INTERVISTA AL PROF. SANDRO GHERRO
di Annamaria Piacentini, Libero - 6 Agosto 2006



La disputa, agitata da Amedeo d'Aosta, sulla identificazione del "Capo di Casa Savoia", si riduce ad un inutile scontro di anacronistiche pretese dinastiche o ha qualche rilevanza in ambito giuridico?

Oltre le considerazioni che si potrebbero delineare circa l'attualità dell'istituto monarchico-costituzionale, che ancora molti ritengono superiore a quello repubblicano e riconducono  all'eredità storica dei Savoia, va evidenziato come la delineata questione abbia rilevanza giuridica sia nel vigente ordinamento dello Stato, sia  in quello della Chiesa.
"Casa Savoia" ha avuto riconoscimento perdurante dalla Repubblica a livello costituzionale, per quanto stabilito dalla ben nota XIII disposizione transitoria, abrogata solo nella parte relativa all'esilio. Questo riconoscimento va collegato con quello relativo "Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro", di cui alla XIV transitoria, che deve  trovare riscontri applicativi. L' "Ordine" è poi, per il diritto canonico, un'associazione pubblica di fedeli con scopo di carità e, forse, di culto, eretta dalla Somma Autorità della Chiesa in epoca medievale e dalla Chiesa ancora riconosciuta siccome esistente ed operante in conformità al mandato originario.
Poiché il  "Patrono" dell'ordine è, per gli antichi e ancor vigenti Statuti, il Capo di Casa Savoia, risulta come la relativa qualifica abbia effettiva rilevanza giuridica.


Amedeo d'Aosta sostiene di possedere questa qualifica, giacché Vittorio Emanuele l'avrebbe persa, per sé e per i suoi successori, per il suo matrimonio con Marina Doria senza l' "assenso" di Re Umberto che gli avrebbe fatto incontrare la sanzione prevista dalle Regie Leggi Patenti risalenti al 1700. Si tratta di una tesi che ha fondamento?

Assolutamente no. Le norme – ogni norma – esiste e può avere efficacia solo se contenuta in un sistema giuridico, cioè in un ordinamento.
In riferimento a quanto sopra, è evidente che le citate antiche Regie Patenti non sono parte dell'ordinamento dello Stato e neppure dell'ordinamento canonico.
Esse sono state, in realtà, implicitamente abrogate con la "rivoluzione" di Carlo Alberto che ha dato vita, promulgando lo Statuto Albertino, alla monarchia costituzionale. Questa, a differenza di quella previa, assoluta, dei suoi avi, trovava garanzia ineludibile del proprio ordine nella legge dinastica di successione che non poteva più trovare limitazioni nella volontà del Re secondo le Regie Leggi Patenti che specificavano il potere di questa volontà.
La prerogativa dell' "assenso" poteva essere stabilità, nel nuovo sistema a sovranità popolare, dalla legge. E qui allora qualcuno chiama in causa L'art. 69 del CC. del 1865 e l'art. 92 del Codice Civile del 1942 secondo i quali per la validità dei matrimoni dei principi e delle principesse reali era richiesto l'assenso del Re. Tali norme, tuttavia, non  comportavano sanzioni per il "tentativo di matrimonio senza assenso" e certo non privavano il Principe ereditario dei suoi diritti di successione. Le medesime erano poi inerenti al " matrimonio civile", non certo quello canonico, o a quello canonico con efficacia civile, giacché gli impedimenti a questo possono essere stabiliti solo dal Sommo Pontefice. 
 Con riferimento, comunque - e torno a quanto sopra - alla normativa dello Stato Repubblicano, è ben noto che le disposizioni dei due citati codici non erano vigenti al momento del matrimonio di Vittorio Emanuele. I diritti correlati al principio della successione per l' "ordine" erano e sono perciò solo quelli inerenti al rapporto di parentela, con privilegio del più prossimo rispetto agli altri.
(Amedeo d'Aosta,  secondo questa normativa non ha neppure un grado di parentela giuridicamente rilevante, stante la lontananza del suo "grado" rispetto a  re Umberto. Questa è stata, del resto, anche la pacifica interpretazione di cui si è giovato circa la disposizione sull'esilio. La sanzione della XIII non lo ha toccato, anche se riguardava la categoria dei "discendenti" dei Re d'Italia alla quale appartiene.  La sanzione gli è stata risparmiata perché è stata esclusa la sua possibilità di divenire il "Capo della Casa" e così il "pretendente" delle connesse funzioni: cioè la sua stessa appartenenza alla "Casa", e alla "famiglia", in senso giuridico-politico intesa,  dei Savoia. Né perciò si vede come, se non poteva diventare "Capo della casa" ieri, si possa proclamare tale oggi).
Con riferimento all'ordinamento della Chiesa bisogna ribadire che il matrimonio che dà titolo per la successione al Patronato sull'ordine dei Ss Maurizio e Lazzaro è solo quello religioso.
La considerata individuazione del "Capo della Casa" non può poi non valere, all'evidenza, oltre il riferimento all' "Ordine" e circa tutto ciò che questa comporta o si vuole che comporti.

 


Ma che cosa si potrebbe dire se si volesse riconoscere la rilevanza in sé – cioè indipendentemente dai collegamenti da lei indicati – delle antiche Regie Leggi Patenti o degli articoli dei Codici? Avrebbe, in questo caso, ragione Amedeo d'Aosta?


Devo ripetere che non vi sono norme senza sistemi di appartenenza. Se volesse far valere, ad esempio, i vantati diritti chiedendo l'applicazione delle Regie Patenti circa l'ordine dei "santi Maurizio e Lazzaro", Amedeo dovrebbe ricorrere ai Tribunali dello Stato e a quelli della Chiesa: e ciò sarebbe più ridicolo che assurdo.
Analogamente dovrebbe fare se volesse sostenere l'invalidità del matrimonio di Vittorio Emanuele così negando la successione di Emanuele Filiberto. Come non ha potuto "sentenziare da sé" la nullità del proprio matrimonio, così non può pretendere di sentenziare l'invalidità di quello di Vittorio Emanuele: anche qui siamo oltre il limite del ridicolo.
Tutte le norme considerate, inoltre, non prevedevano una "forma specifica" per l'assenso, sicché questo poteva essere anche tacito o implicito, preventivo o successivo. In proposito va allora considerato che re Umberto non assunse mai l'applicazione delle "Patenti" al figlio. Anzi si comportò in modo contrario. Fece il suo unico discorso pubblico da Re in esilio tenendosi al fianco Vittorio Emanuele e la moglie Marina. Poi insignì il nipote Emanuele Filiberto del titolo di Principe di Venezia: un titolo che era stato creato per designare l'erede alla Corona Ferrea del Regno Napoleonico che poi fu l'insegna dei Re d'Italia. E' evidente che Umberto prese atto del matrimonio del figlio escludendo l'applicazione di qualsivoglia sanzione in ambito successorio: o perché considerava abrogate le norme che le prevedevano; o perché ritenne di aver dato il consenso implicito; o perché intese di operare una sorta di "sanatoria" o di "autorizzazione successiva" che dir si voglia. Chi sostiene il contrario imputa a Umberto un comportamento scorretto: e cade ancora in ragionamenti capziosi e all'evidenza contraddittori.



Ammesso tutto questo, che dire delle affermazioni rese dalla Presidenza della Consulta del Senatori del Regno e dalla sorella di Vittorio Emanuele che hanno avvallato, se non provocato, il "pronunciamento" di Amedeo.

Il mondo è pieno di buontemponi che attribuiscono qualifiche e titoli assumendo – senza dimostrare come e perché - di possederne la fondata autorità. Ci si può proclamare conti, principi, re ed anche imperatori senza far del male a nessuno, ma certo senza possibilità di lucrare effettivi riconoscimenti giuridici.

Prof. Sandro Gherro
Ordinario di Diritto Ecclesiastico nell'Università di Padova
Avvocato della Curia Romana per nomina della Segreteria di Stato Vaticana