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Da Hans a Hannah – il "duce" di Bolzano e la sfida di Arendt

2018, Il Cristallo. Rivista di varia umanità, LX—1

Ne ha parlato persino il rinomato quotidiano britannico "The Guardian", con un titolo che tentava di riassumere in un’unica frase l’arduo esercizio svoltosi a Bolzano, a riguardo del fregio monumentale di Hans Piffrader 2.0 in piazza Tribunale, dal novembre del 2017 “emendato” con una citazione della grande filosofa Hannah Arendt. Il quotidiano londinese titolava: "A small Italian town can teach the world how to defuse controversial monuments" - una piccola città in Italia può insegnare al mondo come depotenziare monumenti controversi. E ancora: Alla faccia di chi chiedeva o di ‘rimuovere’ o di ‘lasciare intatto’ un monumento fascista, nella città di Bolzano si scelse un’opzione che in retrospettiva appare una strategia molto più intelligente. Estendendo le sue righe, l’autore dell’articolo, un professore di scienze politiche che insegna a New York, avrà anche avuto in mente la “guerra della memoria” statunitense manifestatasi a Charlottesville nel Virginia, ove gruppi suprematisti bianchi si erano opposti violentemente alla richiesta di tirar giù la controversa statua equestre del generale confederato Robert E. Lee, genio militare degli Stati secessionisti del sud nella guerra civile americana, e anche convinto sostenitore dello schiavismo. A Bolzano vi era pure questo rischio di contrapposizione che qui, come al solito, poteva essere declinato sul crinale del cleavage etnico, e pertanto divenire l’ennesima mina rispetto alla riconciliazione tra due popolazioni che hanno vissuto, e qualche volta accettato fascismo e nazismo e che tutt'ora hanno visioni diverse di quella storia.

LA PROVINCIA DIFFICILE Da Hans a Hannah – il “duce” di Bolzano e la sfida di Arendt Hannes Obermair Ne ha parlato persino il celebre quotidiano britannico «The Guardian», con un titolo che tentava di riassumere in un’unica frase l’arduo esercizio svoltosi a Bolzano, a riguardo del fregio monumentale di Hans Piffrader 2.0 in piazza del Tribunale, dal novembre del 2017 “emendato” con una citazione della grande filosofa Hannah Arendt. Il quotidiano londinese titolava: A small Italian town can teach the world how to defuse controversial monuments – una piccola città in Italia può insegnare al mondo come depotenziare monumenti controversi.1 E ancora: Alla faccia di chi chiedeva o di “rimuovere” o di “lasciare intatto” un monumento fascista, nella città di Bolzano si è scelta un’opzione che in retrospettiva appare una strategia molto più intelligente. Estendendo le sue righe, l’autore dell’articolo, un professore di scienze politiche che insegna a New York, avrà anche avuto in mente la “guerra della memoria” statunitense manifestatasi a Charlottesville in Virginia, ove gruppi suprematisti bianchi si erano opposti violentemente alla richiesta di tirar giù la controversa statua equestre del generale confederato Robert E. Lee, genio militare degli Stati secessionisti del sud nella guerra civile americana, e anche convinto sostenitore dello schiavismo. A Bolzano vi era pure questo rischio di contrapposizione che qui, come al solito, poteva essere declinato sul crinale del cleavage etnico, e pertanto divenire l’ennesima mina rispetto alla riconciliazione tra due popolazioni che hanno vissuto, e qualche volta accettato fascismo e nazismo e che tuttora hanno visioni diverse di quella storia. Carlo Invernizzi-Accetti, articolo su «The Guardian» del 6 dicembre 2017, online: <https://www.theguardian.com/commentisfree/2017/dec/06/bolzano-italian-town-defusecontroversial-monuments> (URL consultato il 7 marzo 2018). L’autore è assistant professor di scienze politiche presso The City College di New York. 1 27 In una situazione siffatta, è giusto osservare da vicino il materiale grezzo, il dato storico realmente presente. Il fregio in questione si trova apposto sull’ex Casa del Fascio, oggi sede di varie amministrazioni statali, fatta costruire dall’ultimo fascismo negli anni 1939-42, su progetto degli architetti Guido Pelizzari, Francesco Rossi e Luis Plattner. La cosiddetta “Casa Littoria” si affaccia sulla piazza Arnaldo Mussolini ed è bilanciata dalla concavità del prospiciente Palazzo di Giustizia, a sua volta costruito tra il 1939 e il 1956 su progetto di Paolo Rossi de Paoli e Michele Busiri Vici, sul frontone del quale peraltro campeggia tuttora un’iscrizione monumentale inneggiante all’impero fascista. Il contesto urbanistico viene completato dalla chiesa di Cristo Re, eretta nel 1938/39 su progetto sempre di Guido Pelizzari (il campanile è solo del dopoguerra), e dall’annesso convento dei Domenicani. L’insieme è tale da formare uno dei principali snodi della città moderna, caratterizzato dalla compresenza funzionale e simbolica dei poteri politico, giudiziario e ideologico-religioso. L’agglomerato architettonico di chiesa, partito e giustizia (una giustizia chiaramente asservita al potere) formava una sorta di triade ideale dello stato totalitario. Il tutto era funzionale alla progettazione della “Nuova Bolzano” voluta dal regime con il nuovo Piano regolatore cittadino e plasmata da Marcello Piacentini. In un simile tessuto urbano, il bassorilievo commissionato a Hans Piffrader, assunse una particolare rilevanza. L’artista nativo di Chiusa, formatosi ancora a Vienna nell’atmosfera della Secession, nel Ventennio divenne un intellettuale “organico” o anche “subalterno” della dittatura fascista, per usare una terminologia gramsciana.2 Nel 1939, anno in cui viene nominato Cavaliere, esegue i rilievi sulla facciata della Cassa di Risparmio, e riceve appunto l’incarico per il rilievo sulla Casa del Fascio, a cui lavorerà fino al 1942. Nel 1940 si iscrive al Partito Nazionale Fascista e nel 1946 è socio fondatore del Südtiroler Künstlerbund di cui l’anno dopo viene nominato presidente, funzione che ricopre sino alla sua morte nel 1950. Un uomo talentuoso dalle tante stagioni, 2 Antonio Gramsci, I Quaderni dal carcere, vol. 4 (XIII), 1930/32, § 49 (“Gli Intellettuali”). 28 come molti, il quale certamente evitava le domande scomode sul suo prominente ruolo nell’era predemocratica. Non è dato sapere cosa egli avrebbe pensato dell’avvenuta trasformazione, o se magari fosse addirittura concorde con il giudizio positivo del giornale «The Guardian». A ogni modo, l’operazione bolzanina può essere letta su due piani. Essa conserva l’opera d’arte, benemerita ma ostentatamente bellicista e suprematista, e la commenta e ironizza al contempo. Non si tratta, in verità, di una neutralizzazione dell’opera totalitaria ma piuttosto della sua efficace depoliticizzazione, o più precisamente defascistizzazione, attraverso la sua repoliticizzazione democratica. In buona sostanza, il suo “cuore di tenebra” (Joseph Conrad) è conquistato dalla carica antitotalitaria dell’arte contemporanea che vi innesta una semplice, quanto efficace frase. Il grand récit millenaristico del fascismo che si riteneva eterno, messo in scena da Hans Piffrader, è decostruito con nonchalance da Hannah Arendt.3 La frase della Arendt è il oggi vero perno ideale di piazza del Tribunale. Essa rappresenta il contraddittorio contemporaneo del “credere, obbedire, combattere” mussoliniano al quale si oppone, con leggerezza e intuito, sostituendo un individualismo morale e laico alla tracotanza mistica del fascismo. Da questo punto di vista, l’opera di Piffrader sino al 2017 non era compiuta. La sua codificazione del 1942, conclusasi solo nel 1957 con l’applicazione dei pochi registri mancanti, era infatti ancora presente in forma immutata sino all’altro ieri. Stessa sorte toccava al gemello siamese, il monumento alla Vittoria storicizzato, e nei significati simbolici modificato, nel 2014.4 La desacralizzazione del bassorilievo vive anche di un paradosso, racchiuso nell’esclamazione arendtiana “Nessuno ha il diritto di obbedire” (alle leggi 3 Con ciò in qualche modo si mette in pratica anche uno dei comandamenti proposti da Umberto Eco nel suo acclamato Eterno fascismo, Milano 2018 (orig. 1997). 4 Da ultimo, si veda Hannes Obermair, Monuments and the City – an almost inextricable entanglement, in Multiple Identitäten in einer „glokalen Welt“ – Identità multiple in un “mondo glocale” – Multiple identities in a “glocal world”, a cura di Matthias Fink et al., Eurac Research, Bolzano 2017, pp. 88-99. 29 ingiuste).5 Obbedire è una virtù militare, alle leggi giuste infatti non serve il comandamento, le si fanno proprie nel concordare con loro. La storia pubblica ha fatto sì che la vérité noir della barbarie europea del Novecento, ora in piazza del Tribunale rifulga quale memoria critica e attiva la quale trasforma un passato ingombrante che non sembra voler passare in un’attualità più leggera che possiamo rivedere, rileggere e commentare. Al collettivismo ideologico e totalitario rappresentato sull’ex “Casa Littoria” e il suo fregio mussoliniano di Hans Piffrader, grazie a Hannah Arendt si contrappone, con gusto e anche con un po’ di ironia, la forza dell’illuminismo laico e critico e dell’individualismo etico e resiliente. Da Hans a Hannah, insomma. Mi pare degno di nota che contro questa rilettura e contestualizzazione si è formata una santa alleanza, tanto reazionaria quanto vittimista, sostanzialmente di destra, italiana e tedesca (i loro motivi sono opposti, ma identica è la forma mentis), e di fautori ingenui dell’art pour l’art, fra alcuni architetti locali e associazioni culturali benemerite. Un tanto noto quanto discusso critico d’arte nazionale è arrivato a denunciare l’operazione quale osceno “snaturamento” di un’opera d’arte, seguito a ruota da un partito di destra locale che si è spinto a presentare un esposto in quel Palazzo di Giustizia che si trova La citazione è tratta da un’intervista della Arendt rilasciata a Joachim Fest nel 1964, nel contesto delle polemiche sul libro su Eichmann; si veda Eichmann war von empörender Dummheit. Gespräche und Briefe, a cura di Ursula Ludz e Thomas Wild, Monaco 2011, p. 44. 5 30 proprio di fronte al fregio contestato. Si tratta in genere di chi non accetta di vedere la profonda ferita civile presente in piazza del Tribunale e di chi semplicisticamente si augura che “la si faccia finalmente finita con questi monumenti”. E invece non potrà mai essere così. Psicanaliticamente parlando, si tratta di una chiara reazione di rigetto e di diniego, ovvero di un meccanismo di difesa che può anche essere visto come profonda paura di castrazione. Questo può solo avvenire in chi inconsciamente si identifica con i monumenti stessi e non riesce né vuole cogliere la loro essenza, al contempo, di opere della cultura e della barbarie, per dirla con l’ultimo Walter Benjamin, vittima del fascismo tedesco (“Es ist niemals ein Dokument der Kultur, ohne zugleich eines der Barbarei zu sein”).6 La circoncisione dell’opera, il “gegen den Strich bürsten” sempre per dirla con Benjamin, per gli oppositori all’emendamento bolzanino, non va bene, ma essi non hanno capito quanto un simile intervento possa essere salutare. Questa volta a dirlo non sono dei medici ma degli storici e degli artisti. Infatti, il fregio di Piffrader è una visione totalitaria e trionfalistica della storia la quale sarebbe, in buona sostanza, il risultato dell’agire di superuomini soli al comando, dotati di un’ipertrofica mascella, e di milioni di sudditi trogloditi che li seguono obbedienti e appagati. Non racconta invece né può raccontare 6 Walter Benjamin, Über den Begriff der Geschichte (1939), § VII, in Id., Werke und Nachlass – Kritische Gesamtausgabe, vol. 19, a cura di Gérard Raulet, Berlino 2010. 31 la storia delle migliaia anzi milioni di vittime di questa distopia, né di Matteotti e dei fratelli Rosselli, né delle madri i cui figli uccisero e furono uccisi sui vari fronti delle guerre d’aggressione dagli stessi superuomini scatenati, né delle leggi razziali e dei campi di internamento, né delle pulizie etniche e via dicendo. Raccontare questo sta a noi, oggi. Alle variegate ingenuità degli oppositori alla storicizzazione, non veramente giustificabili, si oppone quella che chiamerei The Bolzano Way, un’audace “strategia di Bolzano”, non subalterna a disegni politici ma attenta invece a cogliere l’intenzione autentica dei monumenti, il loro nucleo estremo e antiumanistico, ricodificandolo in chiave dialettica e preservandone così sia i messaggi totalitari originari sia la loro rilettura avvenuta. Con un ritardo tremendo, peraltro, figlio del non voler vedere, sentire e sapere protrattisi per lunghi periodi. Questo ritardo, purtroppo, è sistemico in Italia, ce lo ricorda il triste caso dello sfregio della memoria di Anne Frank a opera di hooligans del calcio, episodio ultimo di una lunga serie di cinici negazionismi che si sono moltiplicati complice anche il ventennio berlusconiano e il suo profondo revisionismo storico-politico.7 Per fortuna il premio europeo assegnato nello scorso anno all’operazione monumento alla Vittoria, ci ricorda altresì che le vie d’uscita da questa impasse ci sono e raccordano l’esempio sudtirolese alle realtà europee più avanzate in tema di memoria riflessiva e viva del “secolo degli estremi”. Ma non può che essere un inizio. Non dobbiamo avere paura dell’ambiguità e dei significati aperti ai quali ci troviamo ora di fronte in piazza del Tribunale. È la stessa Hannah Arendt che ce lo ricorda. Un monumento violento, estremo e chiuso esige l’atteggiamento dissonante e aperto rispetto a esso. Esso va certamente lasciato e preservato ma va pure efficacemente risemantizzato e capovolto nei suoi intenti. È l’unica via alla pacificazione, sempre che essa sia veramente voluta. 7 Illuminante a proposito Gian Enrico Rusconi et al., Berlusconi an der Macht: Die Politik der italienischen Mitte-Rechts-Regierungen in vergleichender Perspektive (Zeitgeschichte im Gespräch, 10), Monaco 2010. 32