13/11/2009
ALESSANDRO CARIELLO: I GIORNI DI MALDOROR
Il direttore della fotografia del film piů ricercato rimette in fila i suoi ricordi, tornando a quel lontano 1975...
Quando all’inizio del 2007, organizzammo con la Sala Trevi di Roma una retrospettiva dedicata al cinema di Alberto Cavallone, invitammo a presenziare a una tavola rotonda anche Alessandro Cariello, che con Cavallone aveva lavorato in qualità di direttore della fotografia al misterico Maldoror. Cariello, da anni trasferitosi a vivere in Danimarca, fu impossibilitato a presenziare all’incontro, ma ci scrisse una lettera nella quale rintracciava i giorni della lavorazione del film, in particolare quelli di Viareggio e Livorno, dove era ambientata la prima parte, quella più onirica e simbolica, di Maldoror. Già avevamo intervistato Cariello anni prima, per il primo dossier Misteri d’Italia. Ma in questa memoria egli rinviene particolari sulle scene del film che allora non erano emersi…
Vorrei ricordare quello che posso, per tessere almeno una sequenza cronologica delle scene che girai per Maldoror. Anche se mi è difficile. Alberto privilegiava le immagini nel racconto cinematografico ed era geloso della sua sceneggiatura che raramente faceva leggere; lasciava solo leggere in parte agli attori i dialoghi da memorizzare. Personalmente, se avessi dovuto dare una continuità fotografica al film non avrei potuto. Io la sceneggiatura la lessi in parte, un solo giorno ad Izimir, dove ci imbarcammo su un traghetto con tutta la troupe. Alberto era incavolato nero: aveva litigato con gli attori. Mi disse: «Gira tu, segui quello che c’e scritto, io ho bisogno di rilassarmi...» e se ne andó sul ponte del traghetto a prendere il sole.
Era stressato, la cooproduzione turca gli aveva creato dei grossi problemi logistici, tutto era approssimato; e oltre a dirigere il film, faceva un gran lavoro di organizzazione della produzione.
Credo che per lui il film nascesse al momento delle riprese traendo spunto dalla sua grande fantasia.
La sceneggiatura era una bozza approssimativa. Leggendo la storia del cinema sappiamo che diversi registi lavoravano seguendo la loro creatività al momento delle riprese, basta ricordare Roberto Rossellini. Personalmente posso citare un episodio di un altro regista che trattava la sceneggiatura come Alberto. Lavoravo con Sergio Citti per la RAI, a una serie di episodi filmati che servivano da spunto per una trasmissione alla quale seguiva un dibattito in studio con vari psicologi.
Un giorno Citti mi disse, nel suo colorito dialetto romanesco: «Ma ndo c… ho messo la sceneggiatura?». Io gli risposi che non l’avevo mai vista - immaginavo una cartella dove fossero scritti tutti gli episodi. Lui replicó: «Ma sì, ce l’avevo qui prima!».
Finalmente la trovó: la “sceneggiatura” stava in una tasca posteriore dei suoi jeans, era un solo foglio dattiloscritto piegato a croce.
I filmati erano semplici duravano sette otto minuti, ricordo, ma quella “sceneggiatura” mi sembrava un pó ridotta. All’ora di pausa mi raccontó che Pier Paolo Pasolini faceva lo stesso, le scene di Accattone erano quasi tutte improvvisate. A Roma c’è una burocrazia assurda per girare un film; se questo si puó capire per le esigenze di traffico quando si gira in zone nevralgiche della cittá, non si capiscono, peró, i tempi biblici per avere i permessi. Per questo, Citti mi disse che quando giravano Accattone non avevano permessi e Pasolini improvvisava sul posto. La scena della morte di Accattone quando cade con la motocicletta venne improvvisata sul Ponte di Testaccio.
Mi sembra di dedurre che i bravi registi potrebbero anche fare a meno della sceneggiatura; il film, per loro, nasce con quel filo logico che si forma nella mente pian piano, con la loro fantasia. Questo era Alberto Cavallone: l’improvvisazione piú pura che sapeva ben organizzarsi per creare un racconto con le immagini...
L'INIZIO
Maldoror, da quello che ricordo nella proiezione muta di un premontato, iniziava con delle immagini oniriche che girammo a Viareggio
In mezzo a una strada della periferia i macchinisti stesero un telo bianco. Dovevo inquadrare quel telo “senza sforare” come si dice nel gergo cinematografico, cioè senza inquadrare l’impalcatura di sostegno del telo. Quando il film iniziava, sullo schermo si aveva l’effetto che il proiezionista avesse acceso il proiettore e non avesse ancora avviato la pellicola. Non c’erano titoli né alcun tipo di grafica. Il telo veniva lacerato da un crocefisso che teneva un prete alla testa di una processione (il crocefisso, non molto nitidamente, riproduceva un pene sulla cui punta era posta una lametta da barba). Alberto voleva dire che lo schermo era un imene da deflorare per far entrare il suo racconto filmato.
Per cui, vedendo il film, si aveva l’effetto che lo schermo del cinema venisse tagliato...
LA PROCESSIONE
Nella processione, il prete era seguito da strani personaggi con costumi carnevaleschi, che ricordavano le uniformi africane della guerra in Abissinia. Seguivano due carri di carnevale, con sopra delle giovani donne nude o parzialmente coperte. Ricordo che una era vestita solo di una cartucciera di mitragliatrice
Quella scena proseguiva con un ballo su una terrazza di un albergo con le note di un valzer dell’epoca fascista e le canzonette della guerra d’Africa. Alcune donne erano in topless anche se indossavano abiti leggermente diversi, stile anni Trenta.
IL MATRIMONIO
Poi realizzammo un’altra scena a Livorno dove un prete diceva messa in una chiesa che era stata bombardata durante la guerra ed era rimasto, in sintesi, solo parte dell’altare. Era uno sposalizio.
La sposa era piuttosto sexy: indossava un velo bianco, mutandine e reggiseno bianco, e un reggicalze che sosteneva delle calze bianche. Lo sposo mi pare di ricordare fosse un negro (se dicessi un “bianco” nessuno si offenderebbe; qui in Danimarca si offendono se dici “uomo di colore”).
LA COMUNIONE
Girammo una scena dove il prete serviva messa e il chierichetto era una spogliarellista americana che, ancheggiando, portava sull’altare al posto del vino una Coca Cola. Quattro ragazzini inginocchiati si apprestavano a ricevere la comunione… credo che nell’immaginazione di Alberto fosse una prima comunione. La “chierichetta” vestita come le cameriere del club di Playboy reggeva un piattino d´argento, i ragazzi sporgevano la lingua e il prete con un rasoio la tagliava, con schizzi di sangue eccetera… tutto vero. Per il trucco erano state preparate delle lingue di capretto, colorate per apparire come lingue vive e riempite con quelle vescichette di sangue che si usano al cinema: i ragazzini le tenevano strette fra i denti. Ricordo che guardando nella loupe faceva un bell’effetto: immagino sullo schermo…
Queste scene, anche se non conosco il motivo conduttore del film, erano episodi simbolici che Alberto usava come dissacrazione della Religione della Guerra e della Politica.
LA SPIAGGIA DI SOLVAY E IL MATTATOIO
Sempre a Livorno realizzammo delle scene sulla spiaggia di fronte allo stabilimento della soda Solvay. Servivano ad Alberto perché il mare aveva una colorazione innaturale di un pallido azzurro-verdastro, dovuto probabilmente agli scarichi dello stabilimento. Qui facemmo una scena sulla spiaggia dove una ragazza dava un morso a un uomo staccandogli il pene. Io chiesi spiegazione della simbologia di quella scena e Alberto, ridendo, mi disse: «Quello sei tu!». Poi mi spiegó… «Il regista è un evirato senza pene, che non puó possedere le immagini e ha quindi usualmente bisogno di un operatore che lo sostituisca». La sua rabbia simbolica la esprimeva staccandogli il pene.
Girammo delle scene anche al mattatoio. Oltre alla mattanza dei vitelli - riprese molto drammatiche - filmammo una donna nuda che nasceva dal ventre di una vacca.
A ROMA
Poi tornammo a Roma e nei teatri di Cristaldi, a Prima Porta, sulla Flaminia, filmammo altre scene oniriche.
In una coreografia di grande libertà immaginativa c’era in scena una sedia girevole, bianca, da barbiere. Una bara con dentro il corpo di un cardinale e altre cose che non ricordo.
C'era una scena in cui al figlio di Alberto veniva rotto in testa un uovo crudo: sul pavimento erano sparpagliate le foto dei politici dell’epoca e in una danza satirica Jak La Cayenne ballava un tip-tap calpestando le facce di alcuni di loro, ma mi sembra di ricordare che si bloccasse nel movimento della danza quando il suo piede finiva sulla foto di Fanfani e su quella del Papa
In un’altra scena, una donna vestita come la figura femminile che rappresenta l’Italia nelle carte bollate, con uno scettro in testa e una tunica lunga, girava e rigirava sulla sedia da barbiere; poi un uomo fermava la sedia e quando l’Italia scendeva veniva sodomizzata: niente di pornografico, la donna rimaneva vestita e solo l’uomo faceva il gesto di calarsi i pantaloni. Nel dettaglio si scopriva che l’uomo aveva una trivella di ferro al posto del pene. La simbologia era che l’Italia veniva sodomizzata, ma non so da chi e perché.
Da quello che ricordo, qui terminava la lavorazione della parte fantastica del film.
Poi la troupe si spostó in Turchia…
Alessandro Cariello
(a cura di Davide Pulici)
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