fino in area. Poi Johnston crossa e Whelan carica Tancredi che perde la palla, Bonetti rinvia sul portiere a terra e la palla arriva proprio tra i piedi di Neal che di esterno mette dentro a porta vuota. Il gol del Liverpool è assurdo, ma è anche frutto di un gioco brillante e propositivo, in cui il terzino destro prende il posto del centrocampista centrale se si crea l’occasione giusta.

Neal era l’unico giocatore di quel Liverpool ad aver vinto anche le tre Coppe Campioni precedenti, compresa quella del ’77 vinta contro il Borussia M'gladbach proprio in quello stesso stadio Olimpico di Roma.

Certo, la dinamica sembra fatta apposta per far impazzire i tifosi della Roma e farli credere che effettivamente ci sia un demiurgo cattivo a scrivere la sceneggiatura della partita. La Roma non solo è andata in svantaggio la prima volta che il Liverpool ha messo piede in area, in un’azione in cui probabilmente nove arbitri su dieci avrebbero fischiato fallo sul portiere, ma l’assist per il gol è venuto da un giocatore della Roma che ha calciato in testa a un altro giocatore della Roma - anche se Bonetti oggi ricorda di aver colpito Tancredi sulla schiena: «Poi io, in uno spazio molto stretto, rinviai il pallone che carambolò sulla schiena di Tancredi prima di finire fra i piedi di Neal che lo depositò in rete. Comunque è inutile pensarci di nuovo. È andata come è andata».

La Roma subisce il colpo e subito dopo l’arbitro svedese Fredriksson annulla un secondo gol al Liverpool per fuorigioco di Rush, anche se a colpire la palla è stato Johnston arrivando da dietro (oggi sarebbe considerato regolare). La Roma soffre l’inferiorità numerica a centrocampo, dove il triangolo di Liedholm non solo fatica a seguire gli scambi di posizione dei giocatori del Liverpool ma si trova spesso in inferiorità numerica con Dalglish che si abbassa tra le linee e uno degli esterni che si accentra, lasciando il corridoio al terzino.

Passati i momenti peggiori, però, la squadra di casa torna lentamente in partita e l’Olimpico si scalda di nuovo. A metà del primo tempo è evidente che la Roma gioca meglio in velocità, quando può attaccare lo spazio in verticale sfruttando la qualità di Conti e Graziani.

Qui è Conti, finito a sinistra continuando un movimento, batte velocemente un fallo laterale per Graziani che riesce a calciare sul primo palo. Siamo alla mezz’ora del primo tempo e Pizzul è sempre più insofferente nei confronti dell’arbitro.

Sia Roma che Liverpool difendono molto bene il centro. Persino il Liverpool, che trovava spesso ricezioni tra le linee, dopo aver risalito il campo ricorreva al cross dalla fascia come unica soluzione per portare la palla in area. Ian Rush e Roberto Pruzzo, forse due dei migliori centravanti degli ultimi quarant’anni, hanno toccato pochissimi palloni e Bruno Pizzul durante il secondo tempo si è sentito in dovere di spiegare: «Gara sempre in equilibrio. È stata una partita che è filata via proprio sullo scacchiere di un’attenzione tattica esasperata da una parte e dall’altra».

Va da sé che non ci sono clamorose occasioni nel resto del primo tempo in Roma-Liverpool. La Roma conquista un paio di calci d’angolo e aumenta la pressione, ma è Ian Rush ad aver l’occasione buona per il 2-0 quando intercetta un passaggio di Bonetti per Nappi, ma Tancredi para in angolo.

Falcao calcia una punizione alle stelle, e sarebbe troppo facile dire che la sua partita è tutta qui. Il ricordo condiviso di Falcao in quella finale è molto negativo, con l’unica giustificazione condivisa che subì molti falli. Ma devo dire che il suo lavoro minimale è stato fondamentale per dare fluidità al gioco della Roma. Vedere Falcao giocare, anche in una serata così opaca, è comunque utile a ricordarci che un giocatore lento può comunque dare velocità al gioco, che a calcio si gioca anche con il cervello oltre che con le gambe.

Poi arriva il gol di Pruzzo, che invece fa parte di un calcio impossibile da insegnare, un gol che avrebbero segnato pochissimi centravanti nella storia.

Sebino Nela, da fermo, fa passare una splendida palla sopra la testa degli avversari. Bruno Conti, quasi perfettamente ambidestro, che da qualche minuto si era scambiato di fascia con Graziani, prova prima a mettere dentro la palla prima di sinistro, poi di destro di controbalzo. Infine Pruzzo, in torsione, all’indietro, riesce a imprimere forza a una palla scarica e lenta, scavalcando Grobbelaar sul secondo palo.

Un gesto così raffinato e unico che fa male leggere l’intervista a Pruzzo sui quotidiani del giorno dopo, quando gli chiedono cosa pensa del suo gol: «Che non è servito assolutamente a nulla».

Dopo neanche dieci minuti del secondo tempo c’è una grande discesa di Nela, Cerezo “spizza” di testa e Graziani la mette fuori in tuffo.

Gianni Brera scriverà che nel secondo tempo il Liverpool era “da battere tranquillamente”, ed è vero che fino alla sostituzione di Pruzzo, a circa mezz’ora dalla fine, la Roma sembrava la squadra in controllo della partita. Non è chiaro cosa abbia avuto Pruzzo: «una specie di colica, improvvisa, verso la fine del primo tempo. Forse qualcosa che mi ha fatto male, va a sapere» (recentemente, commentando il possibile sorteggio della semifinale con il Liverpool, ha detto che avrebbe preferito di no: «Tutti mi chiederebbero perché sono stato sostituito»).

Al suo posto è entrato Odoacre Chierico, che si mette a destra mandando Graziani al centro. «Sono convinto che anche con me in campo sarebbe finita allo stesso modo», ha detto Pruzzo, ma con quella sostituzione la Roma ha perso sia la sua pericolosità in area di rigore che la brillantezza di Graziani a centrocampo e sulla trequarti, fondamentale per risalire il campo e per attaccare in verticale.

Anche nella seconda parte del secondo tempo non ci sono chiarissime occasioni da gol, ma resta una partita brillante. Quello che per Pizzul era un tatticismo esasperato, è forse più facile da apprezzare oggi, che abbiamo la pancia piena di grandi giocate individuali e un palato più educato per azioni raffinate che magari non portano a un tiro. Il gioco a zona di Roma e Liverpool rendeva più interessanti i filtranti dei dribbling e la partita si è giocata sul controllo del centrocampo, con scambi veloci dei giocatori della Roma (qui un bel tacco di Cerezo, qui un bel tacco di Conti) e continui movimenti senza palla e inserimenti tra le linee di quelli del Liverpool.

L’occasione più limpida del secondo tempo della Roma è una bella transizione a un quarto d’ora dalla fine dei tempi regolamentari, nata da un recuperato vicino alla propria linea di fondo con Bonetti, con Di Bartolomei che porta palla fino a dopo l’area di rigore e Cerezo che accelera improvvisamente andando in verticale per Graziani. Bella sponda al volo per Conti che ancora una volta libera la discesa di Nela.

È mancato l’ultimo passaggio per Chierico, in arrivo con un po’ di ritardo sul lato cieco.

Anche il Liverpool però approfitta della stanchezza della Roma, che nella seconda parte del secondo tempo si abbassa molto, Tancredi deve compiere una bellissima parata su un tiro al volo di Dalglish e poi su tiro ravvicinato di Nicol (entrato al posto di Johnston).

Con il calare delle energie però il Liverpool fatica di più a muoversi senza palla e così migliora il pressing (generosissimo) della Roma, che con un grande cuore viene fuori nuovamente nel secondo tempo supplementare, prima con un tiro di Conti dal limite, poi con un tiro di Di Bartolomei ribattuto che, fin da subito ma con un’eco negli anni a venire che ne avrebbe amplificato la portata, sarebbe diventato uno dei rimpianti più grandi di quella sera.

«Purtroppo a questi livelli non ci sono due coppe ce n' è solo una, e l' hanno vinta i più esperti, i più freddi. Noi ci abbiamo provato per tutti i novanta minuti e poi nei supplementari. Rimango convinto che il mio tiro sarebbe entrato, se non l' avesse deviato una schiena».

Resta da dire dei crampi di Cerezo, che hanno privato la Roma di un altro rigorista (dopo Pruzzo e Maldera), della beffa del primo rigore sbagliato da Nicol sotto la Curva Sud, di Di Bartolomei che si prende la responsabilità di tirare per primo al posto di Graziani, delle “gambe a spaghetto” di Groebbelaar che fa solo in occasione dell’ultimo rigore romanista, che forse distrae Graziani forse no, e che Pizzul commenta con un signorile: «E vedete i numeri che fa Grobbelaar» (ed è interessante notare che quello che sarebbe diventato un dettaglio fondamentale nei nostri racconti non è stato neanche accennato nei resoconti del giorno dopo, né da Gianni Mura né da Brera). Restano gli errori di due campioni del mondo (Conti e Graziani) e il fantomatico rifiuto di Falcao di calciare (Tesseri, il secondo di Liedholm, non solo smentisce le voci su un presunto litigio dopo, negli spogliatoi, ma dice anche che Falcao “Non era mai stato nel roster dei primi cinque rigoristi della Roma. Non era mai stato un rigorista nella sua carriera. Una polemica vecchia e inutile. Falcao, più di ogni altro, aveva sognato di alzare la Coppa Campioni con la maglia della Roma”).

Resta il silenzio dell’Olimpico.

Quella del 1984 è stata la prima Coppa dei Campioni assegnata ai calci di rigore. La Roma aveva veramente sofferto solo per una decina di minuti una delle migliori squadre di sempre, giocando una partita di grande cuore ma anche di grande qualità, pagando un conto salatissimo nell’unico momento in cui, nel calcio, l’entusiasmo e le motivazioni non servono, in cui conviene essere il più freddi possibile.

A quanto pare Joe Fagan - che lascerà la panchina del Liverpool dopo la tragedia dell’Heysel, lasciandola a Kenny Dalglish - prima dei rigori aveva detto ai suoi che a quel punto non gli interessava sapere come sarebbe finita la partita dopo uno sforzo così epico, liberandoli così da qualsiasi tensione residua. Seguendo questa linea di pensiero viene da chiedersi se non fosse stato uno svantaggio tirarli davanti al proprio pubblico, quei rigori.

Dopo la partita ci furono parecchi disordini, si è parlato di “caccia all’uomo” con spranghe e coltelli. Il presidente dell’Uefa, Jacques Georges, decise di cambiare le regole per l’assegnazione degli stadi in cui giocare la finale (scegliendoli dopo i quarti di finale) mentre il sindaco di Liverpool ha proposto di giocare a Liverpool un’amichevole con la Roma “per sdrammatizzare il clima di antagonismo” fra le due squadre.

Gianni Brera ha commentato: «A noi, la consolazione, ahimè, abbastanza magra, di sentire i tifosi romani invocare la loro squadra con un amore e una devozione superiori all' amarezza. Con dietro questa gente, una società non può davvero fallire. E la Roma, entrata con pieno diritto fra le grandi d' Europa, saprà immancabilmente confermare questo augurio».

Adesso sappiamo che quell’augurio era piuttosto mancabile, invece, e quanto è difficile restare nell’élite europea.

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