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La frequenza cardiaca: fattore di rischio o epifenomeno?

2010, Giornale Italiano Di Cardiologia

- Copyright - Il Pensiero Scientifico Editore downloaded by IP 54.211.3.239 Sat, 27 May 2017, 14:38:58 RASSEGNA La frequenza cardiaca: fattore di rischio o epifenomeno? Marco Metra, Valerio Zacà, Carlo Lombardi, Silvia Bugatti, Livio Dei Cas Cardiologia, Dipartimento di Medicina Sperimentale ed Applicata e Dipartimento Cardio-Toracico, Università degli Studi e Spedali Civili, Brescia Key words: Coronary artery disease; Heart rate; Ivabradine; Prognosis. The role of heart rate (HR) as an independent predictor of cardiovascular morbidity and mortality remains controversial. Direct evidence supporting a causal association between HR and prognosis is still lacking even if such relation appears plausible and may be inferred from epidemiological studies and clinical trials with HR lowering agents. The introduction of If current blocking agents, namely ivabradine, has offered the novel and unique opportunity to directly and exclusively interfere with HR and, thus, to validate the presence of a causal relationship between HR and prognosis. The BEAUTIFUL trial has recently confirmed that HR is a powerful negative prognostic predictor in patients with coronary artery disease and left ventricular systolic dysfunction. Particularly, subjects with a resting HR >70 b/min showed an increased risk of major adverse cardiovascular events. In these patients, HR reduction with ivabradine was associated with a reduction in major cardiac ischemic events, though not mortality. Further data will become available with the SHIFT trial in which patients with heart failure and HR ≥70 b/min are included and reduction in cardiovascular mortality and heart failure hospitalizations is the primary endpoint. (G Ital Cardiol 2010; 11 (3): 209-220) © 2010 AIM Publishing Srl Introduzione Marco Metra e Valerio Zacà hanno contribuito in uguale misura alla stesura del manoscritto. Il ruolo della tachicardia come meccanismo scatenante l’ischemia miocardica è indiscusso. Molto più incerto è il suo ruolo come fattore di rischio cardiovascolare e/o come meccanismo di aggravamento di una cardiopatia preesistente. Come vedremo, il suo ruolo è suggerito da analisi retrospettive di numerosi studi su soggetti normali e su pazienti ipertesi, con cardiopatia ischemica e con insufficienza cardiaca. Manca ancora la dimostrazione finale del ruolo della frequenza cardiaca (FC) come meccanismo patogenetico, vale a dire, il riscontro di un miglioramento della prognosi con un intervento in grado di agire selettivamente sulla FC. I betabloccanti e i calcioantagonisti non diidropiridinici presentano numerose altre proprietà che ne possono spiegare gli effetti. Solo recentemente, l’introduzione degli inibitori della corrente If, di cui l’ivabradina è il capostipite, ha offerto l’opportunità di interferire direttamente ed esclusivamente con la FC evidenziandone, quindi, il potenziale ruolo nell’insorgenza e progressione delle malattie cardiovascolari (MCV). Se gli studi controllati dimostreranno un effetto favorevole di questo farmaco, il ruolo prognostico della FC verrà a essere incontrovertibilmente dimostrato. Viceversa, in caso di negatività di questi studi, sarà accreditata l’ipotesi che la tachicardia sia solo un epifenomeno di una maggiore gravità del paziente e non un fattore di aggravamento della malattia. Ricevuto il 19 febbraio 2009; nuova stesura il 22 aprile 2009; accettato il 23 aprile 2009. Per la corrispondenza: Prof. Marco Metra Cardiologia Dipartimento di Medicina Sperimentale ed Applicata e Dipartimento Cardio-Toracico Università degli Studi e Spedali Civili Piazzale Spedali Civili, 1 25123 Brescia E-mail: [email protected] 209 Presupposti favorevoli: i risultati nel regno animale Nel regno animale una ridotta taglia corporea è associata ad elevati valori di FC a riposo e ad una ridotta sopravvivenza rispetto agli animali di taglia maggiore1. La minore sopravvivenza degli animali di piccola taglia è stata attribuita al maggior consumo energetico, espressione di una maggiore dispersione di calore correlata alla FC. Anche nell’uomo numerosi dati epidemiologici hanno dimostrato l’esistenza di una relazione inversa tra la durata della vita e la FC. Frequenza cardiaca e prognosi: evidenze epidemiologiche Popolazione generale Frequenza cardiaca a riposo Numerosi studi hanno attribuito alla FC un ruolo indipendente come fattore di rischio cardiovascolare. Già nel 1945 Levy et al.2 avevano dimostrato che la tachicardia (FC >100 b/min) si associava ad un aumentato rischio di morte cardiovascolare rispetto a soggetti con normale FC. In una coorte di 5070 soggetti dello studio Framingham, si è evidenziato un incremento della mortalità cardiovascolare e per tutte le cause nei soggetti con aumento della FC a riposo3. Nello studio NHANES (National Health and Nutrition Examination Survey)-I era stato confermato un aumento del ri- - Copyright - Il Pensiero Scientifico Editore downloaded by IP 54.211.3.239 Sat, 27 May 2017, 14:38:58 G Ital Cardiol Vol 11 Marzo 2010 in Norvegia sono stati analizzati 379 843 soggetti sani, di entrambi i sessi, di età compresa tra 40-45 anni senza storia di MCV e/o diabete seguiti per un follow-up medio di 12.6 anni7. I risultati hanno confermato la relazione diretta e lineare tra FC e mortalità totale, e tra FC e mortalità per causa cardiovascolare, coronarica e cerebrovascolare. Questa relazione risultava meno evidente, anche se ancora significativa, una volta aggiustata per i principali fattori di rischio. Confrontando soggetti nel quartile di FC ≥95 b/min con quelli nel quartile con FC <65 b/min il RR per tutte le cause di morte è diminuito da 3.14 a 1.82 (IC 95% 1.62-2.04), per gli uomini, e da 2.14 a 1.37 (IC 95% 1.191.59) per le donne. Similmente, il RR per morte cardiovascolare si è ridotto da 4.79 a 1.51 (IC 95% 1.21-1.87) per gli uomini, e da 2.68 a 0.78 (IC 95% 0.53-1.15) per le donne. Lo studio norvegese fornisce anche un dato importante rappresentato dalla valutazione del ruolo della FC nei maschi e nelle femmine, considerati separatamente. In generale, il ruolo della FC come fattore di rischio cardiovascolare è risultato inferiore nelle donne8. Questi dati sono stati confermati dal presente studio. La relazione diretta tra mortalità e rischio di eventi cardiovascolari è rimasta significativa soltanto nei maschi e, in questi, solo per la mortalità da eventi ischemici cardiaci ma non per la mortalità dovuta ad ictus7. L’ictus è, del resto, una causa di mortalità cardiovascolare più importante nelle donne. Un altro risultato importante riguarda il tipo di relazione esistente tra FC ed eventi cardiovascolari. Questa può, infatti, essere una relazione continua e diretta, persistente anche ai più bassi valori di FC, come nello studio precedente7, oppure curvilinea, a J o addirittura ad U. Se la relazione resta lineare per tutti i livelli di FC, anche un ulteriore calo della FC, ad esempio da 60 a 50 b/min, può avere effetti favorevoli. Inoltre, una relazione lineare implica che anche variazioni relativamente lievi della FC, ad esempio <5 b/min, abbiano valore prognostico. Nella maggior parte degli studi precedentemente citati2,4,5, la FC è stata analizzata come variabile categorica, anziché continua, quindi con il confronto tra gruppi di pazienti suddivisi in base ad intervalli, più o meno ampi, di FC. Questo potrebbe indicare che la variabilità spontanea della FC è tale da non permettere di considerare come predittive differenze piuttosto lievi della FC ma solo variazioni, o valori assoluti, relativamente distanti tra loro. In accordo con questa ipotesi sono anche i risultati dello studio BEAUTIFUL (Morbidity Evaluation of the If Inhibitor Ivabradine in Patients With Coronary Disease and Left Ventricular Dysfunction)9. In questo studio, una relazione tra FC ed eventi cardiovascolari compare solo per valori di FC >70 b/min ed anche l’analisi in cui la FC è considerata come variabile “continua” è fatta considerando il RR associato ad ogni variazione della FC iniziale di 5 b/min. Questi dati tendono, quindi, a favorire l’ipotesi che solo al di sopra di determinati valori (ad es. 70 b/min) la FC diventi un fattore di rischio e solo variazioni relativamente importanti (ad es. ≥5 b/min) possano avere un impatto sulla prognosi. Chiave di Lettura Ragionevoli certezze. Il ruolo della tachicardia come meccanismo scatenante l’ischemia miocardica è indiscusso. Studi osservazionali ed analisi retrospettive di trial clinici suggeriscono, in modo consistente, il ruolo della tachicardia come fattore prognostico sfavorevole sia in soggetti inizialmente normali che in pazienti affetti da ipertensione arteriosa e/o cardiopatia ischemica e/o scompenso cardiaco. Questioni aperte. Nonostante l’imponente mole di dati suggestivi di un ruolo della frequenza cardiaca quale predittore indipendente di mortalità cardiovascolare, un’associazione causale tra frequenza cardiaca e prognosi, sebbene plausibile, non è ancora supportata da evidenze definitive. Esiste la possibilità che la tachicardia sia solo espressione di una maggiore gravità delle condizioni del paziente e/o di una maggiore attivazione di altri meccanismi patogenetici (ad es. stimolazione simpatoadrenergica). L’attuale disponibilità di farmaci come l’ivabradina, attivi selettivamente sulla frequenza cardiaca, ha aperto la strada per una definitiva valutazione del ruolo della tachicardia come meccanismo patogenetico indipendente. Le ipotesi. Se gli studi controllati con ivabradina dimostreranno un effetto favorevole della riduzione della frequenza cardiaca sulla prognosi, il ruolo prognostico della frequenza cardiaca verrà a essere incontrovertibilmente dimostrato. Viceversa, in caso di negatività di questi studi, sarà accreditata l’ipotesi che la tachicardia sia solo un epifenomeno di una maggiore gravità clinica del paziente e non un fattore di aggravamento della malattia. Allo stato attuale si è osservato come la riduzione selettiva della frequenza cardiaca abbia un’importante azione antischemica, paragonabile a quella della terapia betabloccante, nei pazienti coronaropatici. Più recentemente, si è dimostrato come la riduzione della frequenza cardiaca con ivabradina in pazienti coronaropatici, con disfunzione ventricolare sinistra e con frequenza cardiaca a riposo iniziale >70 b/min, si associ ad una riduzione degli eventi ischemici maggiori (reinfarto, angina instabile, rivascolarizzazione). Resta da dimostrare se la riduzione della frequenza cardiaca con ivabradina abbia effetti favorevoli sulla prognosi dei pazienti con insufficienza cardiaca. schio relativo (RR) di cardiopatia ischemica nei soggetti anziani con FC >84 b/min, rispetto a quelli con FC <74 b/min. Tale relazione persisteva anche dopo correzione per gli altri fattori di rischio [RR 1.37, intervallo di confidenza (IC) 95% 1.02-1.84]4. Queste osservazioni, derivate da popolazioni nordamericane, sono applicabili anche alla realtà europea. In uno studio francese del centro Investigations Préventives et Cliniques (IPC), che ha arruolato 19 386 pazienti con follow-up di 18.2 anni, il RR per mortalità cardiovascolare nel gruppo di soggetti con FC a riposo compresa tra 60 e 80 b/min è risultato di 1.35 (IC 95% 1.01-1.80), rispetto ai soggetti con FC <60 b/min, ed ancora più elevato (RR 2.18, IC 95% 1.37-3.47) per valori di FC >100 b/min5. Similmente, in Italia, i risultati del progetto MATISS (Malattie Cardiovascolari Aterosclerotiche Istituto Superiore di Sanità) hanno confermato una stretta correlazione tra l’aumento della FC e il rischio di mortalità per ogni causa (RR 1.52, IC 95% 1.29-1.78) e di mortalità cardiovascolare (RR 1.47, IC 95% 1.19-1.80) anche in soggetti con basso profilo di rischio6. Più recentemente, in uno studio prospettico condotto Variazioni della frequenza cardiaca Un recente studio ha fornito la prima evidenza di un’associazione anche tra le variazioni della FC a riposo nel tempo e la mortalità. Il Paris Prospective Study 1 ha reclutato 5139 adulti (età 42-53 anni) di sesso maschile, asintomatici, sen- 210 - Copyright - Il Pensiero Scientifico Editore downloaded by IP 54.211.3.239 Sat, 27 May 2017, 14:38:58 M Metra et al - FC: fattore di rischio o epifenomeno? non cardiovascolare (RR 1.89; IC 95% 1.33-2.68 per una FC >79 b/min rispetto ai soggetti con FC inferiore) e questa associazione è rimasta significativa all’analisi multivariata14. Nello studio INVEST (International Verapamil-SR/Trandolapril Study), su 22 192 pazienti con cardiopatia ischemica ed ipertensione arteriosa, la relazione tra FC ed eventi cardiovascolari è stata dimostrata non solo per la FC iniziale ma anche per la FC misurata durante terapia con verapamil oppure atenololo. La relazione tra FC e rischio cardiovascolare era di tipo lineare per la FC iniziale ma diventava esponenziale, con un incremento del rischio per valori di FC >75 b/min, per la FC misurata durante il follow-up. Questo studio ha anche suggerito un possibile incremento del rischio di eventi cardiovascolari per riduzioni della FC durante il follow-up a valori <60 b/min15. Ulteriori dubbi riguardo al ruolo della riduzione della FC nei soggetti ipertesi sono emersi da una recente metanalisi16. Sono stati inclusi in essa i dati dell’INVEST e di altri 8 studi randomizzati comprendenti 34 096 pazienti trattati con betabloccanti, 30 139 pazienti trattati con altri farmaci antipertensivi e 3987 pazienti trattati con placebo. Paradossalmente, un aumento del rischio di morte e di eventi cardiovascolari maggiori è risultato associato a valori più bassi di FC. Questa relazione inversa tra FC raggiunta e rischio cardiovascolare è stata, tuttavia, osservata solo nei pazienti trattati con betabloccanti rappresentati, in più del 90% dei casi, da atenololo16 (v. avanti). za evidenza di MCV, dei quali è stata registrata, in condizioni standardizzate, la FC a riposo al momento dell’arruolamento e a intervalli di 1 anno durante i 5 anni successivi10. I soggetti sono stati categorizzati in terzili in base alla variazione della FC (definita come differenza tra la misurazione al quinto anno e al tempo zero): ridotta >4 b/min, invariata (compresa tra -4 e +3 b/min) e aumentata >3 b/min. Nel corso di un follow-up >20 anni i soggetti con calo della FC hanno avuto una riduzione del rischio di mortalità del 14% (RR 0.86, IC 95% 0.74-1.00, p = 0.05) mentre i soggetti con aumento della FC hanno avuto un incremento del rischio del 19% (RR 1.19, IC 95% 1.04-1.37, p <0.012). La variazione di FC a riposo durante 5 anni è risultata un predittore indipendente di mortalità anche dopo correzione per potenziali fattori, inclusa la FC misurata all’ingresso nello studio. Integrando i valori di FC misurati al momento dell’arruolamento ed a 5 anni si ottiene che la combinazione associata ad un maggior rischio di mortalità è rappresentata da pazienti nel terzile con più alta FC iniziale e con suo ulteriore aumento a 5 anni. Un numero crescente di evidenze suggerisce un potenziale ruolo prognostico indipendente non solo della FC a riposo ma anche delle variazioni della FC durante esercizio. Jouven et al.11 hanno condotto uno studio su 5713 soggetti di sesso maschile senza MCV e fattori di rischio noti, sottoposti a esercizio fisico e seguiti per un follow-up di 23 anni. Il rischio di morte improvvisa per infarto miocardico acuto (IMA) è risultato aumentato, rispettivamente, in soggetti con FC a riposo >75 b/min (RR 3.92, IC 95% 1.91-8.00), con una ridotta differenza tra FC basale e FC durante sforzo (<89 b/min; RR 6.18, IC 95% 2.37-16.11) e nei soggetti con riduzione della FC nel primo minuto di recupero <25 b/min (RR 2.20, IC 95% 1.02-4.74). Tali osservazioni sono state confermate e ampliate in una recente analisi del MRFIT (Multiple Risk Factor Intervention Trial) condotta su 12 555 soggetti di sesso maschile, senza evidenza di coronaropatia clinica e con un profilo di rischio coronarico intermedio12. Analogamente a quanto in precedenza riportato, un’elevata FC a riposo (p = 0.001), un ridotto incremento della FC durante esercizio (p = 0.02) e una lenta riduzione della FC al termine dello sforzo (p = 0.04) sono risultati fattori predittivi indipendenti non solo per morte improvvisa e morte cardiovascolare ma anche per tutte le cause di mortalità (p <0.001) in maschi adulti caucasici e afroamericani. Cardiopatia ischemica Numerose evidenze segnalano la FC a riposo come un indicatore prognostico sfavorevole per tutti i pazienti affetti da cardiopatia ischemica9,17. In un’analisi dal registro CASS (Coronary Artery Surgery Study), Diaz et al.18 hanno analizzato 24 913 pazienti con sospetta o documentata malattia coronarica, seguiti per un follow-up medio di 14.7 anni. La FC a riposo è risultata un fattore predittivo indipendente di mortalità totale e cardiovascolare anche dopo correzione per età, sesso, pressione arteriosa, assetto lipidico, presenza concomitante di insufficienza cardiaca e numero di vasi coronarici con stenosi critiche. Importante notare, tra gli altri dati, come l’analisi della popolazione di studio divisa in quintili in base alla FC a riposo (intervallo compreso tra ≤62 b/min nel quintile più basso e ≥83 b/min nel più alto) ha mostrato una relazione lineare tra FC e rischio di mortalità totale e cardiovascolare (p <0.0001) in entrambi i sessi (Figura 1). I pazienti con FC ≥83 b/min hanno presentato anche un rischio aumentato di ricoveri ospedalieri per causa cardiovascolare (p <0.001) rispetto a pazienti con FC ≤62 b/min18. L’importanza della FC è nota anche dopo IMA. In uno studio condotto in era pretrombolisi, la mortalità post-IMA è risultata aumentata nei soggetti con elevata FC durante il ricovero, essendo più che triplicata per valori di FC ≥110 b/min (48%) rispetto a valori compresi tra 50 e 60 b/min (15%)19. In questa coorte di 1807 pazienti il valore di FC a riposo al momento del ricovero è risultato, dopo la disfunzione sistolica ventricolare sinistra, il più importante fattore predittivo per mortalità tardiva. Tali dati sono stati confermati da un’analisi retrospettiva dello studio GISSI-2 (Gruppo Italiano per lo Studio della Sopravvivenza nell’Infarto Miocardico) che ha analizzato 8915 pazienti sottoposti a trombolisi per IMA, nei quali la prevalenza di mortali- Ipertensione arteriosa Il ruolo della FC a riposo come predittore indipendente di mortalità è stato osservato anche in soggetti affetti da ipertensione arteriosa. Come dimostrato da un’analisi dello studio Framingham su 4530 ipertesi non trattati al momento dell’osservazione iniziale, il rischio di eventi cardiovascolari aumenta all’aumentare della FC a riposo. Ogni incremento di 40 b/min nella FC si associava ad un RR di mortalità cardiovascolare di 1.68 (IC 95% 1.19-2.37) nei maschi e di 1.70 (IC 95% 1.08-2.67) nelle donne e di mortalità totale di 2.18 (IC 95% 1.68-2.83) nei maschi e di 2.14 (IC 95% 1.59-2.88) nelle donne13. In un’analisi dello studio Syst-Eur (Systolic Hypertension in Europe), su 4682 soggetti anziani con ipertensione sistolica non trattata, un aumento della FC è risultato associato ad una maggiore mortalità totale, cardiovascolare e 211 - Copyright - Il Pensiero Scientifico Editore downloaded by IP 54.211.3.239 Sat, 27 May 2017, 14:38:58 G Ital Cardiol Vol 11 Marzo 2010 Figura 1. Relazione tra frequenza cardiaca (FC) a riposo e rischio di mortalità in pazienti con cardiopatia ischemica provata o sospetta. Adattata da Diaz et al.18. tà intraospedaliera è risultata direttamente correlata con i valori di FC (7.1% per FC <60 b/min, 23.4% per FC >100 b/min) e, analogamente, la mortalità a 6 mesi dall’evento è stata dello 0.8% per pazienti con FC <60 b/min rispetto al 14.3% nei pazienti con FC >100 b/min20. La FC fa attualmente parte di numerosi modelli per la valutazione del rischio in pazienti con recente sindrome coronarica acuta17. In uno di questi modelli, valutato in un gruppo indipendente di 153 486 pazienti con IMA con sopraslivellamento del tratto ST, la mortalità è stata accuratamente predetta utilizzando solo tre variabili: età, FC e pressione arteriosa sistolica21. to del rischio di morte cardiovascolare (34%, p = 0.0041), ricovero per insufficienza cardiaca (53%, p <0.0001), IMA (46%, p = 0.006), e necessità di rivascolarizzazione coronarica (38%, p = 0.037)9. L’incremento della FC era proporzionale al rischio di eventi tale che ad ogni incremento di 5 b/min della FC, al di sopra di 70 b/min, corrispondeva un aumento pari all’8% di morte cardiaca (p = 0.0005), 16% di ricovero per insufficienza cardiaca (p <0.0001), 7% di ricovero per IMA fatale e non fatale (p = 0.052), e, infine, dell’8% di rivascolarizzazione coronarica (p = 0.034). Come già sottolineato, la relazione tra FC e rischio cardiovascolare non è stata continua e non è stata osservata nessuna differenza nel rischio di eventi tra pazienti con FC compresa tra 65 e 69 b/min e pazienti con FC <65 b/min9. Inoltre, mentre per la mortalità cardiovascolare e le ospedalizzazioni per insufficienza cardiaca si osservava un progressivo incremento dell’incidenza per ogni incremento della FC al di sopra di 70 b/min, altrettanto non si può dire per le ospedalizzazioni per infarto e per gli interventi di rivascolarizzazione (Figura 2). In questi due casi, si evidenziava solo una differenza del rischio tra pazienti con FC <70 e ≥70 b/min ma nessuna variazione dello stesso al di sopra dei 70 b/min con, ad esempio, una simile incidenza di infarto o rivascolarizzazione tra pazienti con FC di 75-79 b/min e >84 b/min9. È probabile che questi risultati siano dovuti alla relativa esiguità dei vari sottogruppi confrontati. Essi suggeriscono, comunque, come possano essere importanti solo variazioni relativamente ampie della FC e non di soli pochi b/min. Disfunzione ventricolare sinistra ed insufficienza cardiaca La presenza di tachicardia può di per sé determinare insufficienza cardiaca come dimostrato, ad esempio, dall’aumentato rischio di insufficienza cardiaca e morte improvvisa nei pazienti con cardiomiopatia indotta dalla tachicardia22. In questi pazienti, il ripristino del ritmo sinusale, o il rallentamento della risposta ventricolare, si accompagna ad un miglioramento della funzione cardiaca e dei sintomi di insufficienza cardiaca. Numerosi studi hanno dimostrato che un’elevata FC a riposo rappresenta un fattore predittivo indipendente per tutte le cause di mortalità, mortalità cardiovascolare e riospedalizzazione nei pazienti con insufficienza cardiaca23. In un’analisi multivariata del CIBIS II (Cardiac Insufficiency Bisoprol Study-II) un totale di 2539 pazienti è stato suddiviso in terzili in relazione ai valori di FC a riposo misurati inizialmente (≤72, 72-84, >84 b/min rispettivamente) e dopo 2 mesi di terapia (riduzione >11 b/min, riduzione 0-11 b/min, aumento)24. Ad 1 anno di follow-up sia la FC al basale che le variazioni di FC sono risultate indipendentemente correlate con la sopravvivenza e le ospedalizzazioni per insufficienza cardiaca. Analogamente, in un’analisi del COMET (Carvedilol or Metoprolol European Trial), valori di FC a riposo a 4 mesi dall’arruolamento ≥68 b/min erano associati ad un aumentato rischio di mortalità (RR 1.33, IC 95% 1.15-1.54, p = 0.0001)25. In un’analisi dello studio BEAUTIFUL, in cui pazienti con cardiopatia ischemica stabile e disfunzione ventricolare sinistra sono stati randomizzati a ivabradina o placebo, una FC a riposo ≥70 b/min è risultata associata ad un incremen- Considerazioni generali I dati della letteratura suggeriscono in modo molto consistente il ruolo della tachicardia come fattore di rischio cardiovascolare. Nei soggetti normali, il suo ruolo è, tuttavia, parzialmente dipendente dagli altri fattori di rischio, come dimostrato dal calo dei suoi valori di significatività dopo aggiustamento per altre variabili4,7. Sempre nei soggetti normali, il rapporto tra FC ed eventi cardiovascolari è risultato maggiore per l’incidenza di eventi ischemici cardiaci rispetto agli eventi cerebrovascolari e nei maschi rispetto alle femmine4,7,8. Differenze di sesso non sono state viceversa osservate in pazienti con cardiopatia ischemica o insufficienza cardiaca17. Infine, è controverso se il rapporto tra FC ed eventi futuri sia lineare e, quindi, presente anche 212 - Copyright - Il Pensiero Scientifico Editore downloaded by IP 54.211.3.239 Sat, 27 May 2017, 14:38:58 M Metra et al - FC: fattore di rischio o epifenomeno? Figura 2. Incidenza di eventi (scala verticale a sinistra) e rischio relativo (hazard ratio, scala verticale a destra) in base ai valori di frequenza cardiaca iniziale nei pazienti randomizzati a placebo arruolati nello studio BEAUTIFUL. I valori di rischio relativo e intervallo di confidenza 95% sono calcolati rispetto al gruppo <65 b/min. La linea tratteggiata orizzontale corrisponde ad un hazard ratio di 1. IC = insufficienza cardiaca; IMA = infarto miocardico acuto. Modificata da Fox et al.9. ai valori più bassi di FC7,18 oppure evidente solo per le FC relativamente più elevate (ad es. >70 b/min)9. della placca aterosclerotica17. Studi condotti su primati hanno mostrato che gli animali con la FC più bassa sono meno predisposti a sviluppare ateromi carotidei. In 56 pazienti con pregresso IMA sottoposti a due coronarografie in un periodo compreso tra 4-7 anni, è stato dimostrato il valore prognostico della FC nella progressione delle placche ateromasiche coronariche, indipendente dai valori di colesterolemia e dalla terapia concomitante29. Altre evidenze suggeriscono come un aumento della FC possa favorire la rottura di placche aterosclerotiche preesistenti30. Meccanismi patogenetici I meccanismi attraverso i quali la tachicardia può aumentare il rischio cardiovascolare sono riassunti nella Figura 3. Funzione vascolare A livello sperimentale è stato osservato come la tachicardia indotta da pacing sia associata a una riduzione della distensibilità vascolare26. Anche nell’uomo disponiamo di dati che correlano gli effetti di un’aumentata FC con l’aumento della rigidità del vasi arteriosi27. È chiaro come queste alterazioni possano contribuire allo sviluppo di ipertensione arteriosa28 ed ischemia miocardica17. Ischemia miocardica La FC è il maggior determinante del consumo miocardico di ossigeno. Inoltre, essa riduce il tempo di perfusione coronarica, verificandosi questa pressoché esclusivamente in fase diastolica. L’aumento della FC è causa comune degli episodi ischemici, sia a riposo31 che durante sforzo fisico32. Coronaropatici con FC >80 b/min hanno un’incidenza doppia di ischemia miocardica rispetto a soggetti con FC <70 b/min33. Aterosclerosi Variazioni della FC potrebbero intervenire a vari livelli nei processi di aterogenesi, progressione e instabilizzazione Funzione ventricolare sinistra Nei cuori normali l’aumento di FC ha un effetto inotropo positivo. Questo non si verifica nei cuori insufficienti, in cui la FC ottimale, come efficienza miocardica, è attorno ai 6070 b/min34. Questa inversione della relazione forza-frequenza nei cuori insufficienti è spiegata dal rallentamento dei processi di ricaptazione del calcio da parte del reticolo sarcoplasmatico con necessità di tempi più lunghi perché questo sia completo. Aritmogenesi La tachicardia può favorire l’induzione di aritmie ventricolari maligne sia con meccanismo diretto che indirettamente, inducendo ischemia miocardica. Un’elevata FC a riposo è risultata associata ad un aumentato rischio di morte cardiaca improvvisa22. Figura 3. Potenziali meccanismi attraverso i quali la tachicardia può contribuire ad aumentare il rischio cardiovascolare (CV). O2 = ossigeno; VS = ventricolare sinistra. 213 - Copyright - Il Pensiero Scientifico Editore downloaded by IP 54.211.3.239 Sat, 27 May 2017, 14:38:58 G Ital Cardiol Vol 11 Marzo 2010 più del 90% dei pazienti dello studio di Bangalore et al.16. Valori inferiori di pressione aortica centrale sono stati osservati con nuovi betabloccanti con associata attività vasodilatatrice37,38. I dubbi rimasti Nonostante i numerosi dati suggestivi di un ruolo della FC quale predittore indipendente di mortalità cardiovascolare, un’associazione causale tra FC e prognosi manca di dimostrazioni definitive. Esiste la possibilità che la tachicardia sia solo espressione di una maggiore gravità delle condizioni del paziente e/o di una maggiore attivazione di altri meccanismi patogenetici, come il sistema simpatoadrenergico35. L’attuale disponibilità di farmaci come l’ivabradina, attivi selettivamente sulla FC, ha aperto la strada ad una definitiva valutazione del ruolo della tachicardia come meccanismo patogenetico indipendente. Cardiopatia ischemica La somministrazione di betabloccanti riduce la FC, e pertanto il consumo miocardico di ossigeno, sia a riposo che durante esercizio fisico. Il prolungamento della durata della diastole, conseguente alla bradicardia, migliora anche il flusso coronarico39. L’effetto antischemico della bradicardia è il principale determinante del miglioramento dei sintomi e della capacità funzionale, dopo terapia betabloccante, nei pazienti con angina stabile. Nei pazienti con pregresso IMA, l’impiego della terapia betabloccante in prevenzione secondaria ha ridotto di circa il 30% la mortalità cardiovascolare e il rischio di reinfarto40. Numerose e consistenti evidenze indicano che questi risultati favorevoli sono correlati alla riduzione della FC. In un’analisi retrospettiva di 11 trial clinici randomizzati su un totale di 16 000 pazienti infartuati, Kjekshus41 aveva trovato una relazione lineare tra riduzione della FC e riduzione della mortalità totale (r = 0.6, p <0.05). L’effetto favorevole della terapia con betabloccanti è stato dimostrato anche durante la fase acuta dell’infarto, dove una somministrazione precoce (entro 12h dall’esordio dei sintomi) associata ad un calo della FC >15 b/min è stata correlata ad una significativa riduzione dell’area infartuale. Più recentemente una metanalisi di studi controllati con betabloccanti e calcioantagonisti nel post-IMA ha mostrato come l’effetto benefico, espresso in termini di ridotta mortalità per causa cardiaca (improvvisa e non) e non cardiaca, e di re-IMA, di questi agenti sia correlato alla riduzione della FC a riposo. In particolare ogni riduzione di 10 b/min nella FC a riposo si associa ad una riduzione del RR di morte cardiaca del 30% (Figura 4)42. Gli effetti favorevoli dei farmaci tradizionali con effetti sulla frequenza cardiaca Per provare una relazione causale tra FC e prognosi nei pazienti affetti da MCV, la riduzione della FC indotta da farmaci dovrebbe essere associata, in modo indipendente, ad una riduzione misurabile e proporzionale di mortalità. Seppure i risultati di molti studi sembrino confermare tale ipotesi, non sono ad oggi disponibili studi randomizzati finalizzati alla valutazione dell’impatto della riduzione della FC sulla prognosi. Soprattutto, fino all’arrivo degli inibitori delle correnti If, non esistevano farmaci attivi selettivamente sulla FC e, quindi, non era possibile distinguere tra effetti dovuti ad altre proprietà dei farmaci e quelli sulla FC. Le evidenze più significative disponibili in letteratura sono analizzate qui di seguito. Betabloccanti Ipertensione arteriosa Benché i betabloccanti siano ampiamente utilizzati nel trattamento dell’ipertensione arteriosa, non esistono studi controllati che dimostrino il reale beneficio della riduzione della FC in pazienti ipertesi. Come già sottolineato sopra, in una recente metanalisi la terapia con betabloccanti è risultata associata ad un aumento del rischio di eventi cardiovascolari: morte per tutte le cause, morte cardiovascolare, IMA, ictus ed insufficienza cardiaca16. Questi risultati sono stati spiegati con il possibile effetto sfavorevole della bradicardia sulla pressione aortica centrale. Con la bradicardia, l’onda sfigmica riflessa raggiunge, dalla periferia, la successiva onda sfigmica anterograda in fase sistolica, anziché diastolica, con conseguente aumento della pressione aortica centrale sistolica e media. La bradicardia determinerebbe, quindi, una dissincronia e disaccoppiamento tra onda sfigmica anterograda ed onda riflessa. In accordo con questa ipotesi, nello studio CAFE (Conduit Artery Functional Evaluation), si è osservato che, a parità di pressione arteriosa misurata a livello periferico, si avevano valori di pressione aortica centrale (misurati indirettamente mediante tonometria dell’arteria radiale) superiori di 4.3 mmHg con atenololo rispetto all’amlodipina. Questo era anche risultato associato ad un aumento del 14% del rischio di eventi coronarici e del 23% del rischio di ictus con l’atenololo, rispetto all’amlodipina, nonostante una riduzione di simile entità dei valori pressori periferici con i due farmaci36. Questi risultati sono comunque da ritenersi specifici sia per l’ipertensione arteriosa che per il tipo di farmaco studiato, essendo l’atenololo il betabloccante impiegato in Insufficienza cardiaca Grazie alla loro dimostrata efficacia sui parametri clinici e, soprattutto, prognostici, i betabloccanti sono attualmente uno dei capisaldi della terapia farmacologica dell’insufficienza cardiaca. Molti dati suggeriscono come la riduzione della FC sia uno dei principali meccanismi responsabili dei benefici clinici (Figura 5)23-25,43. In una recente metanalisi Figura 4. Relazione tra riduzione di frequenza cardiaca farmacologica dopo terapia e riduzione del rischio di mortalità cardiaca in studi clinici di calcioantagonisti e betabloccanti nel postinfarto. Modificata da Cucherat42. 214 - Copyright - Il Pensiero Scientifico Editore downloaded by IP 54.211.3.239 Sat, 27 May 2017, 14:38:58 M Metra et al - FC: fattore di rischio o epifenomeno? Figura 5. Relazione tra riduzione di frequenza cardiaca e mortalità in studi clinici di pazienti con insufficienza cardiaca. ANZ = Australia/New Zealand Heart Failure Research Collaborative Group; BHAT = Beta-Blocker Heart Attack Trial; CIBIS = Cardiac Insufficiency Bisoprolol Study; CONSENSUS = Cooperative North Scandinavian Enalapril Survival Study; GESICA = Grupo de Estudio de la Sobrevida en la Insuficiencia Cardiaca en Argentina; MOCHA = Multicenter Oral Carvedilol Heart Failure Assessment; NOR TIMOLOL = Norwegian Multicentre Study Group; PROFILE = Prospective Randomized Flosequinan Longevity Evaluation; PROMISE = Protection Devices in PCI-Treatment of Myocardial Infarction for Salvage of Endangered Myocardium Study; SOLVD = Studies of Left Ventricular Dysfunction; US CARVEDILOL = US Carvedilol Heart Failure Study Group; VHeFT = Vasodilator in Heart Failure Trials; XAMOTEROL = Xamoterol in Severe Heart Failure Study Group. Modificata da Kjekshus e Gullestad23. gonisti non diidropiridinici sono imputabili alla riduzione della FC. Lo studio APSIS (Angina Prognosis Study in Stockholm), condotto su 809 pazienti con angina stabile, non ha documentato differenze di eventi cardiovascolari tra pazienti trattati con metoprololo a lento rilascio (100-200 mg/die) oppure con verapamil (240-480 mg/die)46. Nel postinfarto vi sono dati favorevoli sulla prognosi nei pazienti senza insufficienza cardiaca trattati con calcioantagonisti in grado di ridurre la FC (diltiazem, verapamil)42,47,48. che ha incluso 19 537 pazienti con insufficienza cardiaca e frazione di eiezione depressa da 9 studi con betabloccanti, Flannery et al.44 hanno identificato una chiara relazione tra variazioni di FC indotte dalla terapia e mortalità per tutte le cause. In particolare è stata osservata una correlazione altamente significativa tra mortalità assoluta e FC a riposo registrata alla fine del trattamento: minore la FC finale minore la mortalità annuale (r2 = 0.53, p <0.005). Infine, la riduzione della FC con terapia betabloccante può avere un effetto favorevole sulla prognosi anche in pazienti con insufficienza cardiaca e conservata funzione sistolica ventricolare sinistra45. È quindi evidente la presenza di una correlazione tra calo della FC dopo terapia betabloccante e miglioramento della prognosi. Questa correlazione non dimostra, tuttavia, l’esistenza di un rapporto causa-effetto. La riduzione di mortalità nei pazienti con maggior calo della FC potrebbe essere espressione di un maggior grado di betablocco anziché di un effetto specifico della variazione della FC. Insufficienza cardiaca L’uso dei calcioantagonisti è controindicato nel trattamento dei pazienti con insufficienza cardiaca e senza ipertensione o angina concomitanti49. Acidi grassi omega-3 Dati derivanti da singoli studi50 e lavori di metanalisi51 sull’utilizzo di acidi grassi omega-3 in pazienti sani, con fattori di rischio o con cardiopatia nota, indicano come la loro assunzione si associ ad una modesta, ma significativa, riduzione della FC (-1.6 b/min in una metanalisi). È possibile che questo contribuisca ai loro effetti favorevoli. Calcioantagonisti Ipertensione arteriosa I calcioantagonisti sono ampiamente utilizzati nel trattamento dell’ipertensione arteriosa. Nello studio INVEST, condotto in pazienti ipertesi e coronaropatici, è stata dimostrata una relazione tra FC, misurata durante terapia con verapamil o atenololo, e mortalità15. Un aumento di 10 b/min da 70 a 80 b/min nella FC finale corrispondeva ad un incremento del rischio di eventi avversi del 31%. Modulazione della frequenza cardiaca attraverso inibizione della corrente If Meccanismo d’azione ed evidenze sperimentali Il meccanismo che regola la depolarizzazione delle cellule del nodo seno-atriale è stato descritto per la prima volta nel 1979 con la scoperta del canale f, non esclusivo ma funzionalmente attivo solo in questa struttura. La corrente as- Cardiopatia ischemica Oltre alla riduzione della pressione arteriosa e delle resistenze coronariche, gli effetti antianginosi dei calcioanta- 215 - Copyright - Il Pensiero Scientifico Editore downloaded by IP 54.211.3.239 Sat, 27 May 2017, 14:38:58 G Ital Cardiol Vol 11 Marzo 2010 sociata all’apertura di questi canali è definita If, da “funny” per le sue caratteristiche elettrofisiologiche peculiari52. La frequenza di depolarizzazione spontanea delle cellule seno-atriali è controllata da questo canale f. I farmaci attivi sulla corrente If interferiscono selettivamente con i meccanismi responsabili della depolarizzazione del nodo seno-atriale e, quindi, della FC. Il capostipite dei farmaci inibitori della corrente If è l’ivabradina. Il suo unico effetto farmacologico è l’inibizione selettiva e diretta del canale f con rallentamento della frequenza di depolarizzazione spontanea del nodo senoatriale e riduzione della FC53. Non sono presenti effetti diretti sulla pressione arteriosa, contrattilità miocardica, conduzione intracardiaca o ripolarizzazione ventricolare9. Gli effetti favorevoli di questo farmaco sull’ischemia miocardica sono riconducibili alla sua azione bradicardizzante in assenza di alterazioni emodinamiche e della contrattilità miocardica. Evidenze sperimentali suggeriscono come la riduzione della FC con ivabradina abbia effetti favorevoli anche sull’aterogenesi, la disfunzione endoteliale e lo stress ossidativo54. È verosimile che essi siano da attribuirsi alla sola bradicardia in quanto non si sono evidenziati con dosi di ivabradina insufficienti per rallentare la FC. In un altro studio sperimentale, la somministrazione cronica di ivabradina ha determinato una riduzione del volume telesistolico ventricolare sinistro con incremento della gettata sistolica e mantenimento di una portata cardiaca invariata nonostante il calo della FC55. A questi effetti emodinamici si aggiungono modificazioni istologiche con riduzione della densità del collagene ed aumento della densità capillare. Modificazioni tutte indicative di effetti favorevoli sul rimodellamento ventricolare sinistro e l’insufficienza cardiaca. Figura 6. Cambiamenti (⌬) registrati dall’arruolamento alla fine del periodo di trattamento nei parametri strumentali al test ergometrico in pazienti randomizzati a placebo o a tre dosi di ivabradina. TAO = time to onset of angina; TLA = time to limiting angina; TST = time to 1 mm ST-segment depression. *p <0.05 vs placebo. Adattata da Borer et al.57. pazienti affetti da angina cronica stabile, evidenza di cardiopatia coronarica e due test ergometrici positivi prima della randomizzazione, ha dimostrato la non inferiorità di due dosaggi di ivabradina (7.5 mg e 10 mg bid) rispetto all’antianginoso “classico” atenololo al dosaggio di 100 mg/die in termini di efficacia clinica su capacità funzionale e controllo dei sintomi58. Altri dati indicano una non inferiorità di ivabradina nel controllo e nella prevenzione degli attacchi anginosi anche rispetto ad amlodipina53. La somministrazione di ivabradina si associa ad un significativo effetto antianginoso ed antischemico anche in pazienti con angina cronica stabile e test ergometrico positivo già in trattamento con dosi standard di betabloccante. In un trial internazionale randomizzato, in doppio cieco a gruppi paralleli su 889 pazienti l’aggiunta di ivabradina (5 mg bid per 2 mesi titolati a 7.5 mg bid per ulteriori 2 mesi) a terapia con atenololo 50 mg/die è risultata associata ad un significativo miglioramento della capacità funzionale rispetto a placebo (Figura 7). L’associazione con betabloccante è risultata ben tollerata (1.1% di interruzioni di terapia per bradicardia sinusale)59. L’esperienza complessiva sull’uso di ivabradina in pazienti con angina cronica stabile fornisce pertanto solide evidenze di un’importante efficacia antischemica, comparabile e additiva a quella osservata con betabloccanti, con riduzione del numero di attacchi anginosi e miglioramento della capacità di esercizio. Evidenze cliniche Gli effetti antischemici L’ivabradina nasce come farmaco antischemico per il controllo dei sintomi in pazienti con angina cronica stabile. La sua efficacia e tollerabilità sono stati valutati su oltre 5000 soggetti. Sulla base di questi dati, l’ivabradina è stata approvata come farmaco antianginoso dall’EMEA (European Medicines Agency) nell’ottobre 2005 e, successivamente, inclusa nelle raccomandazioni della Società Europea di Cardiologia (classe IIa, livello di evidenza B) per il trattamento dell’angina pectoris in pazienti in ritmo sinusale con controindicazioni o intolleranti ai betabloccanti56. Borer et al.57 per primi hanno analizzato gli effetti antianginosi dell’ivabradina in uno studio randomizzato, in doppio cieco, multicentrico, controllato con placebo che ha arruolato 360 pazienti con angina cronica stabile e documentazione di ischemia inducibile al momento della randomizzazione. Nello studio, che prevedeva una durata iniziale di trattamento di 2 settimane, sono stati testati tre dosaggi di ivabradina (2.5, 5 e 10 mg bid). I risultati hanno evidenziato l’effetto favorevole del farmaco in termini di riduzione della FC sia a riposo che sotto sforzo, con aumento della durata dell’esercizio e del tempo di comparsa della soglia ischemica. Questo effetto ha avuto un andamento dose-dipendente risultando più evidente al dosaggio maggiore (10 mg bid) (Figura 6). Il più recente trial randomizzato INITIATIVE (International Trial on the Treatment of Angina with Ivabradine vs Atenolol), condotto su 939 Lo studio BEAUTIFUL L’ipotesi che la sola riduzione della FC possa avere un effetto prognostico favorevole è stata finalmente valutata nello studio BEAUTIFUL. In questo studio sono stati inclusi pazienti con cardiopatia ischemica e disfunzione ventricolare sinistra (frazione di eiezione <40%) con FC >60 b/min, randomizzati ad ivabradina (5-7.5 mg bid) o placebo60. Obiettivo principale dello studio era la riduzione dell’incidenza dell’evento combinato composto da morte cardiovascolare oppure ospedalizzazione per IMA o insufficienza cardiaca (sia di nuova insorgenza che peggioramento di un’insufficienza cardiaca preesistente). Sono stati inclusi 10 917 pazienti, randomizzati a placebo o ivabradina (dose media dopo titolazione, 6.18 mg 216 - Copyright - Il Pensiero Scientifico Editore downloaded by IP 54.211.3.239 Sat, 27 May 2017, 14:38:58 M Metra et al - FC: fattore di rischio o epifenomeno? Figura 7. Cambiamenti (⌬) registrati dall’arruolamento alla fine del periodo di trattamento nei parametri strumentali al test ergometrico in pazienti randomizzati a placebo o a ivabradina nello studio ASSOCIATE dopo 4 mesi di trattamento. TAO = time to onset of angina; TED = treadmill exercise duration; TLA = time to limiting angina; TST = time to 1 mm ST-segment depression. Adattata da Tardif et al.59. bid). La differenza di FC tra ivabradina e placebo è stata di 7.2 b/min (IC 95% 6.8-7.5) a 6 mesi, di 6.4 b/min (IC 95% 6.0-6.8) a 12 mesi, e di 5.6 b/min (IC 95% 5.1-6.2) a 24 mesi. Cali di maggiore entità sono stati ottenuti nei pazienti con FC iniziale >70 b/min (ad es. 9.0 b/min; IC 95% 8.4-9.6 a 6 mesi). Durante un follow-up di 19 mesi (valore mediano) l’evento principale si è verificato nel 15.4% (n = 844) dei pazienti trattati con ivabradina e nel 15.3% (n = 832) di quelli trattati con placebo (RR 1.00, IC 95% 0.92-1.16, p = 0.55). Anche la mortalità, così come ciascuna delle componenti dell’evento principale, sono risultate sovrapponibili nei gruppi ivabradina e placebo. Come precedentemente discusso, la relazione tra FC ed eventi cardiovascolari potrebbe diventare significativa solo per FC >70 b/min. In accordo con questa ipotesi, era stata prospettata, nel BEAUTIFUL, un’analisi dei soli pazienti con FC iniziale ≥70 b/min9. Non è stata, neanche in questo caso, raggiunta la significatività per la riduzione dell’evento primario (RR 0.91, IC 95% 0.81-1.04, p = 0.17). È stata però osservata una significativa riduzione del RR di incidenza di eventi secondari di tipo ischemico: ricovero per IMA fatale e non fatale (-36%, p = 0.001), ricovero per IMA o angina combinati (-22%, p = 0.023), rivascolarizzazione coronarica (-30%, p = 0.016). Questi effetti favorevoli si sono osservati nonostante l’84% di questi pazienti fosse in terapia betabloccante9. Lo studio ha infine confermato, in una casistica estremamente ampia, l’ottima tollerabilità dell’ivabradina con l’eccessiva bradicardia e, in una piccolissima percentuale di pazienti (0.3%), i disturbi del visus (fosfeni, visione offuscata, alterata percezione dei colori) come unici effetti collaterali che hanno causato la sospensione del farmaco60. Quali conclusioni si possono trarre da questo studio? Il mancato ottenimento dell’obiettivo principale di riduzione dell’incidenza dell’evento combinato (morte cardiovascolare oppure ospedalizzazione per IMA o insufficienza cardiaca) suggerisce che la riduzione della FC non ha un importante significato prognostico. L’analisi prespecificata del sottogruppo con FC ≥70 b/min non ha dimostrato differenze, tra ivabradina e placebo, nell’incidenza dell’endpoint principale e degli endpoint correlati all’insufficienza cardiaca con, tuttavia, una riduzione degli endpoint correlati agli eventi ischemici (infarto, angina instabile, proce- dure di rivascolarizzazione). Infine, un’altra analisi dello studio ha ribadito il significato prognostico della FC9,61. Per quali ragioni, allora, la riduzione della FC non ha avuto effetti attesi? Ovviamente, una prima ipotesi è che la tachicardia non sia un meccanismo patogenetico ma solo espressione di una maggiore gravità della malattia e, quindi, una sua semplice riduzione non possa avere nessun impatto sulla prognosi. Altre spiegazioni sono, tuttavia, possibili. Una prima spiegazione ce la offre la stessa analisi del BEAUTIFUL. Secondo questi dati, il rapporto tra FC ed eventi cardiovascolari diventa importante solo per FC >70 b/min (Figura 2)9. Purtroppo, il criterio di inclusione del BEAUTIFUL era quello di una FC >60 b/min. L’inclusione di pazienti con FC compresa tra 60 e 70 b/min può aver contribuito a rendere non significativi i risultati, come dimostrato dalla riduzione di eventi ischemici cardiaci maggiori solo nei pazienti con FC iniziale >70 b/min. Essendo gli effetti dell’ivabradina dipendenti dalla FC iniziale, è anche possibile che gli effetti del farmaco siano stati trascurabili nei pazienti con basse FC iniziali. Le curve di sopravvivenza di Kaplan-Meier, così come le differenze in FC tra ivabradina e placebo, mostrano una tendenza a convergere con la prosecuzione del follow-up. È possibile che aggiustamenti nella terapia concomitante abbiano annullato effetti iniziali favorevoli. Va inoltre sottolineata la difficoltà di dimostrare un ulteriore miglioramento della prognosi in pazienti in terapia ottimale. Nel BEAUTIFUL il 94% dei pazienti assumeva un antiaggregante piastrinico, il 90% un inibitore del sistema renina-angiotensina, l’87% un betabloccante, il 75% una statina. L’incidenza dell’endpoint principale, durante un follow-up medio di 19 mesi, è stata del 15% con una mortalità cardiovascolare ed un’incidenza di ospedalizzazioni per insufficienza cardiaca dell’8% in entrambi i casi60. È difficile pensare che sia possibile ottenere un ulteriore miglioramento della prognosi in pazienti così ben trattati61. Infine, lo studio BEAUTIFUL si è rivolto principalmente a pazienti con cardiopatia ischemica e quindi a rischio di eventi ischemici più che a pazienti con insufficienza cardiaca (i sintomi o una pregressa ospedalizzazione per insufficienza cardiaca non erano richiesti come criteri di inclusione). È quindi verosimile che l’importanza dell’insufficienza cardiaca e l’incidenza dei relativi eventi siano state insuffi- 217 - Copyright - Il Pensiero Scientifico Editore downloaded by IP 54.211.3.239 Sat, 27 May 2017, 14:38:58 G Ital Cardiol Vol 11 Marzo 2010 sa, come è l’ivabradina. Le potenziali indicazioni a questo farmaco per migliorare la prognosi sono rappresentate dai pazienti con cardiopatia ischemica, al fine di ridurre l’incidenza di eventi ischemici, come suggerito dai dati del BEAUTIFUL60. Un’altra potenziale indicazione è rappresentata dai pazienti con insufficienza cardiaca, dato il significato prognostico sfavorevole della tachicardia in questa condizione. Il riscontro di un effetto favorevole sulla prognosi di un farmaco attivo sulla sola FC, come l’ivabradina, potrà essere la definitiva dimostrazione che la tachicardia contribuisce attivamente alla prognosi infausta dei pazienti e non è solo epifenomeno di una maggiore gravità della malattia. cienti per valutare la reale utilità di una riduzione della FC in questo contesto. Questo aspetto, vale a dire l’utilità della riduzione della FC nell’insufficienza cardiaca, è attualmente in corso di valutazione nello studio SHIFT (Systolic Heart failure Treatment with the If Inhibitor Ivabradine Trial). In questo studio, pazienti con insufficienza cardiaca e bassa frazione di eiezione (≤35%), in classe funzionale NYHA II-IV, sono randomizzati ad ivabradina o placebo. L’obiettivo primario è rappresentato dall’incidenza di mortalità cardiovascolare e ricoveri per insufficienza cardiaca. Considerazioni conclusive Gli studi riguardanti i nuovi farmaci inibitori della corrente If hanno, per ora, dimostrato come la riduzione selettiva della FC abbia un’importante azione antischemica, paragonabile a quella della terapia betabloccante. Ancora incerto è l’effetto di questo farmaco sulla prognosi in pazienti in trattamento anche con betabloccanti. Lo studio BEAUTIFUL non ha dimostrato effetti significativi sulla prognosi della riduzione della FC con ivabradina in pazienti con cardiopatia ischemica, disfunzione sistolica ventricolare sinistra e terapia ottimizzata, inclusi i betabloccanti. Un’analisi prespecificata dei pazienti con FC ≥70 b/min ha dimostrato una riduzione dell’incidenza di infarto miocardico, angina instabile e procedure di rivascolarizzazione con la somministrazione di ivabradina rispetto al placebo. Resta da dimostrare se la riduzione della FC con somministrazione di ivabradina abbia effetti favorevoli sulla prognosi dei pazienti con insufficienza cardiaca, di eziologia ischemica o non, in terapia ottimizzata, betabloccanti inclusi. È questo lo scopo dello studio SHIFT ancora in corso. Riassunto Il ruolo della frequenza cardiaca (FC), quale predittore indipendente di morbilità e mortalità cardiovascolare, è ancora controverso. Un’associazione causale tra FC e prognosi, sebbene plausibile e suggerita da molti studi epidemiologici e clinici con farmaci che riducono la FC, non è ancora supportata da evidenze dirette. L’introduzione degli inibitori della corrente If, di cui l’ivabradina è il capostipite, ha, per la prima volta, offerto la possibilità di interferire direttamente ed esclusivamente con la FC permettendo di validare la presenza di una relazione causale tra FC e prognosi. Lo studio BEAUTIFUL ha recentemente confermato che la FC è un potente indicatore prognostico sfavorevole in pazienti con cardiopatia ischemica e disfunzione sistolica ventricolare sinistra. I soggetti con FC a riposo >70 b/min sono risultati esposti ad un aumentato rischio di morte cardiovascolare e di eventi cardiovascolari maggiori. La riduzione della FC con ivabradina ha avuto un effetto favorevole sull’incidenza di eventi ischemici maggiori, anche se non sulla mortalità. Ulteriori dati diverranno disponibili con lo studio SHIFT in cui sono inclusi pazienti con insufficienza cardiaca e FC a riposo >70 b/min e l’obiettivo principale è la riduzione della mortalità cardiovascolare e delle ospedalizzazioni per scompenso cardiaco. Conclusioni generali. Ruolo della tachicardia e potenziali indicazioni alla riduzione della frequenza cardiaca come obiettivo terapeutico Parole chiave: Cardiopatia ischemica; Frequenza cardiaca; Ivabradina; Prognosi. Numerose ricerche hanno dimostrato in modo consistente come la tachicardia si associ ad una maggior incidenza di eventi e ad una maggior mortalità. È incerto se la relazione tra FC ed eventi cardiovascolari sia lineare oppure curvilinea. I dati più recenti fanno propendere per questa seconda ipotesi9. In questo caso, solo valori di FC relativamente elevati (≥70 b/min) avrebbero valore prognostico. La riduzione della FC è certamente un importante obiettivo terapeutico nel trattamento dell’ischemia miocardica e questo in misura relativamente indipendente dal farmaco impiegato (betabloccanti, calcioantagonisti non diidropiridinici, ivabradina). Più complesso è l’effetto della riduzione della FC sulla prognosi dei pazienti. Nei pazienti con pregresso infarto e, ancor di più, con insufficienza cardiaca, il calo della FC con terapia betabloccante si associa ad un miglioramento della prognosi. Tuttavia, questo è dovuto anche all’inibizione degli effetti dell’iperattività simpatica sul cuore. Viceversa, nei soggetti ipertesi, la riduzione della FC con betabloccanti tradizionali non sembra avere effetti prognostici favorevoli e questo sembra correlabile al loro mancato effetto sulla pressione aortica centrale16. La dimostrazione del significato prognostico della FC necessita di un farmaco che agisca selettivamente su di es- Bibliografia 1. Levine HJ. Rest heart rate and life expectancy. J Am Coll Cardiol 1997; 30: 1104-6. 2. Levy RL, White PD, Stroud WD, Hillman CC. Transient tachycardia: prognostic significance alone and in association with transient hypertension. JAMA 1945; 129: 585-8. 3. Kannel WB, Kannel C, Paffenbarger RS Jr, Cupples LA. Heart rate and cardiovascular mortality: the Framingham Study. Am Heart J 1987; 113: 1489-94. 4. Gillum RF, Makuc DM, Feldman JJ. Pulse rate, coronary heart disease, and death: the NHANES I Epidemiologic Follow-up Study. Am Heart J 1991; 121 (1 Pt 1): 172-7. 5. Benetos A, Rudnichi A, Thomas F, Safar M, Guize L. 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