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Ritirate parallele: Hemingway, Comisso e la rotta di Caporetto

2019, Novecento Transnazionale

https://doi.org/10.13133/2532-1994_3.4_2019

Both Ernest Hemingway and Giovanni Comisso were involved in the First World War, but while Comisso was a career officer who witnessed the rout of Caporetto and the ensuing chaotic retreat of the Regio Esercito, Hemingway reconstructed the events of October-November 1917 ex post facto, inasmuch as he only arrived in Italy in June 1918. However, a close comparative reading of Comisso's memoir Giorni di guerra and Hemingway's novel A Farewell to Arms proves that the American novelist had carefully researched his narrative, as many details are consistent with the Italian writer's first-hand report. Moreover, the comparative analysis highlights some only apparently marginal utterances of Hemingway's characters which should be interpreted as hidden prolepses, hinting at oncoming events (the looming Caporetto disaster and its consequences). Hence this comparative reading helps us to fathom how deep is the hidden part of the narrative iceberg in A Farewell to Arms, and bring to light new layers of meaning of this complex and sometimes beguiling narrative.

‘900 Transnazionale 3, 1 (Marzo 2019) ISSN 2532-1994 doi: 10.13133/2532-1994_3.4_2019 Open access article licensed under CC-BY Ritirate parallele: Hemingway, Comisso e la rotta di Caporetto Umberto Rossi Independent scholar __________ Contact: Umberto Rossi, [email protected]. __________ ABSTRACT Both Ernest Hemingway and Giovanni Comisso were involved in the First World War, but while Comisso was a career officer who witnessed the rout of Caporetto and the ensuing chaotic retreat of the Regio Esercito, Hemingway reconstructed the events of October-November 1917 ex post facto, inasmuch as he only arrived in Italy in June 1918. However, a close comparative reading of Comisso's memoir Giorni di guerra and Hemingway's novel A Farewell to Arms proves that the American novelist had carefully researched his narrative, as many details are consistent with the Italian writer's first-hand report. Moreover, the comparative analysis highlights some only apparently marginal utterances of Hemingway's characters which should be interpreted as hidden prolepses, hinting at oncoming events (the looming Caporetto disaster and its consequences). Hence this comparative reading helps us to fathom how deep is the hidden part of the narrative iceberg in A Farewell to Arms, and bring to light new layers of meaning of this complex and sometimes beguiling narrative. KEYWORDS Giovanni Comisso, Ernest Hemingway, Addio alle armi, Giorni di guerra, Caporetto 42 ‘900 Transnazionale 3, 1 (Marzo 2019) ISSN 2532-1994 doi: 10.13133/2532-1994_3.4_2019 Open access article licensed under CC-BY Non si à più alcun ideale, non si crede più a nulla. La nostra giovinezza è stata così colma di esperienze che potevamo ritenere fosse la nostra vecchiaia. Abbiamo fatto la guerra, abbiamo girato da un continente all'altro, amato donne di ogni colore, goduto l'abbondanza, sofferto la miseria dopo l'abbondanza, spadroneggiato su città, maneggiato milioni, fatto saltare ponti, case, strade e costruito ponti, case, strade là dove prima era la boscaglia o il deserto, abbiamo visto i morti ammonticchiati come pezzi di legno e moltitudini inebriate o imprecanti in rivolta: tutto abbiamo fatto, quello che è possibile fare; tutto abbiamo visto, quello che è possibile vedere per un essere umano. [...] Oggi, a quarant'anni non sappiamo più cosa fare della nostra vita; non sappiamo più cosa inventare per farci passare la noia. Continuare nella nostra grande avventura non si può, poiché tutto finisce col ripetersi e nella vita oltre a un limite massimo non si può andare. Adattarsi allora a una vita povera, a una vita borghese, mettere su famiglia, mettere su casa, leggere il giornale ogni giorno, comperare la radio e il giornale umoristico; farci stampare il biglietto di visita, non è neanche questo nelle nostre possibilità; un giorno potrebbe avvenire il risveglio dei vecchi istinti e allora quale catastrofe, non per noi, ma per coloro che abbiamo compromesso col nostro falso addomesticamento. No, non vi sono vie d'uscita, per noi, per noi doveva essere riservata al colmo delle nostre imprese la bella morte, chiudere così la partita e lasciare libero il terreno della vita alle nuove generazioni, quelle che saranno capaci di vivere più pacatamente, meno inquiete, più felici, più fiduciose nell'avvenire non ancora esplorato da loro. E intanto dobbiamo vivere così come vecchi leoni che si sentono le zanne vacillare in bocca e si guardano gli artigli un tempo rapaci, ammollirsi o spezzarsi ogni giorno. Noi che abbiamo avuto un passato, non possiamo più avere un avvenire e il presente ci è d'un peso durissimo che non sappiamo come sopportare. (Comisso 2008, 80-1) Indubbiamente non è questo lo stile di Hemingway; si sente che la prosa non è la sua, eppure le idee che sono espresse in questo brano si attaglierebbero perfettamente alla lost generation immortalata in Fiesta. Anche Jake Barnes e i suoi amici non hanno più alcun ideale e non credono più a nulla, esattamente come Giovanni Comisso, che nella quarta delle Satire italiane racconta di aver scritto queste righe a un amico della sua stessa generazione “che ritornato dall'America, dove aveva accumulato denaro, aveva deciso di comperarsi una piccola tenuta e mettersi a fare l'agricoltore” (Comisso 2008, 81). E quello delineato da Comisso è un itinerario che ricorda il percorso di Frederic Henry, il protagonista di Addio alle armi, che alla fine del romanzo non pare avere un avvenire e sembra gravato di un pesantissimo presente che non sa come sopportare. Questa strana comunanza di stati d'animo e opzioni esistenziali tra lo scrittore americano e quello italiano non dovrebbe sorprendere più di tanto se si pensa che appartenevano ambedue alla medesima generazione, nato Comisso nel 1895 e Hemingway solo quattro anni dopo: avrebbero potuto essere fratelli, e con un po' di buona volontà li possiamo considerare brothers in arms, essendosi trovati entrambi sul fronte italiano durante la Grande guerra; Hemingway per un tempo assai più breve di Comisso, va aggiunto, ma – a differenza dello scrittore trevigiano – ferito e decorato con medaglia d'argento al valor militare. Entrambi, nel dopoguerra, vissero vite irrequiete e nomadi, diventando scrittori e giornalisti; entrambi tornarono alle loro esperienze al fronte, Hemingway col best-seller planetario Addio alle armi, nel 1929, Comisso con l'assai meno famoso memoriale Giorni di guerra, nel 1930. Siamo di fronte a due testi separati dalla lingua, dal genere (romanzo quello di Hemingway, memoriale quello di Comisso), da diverse concezioni dello stile, dalle vicissitudini (Comisso era nell'alta valle dell'Isonzo il 43 ‘900 Transnazionale 3, 1 (Marzo 2019) ISSN 2532-1994 doi: 10.13133/2532-1994_3.4_2019 Open access article licensed under CC-BY giorno del crollo del fronte italiano, mentre Hemingway arrivò sul fronte del Piave solo nel giugno del 1918, ben dopo la rotta di Caporetto) eppure accomunati dallo stesso territorio coperto dai loro testi: entrambi infatti raccontano la ritirata del Regio Esercito che si svolse dal 24 ottobre al 12 novembre 1917. Il primo, in qualità di testimone coinvolto nei fatti; il secondo mediante un lavoro di ricostruzione, come vedremo, singolarmente aderente alla realtà storica della battaglia e della successiva rotta. Proprio per questo motivo i due libri, Addio alle armi e Giorni di guerra, si prestano a un'analisi comparatistica che può gettare luce su entrambi proprio nella misura in cui si evidenzino i punti di contatto degli spazi virtuali che proiettano. Ma le sintonie tra i due iniziano già prima del fatidico 24 ottobre, quando ancora non s'era scatenato sulle linee italiane il micidiale attacco con uso massiccio di gas e fuoco d'artiglieria concentrato che avrebbe iniziato lo sfondamento. C'è infatti qualcosa che il protagonista di Addio alle armi dice all'amico Gino mentre si trovano sull'altipiano della Bainsizza (quindi ben più a sud della zona di Caporetto), una battuta che non sembra particolarmente importante, ma è in pratica una prolessi nascosta: “Non credevo nella guerra in montagna. Ci avevo pensato parecchio, dissi. Ti pigliavi una montagna e loro se ne pigliavano un'altra ma quando cominciava qualcosa sul serio dovevi scendere giù dalle montagne. […] Dovresti avere una possibilità di mobilità e una montagna non è molto mobile” (132)1. Sembra facile ironia, quella di Frederic, ma se la mettiamo in relazione con questo passo di Giorni di guerra di Comisso diviene invece un'osservazione quantomai concreta e puntuale: “Quando fummo a una certa altezza, si distinse nell'aria fatta serena qualche stella e la cima del Rombon con le gallerie illuminate. 'Quelli sono ancora lassù e non sanno che noi ci siamo ritirati. Li prenderanno tutti prigionieri,' uno mi disse” (Comisso 2009, 137). In questo momento lo scrittore trevigiano sta abbandonando la conca di Plezzo (nei pressi di Caporetto), consapevole che il fondo valle dell'Isonzo sta venendo rapidamente occupato dagli austro-tedeschi; Comisso non tenta neanche di ridiscendere la valle in cerca di salvezza, sale sulle montagne opposte a quelle del fronte, ancora presidiate dai reparti italiani, ignari che il nemico sta dilagando in basso, lungo la valle alle loro spalle, tagliando loro la via della ritirata; il Rombon (mt. 2.202, situato proprio sopra Plezzo) è appunto una delle cime ancora tenute (e inutilmente) dai fanti italiani. Esattamente ciò che ha (inconsapevolmente?) predetto Fredric: gli austriaci e i tedeschi sono scesi dalle montagne, e stanno facendo succedere qualcosa (anzi parecchio); gli italiani sono immobilizzati sulla cresta montuosa a est della valle dell'Isonzo. Resteranno lì finché, come il tenente degli Alpini Carlo Emilio Gadda 2, scopriranno di essere accerchiati e si dovranno arrendere. Questo errore strategico degli italiani viene criticato anche da un altro scrittore che la Grande guerra l'aveva vissuta sulla propria pelle, il tenente Emilio Lussu della brigata “Sassari”, autore del celebre memoriale Un anno sull'altipiano (1938), che mette in bocca al colonnello Abbiati una critica della dottrina strategica italiana: L'idea è sbagliata di sana pianta. Ma è scritto nei testi che, tenendo la vetta d'una montagna, si possa impedire al nemico di passare per la vallata sottostante. (...) E come lo impediscono i nostri venti Data la serie di errori e discutibili scelte traduttive che costellano la versione di Fernanda Pivano, l'unica ancora in stampa, si è preferito ricorrere a una versione di servizio dei passi citati, rimandando a un'edizione di lingua inglese del romanzo di Hemingway. 2 Che narrerà la sua umiliante esperienza durante la battaglia di Caporetto nel suo Taccuino di Caporetto, pubblicato postumo nel 1991. 1 44 ‘900 Transnazionale 3, 1 (Marzo 2019) ISSN 2532-1994 doi: 10.13133/2532-1994_3.4_2019 Open access article licensed under CC-BY battaglioni, da lassù? Con l'artiglieria? Ma non ne abbiamo un solo pezzo (...) con le mitragliatrici e i fucili? Armi inutili, a tanta distanza. (Lussu, 37) Infatti i reparti italiani sul Rombon e le altre cime a oriente dell'Isonzo nulla poterono fare per arrestare l'infiltrazione degli austro-tedeschi nel fondovalle, sempre posto che ne fossero informati. Già questo passaggio dimostra che, pur essendo giunto in Italia ben dopo la disfatta di Caporetto, Hemingway aveva le idee piuttosto chiare su cosa aveva portato a quel disastro e come erano andate effettivamente le cose; una conoscenza che poteva aver acquisito assai verosimilmente nei mesi trascorsi in Italia nel 1918, parlando con soldati e ufficiali italiani che avevano vissuto la rotta in prima persona. Un altro, breve passo del romanzo attesta che Hemingway si era ben documentato. Parlando con un maggiore del Regio esercito che Frederic ha incontrato a Udine, l'americano si sente dire: “Forse attaccheranno adesso. Dicono che stanno per attaccare ma non ci posso credere. È troppo tardi. Hai visto il fiume?” “Sì, è già in piena.” “Non credo che attaccheranno adesso che sono cominciate le piogge. Presto avremo la neve.” (Hemingway, 119) Hemingway ci fa capire che ben prima dell'attacco a Caporetto circolavano voci su una possibile offensiva austriaca nel tardo autunno, ma anche che queste notizie non venivano credute. E Comisso conferma, aggiungendo che le voci erano tanto insistenti da spingere a fare dei preparativi: “Si sapeva che avrebbero attaccato tra qualche giorno. Per questo erano state inviate sul nostro settore molte truppe di rinforzo” (Comisso 2009, 121). E un'ulteriore conferma del fatto che l'offensiva a fine ottobre non fosse del tutto inattesa ce la fornisce un altro memoriale della Grande guerra, Diario di un imboscato, di Attilio Frescura: 22 ottobre CROCEVARO. Eccoci scaraventati a Crocevaro, come divisione di riserva. Sembra che l'attacco nemico sia imminente. Noi occuperemmo Monte Matajur e Monte Mia in caso che il nemico, superato l'Isonzo, tenti di forzare la val Rieca. Ma l'ipotesi è assurda, dicono i competenti. Sono stato oggi […] in ricognizione sul Matajur. […] A mezza costa abbiamo riconosciuto la bella linea di trincee che dovrebbe essere occupata dalle nostre truppe: è un magnifico lavoro difensivo […]. Non so come il nemico speri di poter salire quassù, da dove scendere è arduo. Ma si cacceranno a sassate da quassù! (Frescura 1981, 244) I monti Matajur e Mia appartengono proprio a quella catena di rilievi che Comisso dovrà scavalcare per lasciare la valle dell'Isonzo senza essere catturato. A sentire Frescura sembrerebbe tutto previsto, eppure il 45 ‘900 Transnazionale 3, 1 (Marzo 2019) ISSN 2532-1994 doi: 10.13133/2532-1994_3.4_2019 Open access article licensed under CC-BY piano difensivo non funzionò e le forze austro-tedesche non solo dilagarono nella valle dell'Isonzo, ma ne uscirono per occupare il Friuli, fermandosi solo sul Piave. Il motivo di questo fallimento può essere quello addotto da Gino in una conversazione con Frederic? Le nostre truppe erano ancora sulle posizioni d'attacco. Non c'erano cavi telefonici degni di nota e nessun posto sul quale ripiegare se dovesse esserci un attacco austriaco. C'erano belle postazioni difensive sulle montagne più basse che venivano su dall'altipiano ma non avevano fatto niente per organizzarle per la difesa. (Hemingway, 131) Generalmente gli storici concordano nell'affermare che fu la mancata predisposizione e attuazione di piani per la difesa e la controffensiva a causare il collasso della Seconda armata del generale Capello e la rotta di Caporetto. Si può riportare a mo' di sintesi quello che afferma Nicola Labanca: La sorpresa tattica e strategica dei comandi, la novità della tecnica dell'infiltrazione, la disposizione delle truppe tutte avanti e senza un adeguato sistema di linee di arresto alle spalle, la mancanza di una rilevante forza di riserva a disposizione del Comando supremo, soprattutto l'assoluta mancanza di procedure pianificate già preparate per la battaglia difensiva: tutto questo […] trasformò un'infiltrazione che avrebbe potuto avere un rilievo solo tattico e locale, in uno smacco strategico e generale di dimensioni tali da cambiare il segno alla guerra italiana […]. (Labanca 2014, 478) Ancora una volta, quelle che in Addio alle armi possono sembrare osservazioni occasionali, considerazioni del protagonista inserite solo per dare consistenza al personaggio o per intensificare un effetto di realtà, risultano invece rimandare puntualmente alla reale situazione sul fronte dell'Isonzo subito prima della rotta. Esse vanno lette come prolessi nascoste, accenni a ciò che accadrà a partire dal 24 ottobre, e che inizialmente Hemingway racconta in modo alquanto asciutto e non senza ironia: “Non attaccarono quella notte ma sentimmo che avevano sfondato a nord. La notte ci giunse la voce che dovevamo prepararci alla ritirata” (Hemingway, 134); “La notte dopo cominciò la ritirata” (Hemingway, 135). Non solo: l'accuratezza della descrizione hemingwayana si manifesta anche in queste considerazioni: “La ritirata fu ordinata, bagnata e tetra. […] Non c'era più disordine che in un'avanzata.” (Hemingway, 135). Ricordiamo infatti che il giorno dello sfondamento a Caporetto Frederic non si trova a Plezzo come Comisso, nei pressi del tratto di fronte annientato e penetrato dagli austro-tedeschi, bensì più a sud, sulla Bainsizza. A differenza dello scrittore italiano, non vede i reparti italiani disgregarsi e le truppe nemiche arrivare fulmineamente, senza che arrivino ordini precisi dai comandi. Ma una volta arrivato con le sue ambulanze nei pressi di Udine, anche il personaggio di Hemingway si trova bloccato nel caos della disordinata ritirata italiana: “Poi il camion si arrestò. L'intera colonna venne fermata. […] Il blocco era molto più avanti. […] Questo blocco poteva estendersi fino a Udine.” (Hemingway, 140). Le descrizioni di strade intasate da una calca di persone e veicoli che troviamo nelle pagine di Addio alle armi trovano eco puntuale nelle pagine di Comisso; e la decisione di Frederic di abbandonare la strada maestra e avventurarsi nella campagna (“Sapevo che saremmo dovuti uscire da quella strada principale in qualche 46 ‘900 Transnazionale 3, 1 (Marzo 2019) ISSN 2532-1994 doi: 10.13133/2532-1994_3.4_2019 Open access article licensed under CC-BY modo e attraversare la campagna se volevamo avere qualche speranza di raggiungere Udine” [Hemingway, 143]) è simile a quella presa dallo scrittore italiano: “Ripresa la marcia si giunse la sera a Tricesimo, ma le vie erano così piene di soldati in disordine, erranti e frenetici e attraversate da carriaggi, da autocarri, da grossi cannoni, che decisi di pernottare nella campagna” (Comisso 2009, 154). Le coincidenze tra la narrazione di Comisso e quella di Hemingway non si fermano qui. La squadra di Frederic in pratica saccheggia una casa abbandonata dagli abitanti: è vero che quando uno dei sergenti fa per rubare un orologio viene fermato da Frederic, poi però i suoi autisti svuotano la cantina, e pasteggiano con mele formaggio e vino (Hemingway 144-5). Da parte loro i genieri di Comisso sono molto più intraprendenti: Nelle brevi fermate, mentre [le donne] si ravvivavano nel conversare con noi, una squadra di alcuni miei soldati, piccoli e furbi, penetrava nei cortili e vuotava i pollai, Poi fuori dall'abitato venivano da me e sotto alla giubba traevano morte galline e conigli che giudicavo assai utili. (Comisso 2009, 1589) Comisso giunge a scrivere per i suoi soldati un “Buono di requisizione d'un bue” (Comisso 2009, 170). Ma si può anche essere vittima delle generalizzate ruberie: quando lo scrittore riceve ospitalità per la sua squadra da una famiglia di contadini di San Vendiemiano solo a patto di non toccare il maialino del padrone di casa, e cerca di proteggere il suino mettendo di guardia un soldato con tanto di baionetta inastata, deve constatare il giorno dopo che l'animale è stato comunque rubato, tanto che Comisso deve sporgere denuncia ai Carabinieri (Comisso 2009, 172-4). Sicuramente il tono è più di commedia in queste pagine e più cupo e minaccioso in Hemingway, ma entrambi gli ufficiali, quello reale di Giorni di guerra e quello immaginario di Addio alle armi sono alle prese con la stessa preoccupazione: sforzarsi di tenere insieme il proprio reparto evitando che si disintegri nel caos circostante. I metodi poco ortodossi per trovare del cibo rientrano in questo sforzo. Frederic Henry ha un ulteriore motivo per tentare di scongiurare lo scioglimento della sua squadra, inclusi i due sergenti del genio che si sono uniti a loro strada facendo. Il tenente americano vuole assolutamente portare in salvo le autoambulanze che gli sono state consegnate, e i due genieri gli tornano utili per spingere le ambulanze quando si impantanano. Quando i due cercano di andarsene, proprio nel momento in cui non si riesce a disincagliare uno degli autoveicoli (Hemingway, 146), la reazione di Frederic è decisamente esasperata, e per certi versi difficile da capire3: spara e abbatte uno dei sottufficiali, che poi viene finito da 3 Non a caso l'uccisione del sergente viene discussa in ben tre saggi della raccolta Hemingway's Italy, e cioè “'Suddenly and Unreasonably': Shooting the Sergeant in A Farewell to Arms”, di Ellen Andrews Knodt (dove si ricapitolano anche, utilmente, i precedenti contributi che toccato quest'episodio), “At the Heart of A Farewell to Arms”, di Linda Wagner-Martin, e “Ettore Moretti: Hemingway's ‘Legitimate War Hero’?”, di Robert E. Fleming. 47 ‘900 Transnazionale 3, 1 (Marzo 2019) ISSN 2532-1994 doi: 10.13133/2532-1994_3.4_2019 Open access article licensed under CC-BY Bonello (Hemingway, 146-7)4. Che si giunga a uccidere pur di tenere insieme il proprio reparto, però, può avere un senso se si tiene in considerazione ciò che accadrà successivamente al tenente Henry, al momento di passare sul Tagliamento, come vedremo. In ogni caso questa preoccupazione è condivisa da Comisso; fin dall'inizio teme di essere deferito al tribunale militare per essersi allontanato dal suo reparto a Plezzo, avendo creduto alle parole di un colonnello che gli aveva detto dell'abbandono di Hum (località sede del comando) da parte dello stato maggiore (Comisso 2009, 149). Ritrovati i suoi uomini strada facendo, Comisso cerca di tenerli insieme, proprio come fa Frederic nel romanzo di Hemingway, perché la ritirata non si trasformi in vera e propria fuga. Da cosa si fugga lo dice lo stesso Comisso, quando arringa i suoi soldati: “Conosco il vostro debole e so chi vi riscalda la testa. Voi tremate per la paura di vedere arrivare gli austriaci all'angolo di quella strada e non sapete più pensare serenamente.” (Comisso 2009, 157). E la paura dell'inseguimento da parte degli austro-tedeschi si manifesta anche in uno scambio di battute in Addio alle armi: “La prima cosa che vedremo sarà la cavalleria,” disse Piani. “Non penso che abbiano la cavalleria.” “Cristo, spero di no,” disse Bonello. “Non voglio essere infilzato sulla lancia di nessuna – cavalleria.” (Hemingway, 149) La cavalleria non si manifesta, ma poco dopo (Hemingway, 150-2) c'è una fulminea apparizione di ciclisti tedeschi prima, poi di un'automobile dello stato maggiore tedesco, che materializzano la paura di essere tagliati fuori, accerchiati, catturati. E Comisso, da parte sua, consapevole della paura che attanaglia i suoi uomini e della tentazione di sbandarsi, prende precauzioni: “Si marciava per due, io in testa e i sergenti in coda per sorvegliare che nessuno sfuggisse” (Comisso 2009, 159). La ritirata è resa difficile anche dal fatto che, sia nel caso di Frederic Henry, sia in quello di Comisso, avviene in direzione est-ovest, quindi incrociando i vari corsi d'acqua del Friuli. Proprio in quei giorni il Regio Esercito si trova alle prese con un lacerante dilemma: far saltare in aria i ponti per arrestare o comunque rallentare l'avanzata del nemico, ma così facendo tagliare fuori le truppe italiane che si stanno ancora ritirando; oppure lasciare intatti i ponti e far ritirare i soldati, a rischio però che l'avanzata austro-tedesca possa raggiungere Venezia e dilagare nella pianura Padana? Si agì probabilmente cercando di barcamenarsi tra le due alternative, e questo spiega il seguente sfogo di Frederic Henry: “Perché non c’è qualcuno qui a fermarli [le truppe tedesche e austro-ungariche]? [...] Perché non hanno fatto saltare in aria il ponte? Perché non ci sono le mitragliatrici lungo questa riva? [...] Tutta Il gesto di Bonello (che è un socialista) ha tutt'altro significato: il meccanico dichiara infatti “Non ho mai ammazzato nessuno in questa guerra, ed è da una vita che volevo accoppare un sergente” (Hemingway, 149). 4 48 ‘900 Transnazionale 3, 1 (Marzo 2019) ISSN 2532-1994 doi: 10.13133/2532-1994_3.4_2019 Open access article licensed under CC-BY questa maledetta storia è folle. Laggiù [i genieri italiani] fanno saltare un ponticello. Qui lasciano un ponte sulla strada principale. Ma dove sono finiti tutti quanti? Non cercano di fermarli?" “Ce lo dica un po’ lei, Tenente” (Hemingway, 152) La ricerca di un ponte che consentisse di attraversare i vari fiumi, soprattutto il Tagliamento che era in piena, fu un problema anche per Comisso: “Si seppe che il ponte di Bonzicco era crollato nella notte trascinato dalla piena: per questo nessuno percorreva quella strada. Ci rimaneva allora solo da puntare verso Codroipo per passare il Tagliamento sul Ponte della Delizia” (Comisso 2009, 162). E nelle pagine di un altro testimone oculare, Attilio Frescura, troviamo un commento assai prossimo alle parole che Hemingway mette in bocca a Frederic: [A Folgaria] abbiamo saputo che fra il ponte di Cornino e quello di Pinzano c'è un terzo ponte militare in legno, che i comandi superiori hanno semplicemente dimenticato, o ignorato, non segnato in nessuna carta topografica! E di lì sarebbe sfilato comodamente tutto il materiale abbandonato sulla strada San Daniele-Pont di Pinzano! (Frescura 1981, 277-8) Arrivati al Tagliamento, i percorsi di Comisso e del protagonista di Addio alle armi divergono nettamente. Lo scrittore italiano trova una situazione tutto sommato rassicurante: “Come un'altra aria era di là. Qualcuno fermo ci guardava arrivare e sorrideva. I campi vicini erano invasi da soldati che accendevano fuochi. Uno s'era messo a radere barbe all'aperto” (Comisso 2009, 164). Frederic invece non si sente affatto al sicuro: Prima che si facesse giorno raggiungemmo la sponda del Tagliamento e la seguimmo lungo il fiume in piena fino al ponte dove tutto il traffico stava attraversando. […] Proseguimmo sulla sponda e poi ci facemmo strada a fatica in mezzo alla folla che stava attraversando sul ponte. […] Non c'era entusiasmo nell'attraversare il fiume. Mi chiesi come sarebbe andata se un aereo l'avesse bombardato durante il giorno. (Hemingway, 160) Non a caso proprio sul ponte che scavalca il Tagliamento Frederic verrà preso per una spia tedesca e arrestato, e rischierà la fucilazione sommaria; per salvarsi la vita sarà costretto a disertare, gettandosi nel fiume in piena e facendosi trascinare via. E neanche in questo caso si può dire che lo scrittore americano si sia discostato troppo dalla realtà storica, dato che L'esercito italiano fu quello che eseguì il maggior numero di fucilazioni, che comminò il più alto numero di anni di carcere, che portò più soldati al fronte ai tribunali militare, in proporzione al numero dei mobilitati e alla durata del conflitto (il 6% dei mobilitati fu rinviato a giudizio per qualche reato e il 4% subì una condanna penale). (Smith 2014, 364-5) Stando a Isnenghi e Rochat (2004, 389) di fucilazioni sommarie ve ne furono effettivamente, anche se in numero fortunatamente ridotto (meno di 50 accertate), quindi anche questo drammatico episodio non è semplicemente parto della fantasia di Hemingway. 49 ‘900 Transnazionale 3, 1 (Marzo 2019) ISSN 2532-1994 doi: 10.13133/2532-1994_3.4_2019 Open access article licensed under CC-BY Dopo il Tagliamento i percorsi di Comisso e di Frederic Henry divergono completamente; come si sa il personaggio di Hemingway diserterà, raggiungerà Catherine e poi passerà con lei il confine italo-svizzero per rifugiarsi nell'unica isola di pace in un'Europa straziata dalla guerra. Come dirà lo stesso Frederic, per lui la guerra è finita, continuino gli italiani, ai quali augura buona fortuna (Hemingway, 167), ma quello che sta andando in scena nella pianura friulana e tra poco sulle rive del Piave è uno spettacolo del quale lui non farà più parte. Comisso invece raggiungerà casa dei suoi a Treviso 5, dove trascorrerà una sorta di licenza “autogestita”, per poi tornare nel Regio Esercito e continuare a combattere. Proprio al successivo corso della guerra sul fronte italiano, del quale Hemingway non pare interessarsi più nel suo romanzo, potrebbero comunque fare riferimento alcune battute di un dialogo tra Gino e Frederic, che andrebbero quindi lette come ennesima prolessi nascosta: “Ai vecchi tempi gli austriaci venivano sempre bastonati nel Quadrilatero attorno a Verona. Li lasciavano scendere in pianura e li bastonavano lì.” […] “Quando si tratta del tuo paese non lo puoi usare così scientificamente.” “I russi l'hanno fatto, per intrappolare Napoleone.” “Sì, ma quelli avevano un sacco di spazio. Se provassi a ritirarti per intrappolare Napoleone in Italia ti ritroveresti a Brindisi.” (Hemignway 132) E non è esattamente quello che accadde dopo la ritirata di Caporetto? Certo, gli austro-tedeschi vennero fermati sul Piave (o meglio la Piave, com'era chiamata allora), non arrivarono fino a Verona (né tanto meno a Brindisi...), ma fu in pianura che il loro tentativo di dare il colpo di grazia all'Italia ripetendo le tattiche usate a Caporetto venne sventato nella battaglia del Solstizio (giugno 1918), grazie alla più razionale organizzazione difensiva impostata da Armando Diaz e anche a un trattamento meno disumano della truppa. Il fallimento dell'ultima grande offensiva austriaca suonò la campana a morto per l'Impero austro-ungarico, per cui si può ben dire – parafrasando Hemingway – che solo quando gli italiani ebbero lasciato scendere in pianura gli austriaci poterono bastonarli, al punto che nel novembre dello stesso anno fu il Regio Esercito a dare il colpo di grazia a quello imperial-regio, ormai in avanzato stato di decomposizione. Ancora una volta, le battute apparentemente marginali nei dialoghi di Addio alle armi appaiono molto meno gratuite di quel che può sembrare a una lettura distratta. Siamo alle prese con la teoria dell'iceberg propugnata da Hemingway in Morte nel pomeriggio, secondo la quale non tutto quel che il romanziere sa dei suoi personaggi e di quel che Giorni di guerra è ricco di indicazioni topografiche, per cui è possibile ricostruire le tappe del viaggio di Comisso: Plezzo (oggi Bovec, in Slovenia) → Hum → Passo di Tanamea → Topodlipo – Valle di Musi → Nimis → Colloredo di Montalbano → Fagagna → Codroipo → Pordenone → Sacile → San Vendemiano → Conegliano → Treviso. Il percorso del tenente Henry, meno ricco di indicazioni topografiche, passa comunque più a sud, snodandosi comunque da est a ovest. 5 50 ‘900 Transnazionale 3, 1 (Marzo 2019) ISSN 2532-1994 doi: 10.13133/2532-1994_3.4_2019 Open access article licensed under CC-BY accade loro (nonché, dobbiamo ormai aggiungere, del loro contesto storico) deve essere esplicitato e comparire sulla pagina. Questo vale anche per la costruzione stessa del romanzo. A differenza di Comisso, che racconta sulla base delle sue esperienze, Hemingway costruisce A Farewell to Arms attingendo solo in parte ai propri ricordi; certo, aveva materiale di prima mano per il ferimento di Frederic, che replica il suo, ma poteva accedere ai fatti di Caporetto solo indirettamente. Come ha dimostrato Robert W. Lewis, aveva attinto alle memorie di guerra dello storico britannico G. M. Trevelyan, Scenes from Italy's Wars (1919), che gli hanno fornito il traliccio diegetico delle peregrinazioni di Frederic da Plava al Tagliamento, nonché l'episodio della Battle Police. Ma c'è da ritenere che anche altre fonti abbiano contribuito al lavoro di ricerca che sta alla base del romanzo. Non sarà un caso se il conte Greffi dichiara di aver letto Il fuoco (Le feu, 1916) di Henri Barbusse, uno dei primi libri scaturiti dalla Grande guerra, pubblicato quando il conflitto era ancora in corso, e Mr. Britling Sees It Through (1916) di H.G. Wells, il romanzo col quale lo scrittore inglese, pur non avendo preso parte al conflitto, fa i conti con le perdite umane che sta causando (Hemingway, 186). Frederic è piuttosto scettico, se non sprezzante, specie nei confronti del romanzo di Wells; per cui possiamo leggere le parole del conte come ironia nei confronti di chi la guerra l'ha conosciuta solo attraverso le proprie letture. Ma queste citazioni, oltre a rafforzare l'effetto di realtà della narrazione 6, possono anche essere state inserite da Hemingway col preciso intento di far sapere ai suoi lettori che è a conoscenza del pregresso, della letteratura testimoniale del conflitto (infatti il sarcasmo di Frederic non tocca il libro di Barbusse, scritto da uno che nelle trincee c'era stato veramente). Non c'è forse migliore chiusa, comunque, per questo articolo, che lasciare la parola un'ultima volta a Giovanni Comisso, che parlò di Hemingway in un ricordo dell'autore americano, apparso sul Caffè nell'agosto del 1961 – si noti bene, praticamente a ridosso della morte dello scrittore, e quindi da considerarsi anche come una sorta di necrologio. Un brano in particolare è decisamente degno di nota: Con Hemingway ho avuto diversi incontri. Prima di tutto, durante la prima guerra mondiale, noi si mangiava qualche volta alla stessa lunga tavola dell'ospedaletto inglese a Villa Trento di Dolegnano, diretto da Trevelyan, lo storico inglese di Garibaldi. Io vi andavo per salutare il dottore italiano, mio amico, Lionello De Lisi, diventato poi uno dei più celebri neurologi d'Italia. Hemingway guidava una autoambulanza americana aggregata all'ospedale e il mio amico De Lisi me l'aveva indicato, quando si stava a tavola, non come una personalità letteraria, perché allora non aveva ancora scritto qualcosa, ma perché rappresentava una eccezionalità come americano sul nostro fronte, senza che l'America avesse ancora dichiarato guerra agli imperi centrali. (Comisso 1961, 22) Potrebbe sembrare la quadratura del cerchio: i due scrittori si sono incontrano proprio sul fronte italiano, prima del ferimento dell'autore di Addio alle armi, cosicché queste parole paiono quasi autenticare la 6 Si noti che entrambi i libri erano stati pubblicati l'anno prima della rotta di Caporetto, quindi erano novità delle quali si parlava ancora nel 1917. 51 ‘900 Transnazionale 3, 1 (Marzo 2019) ISSN 2532-1994 doi: 10.13133/2532-1994_3.4_2019 Open access article licensed under CC-BY narrazione hemingwayana. Però c'è qualcosa che stona. Secondo Comisso, Hemingway era sul fronte italiano prima che gli Stati Uniti dichiarassero guerra agli imperi centrali; ma la dichiarazione di guerra risale al 6 aprile 1917, mentre lo scrittore giunse in Francia solo il 29 maggio 1918, e non raggiunse il fronte italiano prima di giugno. Non basta; Dolegnano è una frazione del comune di San Giovanni al Natisone, una cittadina friulana che si trova in quella parte della regione che nel giugno 1918 era occupata dagli austriaci, ben dietro le linee. Il fronte si trovava almeno 80 chilometri più a oriente, sul corso del Piave (il Natisone essendo un affluente dell'Isonzo). Insomma, c'è una doppia impossibilità che falsifica il ricordo di Comisso. Si può ovviamente pensare che Comisso abbia veramente visto Hemingway al fronte, ma dopo l'entrata in guerra degli Stati Uniti e diverse decine di chilometri più a ovest; e che la memoria gli abbia giocato qualche brutto scherzo, anche a causa della non più tenera età (lo scrittore trevigiano aveva 76 anni quando scrisse questo pezzo). Però l'attacco dell'articolo può anche autorizzare una diversa interpretazione del testo. Scrive infatti Comisso: Tempo fa una rivista mia aveva proposto un articolo su Hemingway, ma non avevo voglia di scriverlo sebbene alcuni critici abbiano avvicinato certa cadenza del mio stile al suo, e sebbene entrambi si abbia scritto un libro sulla guerra sul fronte italiano e testimoniata la ritirata di Caporetto. (Comisso 1961, 22) Come mai Comisso aveva poca voglia di scrivere su Hemingway? Forse perché sapeva che, a differenza di lui, lo scrittore americano aveva scritto un romanzo, non memoriale? Che, nonostante la sua accuratezza, Addio alle armi restava oltre la linea che divide fact e fiction? Nel resto del suo articolo, Comisso accenna a un suo precedente scritto su Hemingway, nel quale si raccontava che lo scrittore americano s'era dimostrato un pessimo tiratore durante una battuta di caccia alle anatre, facendo spazientire i suoi compagni; si riferiva inoltre un aneddoto secondo il quale l'autore di Addio alle armi, tornato dopo più di vent'anni nel luogo in cui era stato ferito nel 1918, s'era appartato non tanto per meditare sul tempo passato, quanto per liberarsi l'intestino, lasciando lì anche una banconota da 100 dollari che aveva usata come carta igienica. Aggiunge Comisso che “[i]n quel tempo Hemingway si trovava a Cortina nella Villa Aprile. Non so come abbia avuto occasione di leggere il mio articolo” (Comisso 1961, 23). La reazione dello scrittore americano è all'inizio di tale indignazione da spingerlo a scrivere una “lettera feroce” al suo collega italiano, ma poi finisce tutto con una bevuta di vino e una sbronza a dir poco hemingwayana, che costringerà lo scrittore a recarsi a Padova per farsi curare e poi a tornare in America. Sono queste storie vere raccolte da Comisso per tramite di conoscenti in comune, oppure invenzioni magari tese a irridere uno scrittore al cui romanzo aveva arriso un successo ben superiore a quello riscosso dal pur veritiero memoriale dell'ex-tenente del genio? Siamo alla semplice maldicenza letteraria, magari alimentata dall'invidia, un genere che ha sempre avuto fortuna sulle riviste, generosamente alimentato da quegli scrittori, come per l'appunto Hemingway, che hanno fatto della loro vita parte integrante del loro mito, e anche della loro opera? Non è impossibile, però va anche tenuto conto del fatto che lo stesso Comisso ha praticato lo stesso gioco, in opere come Il porto dell'amore o Satire italiane, dove la vita vissuta si tramuta incessantemente in letteratura. 52 ‘900 Transnazionale 3, 1 (Marzo 2019) ISSN 2532-1994 doi: 10.13133/2532-1994_3.4_2019 Open access article licensed under CC-BY Sia come sia, un'altra lettura è possibile: che lo scrittore trevigiano voglia imbastire, specie nella prima parte dell'articolo, la sua piccola fiction, portando Hemingway in Italia prima di quando vi fosse realmente giunto; scambiandolo col suo personaggio, Frederic Henry, come per dimostrare che al gioco dell'invenzione alimentata da materiali biografici sa giocare anche lui. In ogni caso, nelle ultime parole dell'articolo si avverte più l'amarezza e il rammarico che lo scherno, quando Comisso chiude così: “Questo pessimo cacciatore, questo ottimo artista, ha finito, in questi giorni, coll'adoperare ancora una di quelle armi e con lo sbagliare ancora il bersaglio” (Comisso 1961, 24). Comisso non credeva al personaggio greater than life che Hemingway s'era confezionato addosso, al punto da prenderlo in giro; però non aveva dubbi che dietro il personaggio si nascondesse un ottimo artista. Bibliografia Comisso, Giovanni. Giorni di Guerra. Milano: Longanesi, 2009. ̶ ̶ ̶ ̶ ̶ . "Hemingway tra noi." Il caffè, 4 (agosto 1961): 22-4. ̶ ̶ ̶ ̶ ̶ . Satire italiane. Milano: Longanesi, 2008. Frescura, Attilio. Diario di un imboscato. Milano: Mursia, 1981. Hemingway, Ernest, A Farewell to Arms, London: Grafton, 1977. Isnenghi, Mario e Giorgio Rochat. La Grande Guerra 1914-1918. Milano: Sansoni, 2004. 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